Politica
di Giovanni Marcotullio
Un giornale mai visto
Abbonati agli albi cartacei de La Croce e all’archivio storico del quotidiano
Più di una volta, noi che abbiamo visto l’invisibile gestazione de La Croce e ne abbiamo curato ogni più piccolo dettaglio, ci siamo detti l’un l’altro: «Questa è una cosa che nel giornalismo italiano non si è mai vista».
L’esperto in comunicazioni si renderà conto a colpo d’occhio, anche solo guardando la prima pagina del numero zero, che un broadsheet a sei colonne è l’ossatura di un disegno di pagina inedito fino ad oggi. Le particolarità tecniche de La Croce sono tante e tali che ci vorrebbe un numero intero a renderne ragione (e forse neppure basterebbe); tuttavia, dal momento che compaiono in un quotidiano e non in un testo di grafica del giornalismo, vale la pena che almeno le più rilevanti vengano portate allo sguardo di ogni lettore.
Pochissimi, sicuramente, saranno rimasti inchiodati dicendo: «Mamma mia, ma questo è un broadsheet a sei colonne!»; più di qualcuno, però, avrà osservato con meraviglia gli hashtag nei titoli, gli schizzi di inchiostro e sangue sulla testata, le testatine realizzate in stencil e, se nessuno avrà provato a “tappare” col dito sulle parole “taggate” (per vedere se tante volte sarebbe apparsa sulla pagina una finestra), tuttavia quello a cui questa pazzia fosse venuta in mente si sarebbe orientato a capire La Croce. La pazzia de La Croce. «E allora perché un giornale cartaceo – si dirà – e non uno telematico?». Per l’appunto: osservare la paradossale novità editoriale de La Croce è rispondere a questa semplice domanda (e alle sue complesse componenti). A capo.
Un giornale deve “avere carattere”, e per definirlo abbiamo scelto tre famiglie di font, la cui storia è tanto interessante quanto descrittiva della pagina in cui confluiscono: i titoli e i testi dei nostri articoli sono in Depot, una famiglia realizzata nel 2006 da Chris Dickinson, enfant prodige britannico della tipografia. Linea semplice, tratto “senza grazie” e spaziatura riposante sono la cifra del design di Dickinson, la cui ricerca grafica si focalizza proprio sull’interscambio tra il web e la carta. Gli occhielli, invece, sono composti in Fairplex Narrow, una famiglia di font disegnata da Zuzana Licko nel 2002: inconfondibile per le sue molto particolari “grazie”, il Fairplex Narrow propone una sintesi dei due mondi dell’alfabeto latino – quello librario-europeo e quello informatico-statunitense. Difatti la Licko è nata a Bratislava e a 23 anni, emigrata in California, ha co-fondato l’editrice grafica “Emigre” a due passi da quella mitologica Cupertino che in quello stesso 1984 cominciava a immettere nel mercato il “progetto Macintosh”. I casi in cui basta un planisfero per ammirare la fecondità culturale dell’informatica. Infine c’è il Viper Nora, creato nel 1999, che marca le testatine di rubrica e batte lo scorrere delle pagine: il suo autore è Dimitris Kolyris, un designer greco che ha votato il suo lavoro a rendere disponibili (con licenza gratuita!) font che comprendono insieme set di caratteri latini e greci. La sua lezione raccoglie quella, di Giovanni Paolo II, sulla necessità di una cultura che respiri “a due polmoni”, e il Viper Nora – pur senza essere tecnicamente un vero e proprio “stencil”, come invece è il Capture it della testata, disegnato da Koczman Bálint (ungherese) – rimanda chiaramente alla street art. La strada, i libri e la rete sono quindi i riferimenti de La Croce; l’oriente e l’occidente gli orizzonti di cui studia le interazioni; lo spirito cristiano l’asse della sua rivoluzione – e per questo la comunicazione che ne risulta non può che essere laica, ovvero cattolica.
Carattere a parte, perché otto facciate di broadsheet dovrebbero proporsi come una novità? Perché è nuova la loro gestazione, nuova la loro origine, nuovo il loro fine – e con questo rispondiamo anche alla domanda sul “perché un giornale cartaceo nell’era del digitale”. Fin dall’inizio, ossia da Voglio la mamma, noi esistiamo perché un popolo si è spontaneamente ritrovato a parlare di “cose antiche e cose nuove”; cose che il resto dell’informazione da tempo dichiara estranee al sentire della “gente” (ora sorridendo, ora ghignando, ora ringhiando). Internet e i social network ci hanno permesso di appurare come tutti noi – che abbiamo anzitutto queste domande critiche da porre alla società attuale – risultiamo molto capillarmente diffusi sul territorio nazionale, e che altrettanto diffusi sono quelli interessati alle risposte invocate dalle nostre domande. Se dunque è grazie al web 2.0 che ci siamo trovati e ri-conosciuti, è però impossibile restarvi e costituire lì una presenza rilevante nel dibattito pubblico, e questo per due motivi.
Anzitutto perché l’altra faccia della ricchezza della rete è l’immensa dispersività della sua offerta: internet ha permesso a chiunque (o quasi) di esporre se stesso e ciò che pensa a costo zero (o quasi), e tra sciocchezze innumerevoli vi sono pure molte cose degne di essere lette e pensate da tanti, ma infinite possibilità deprimono ogni scelta. Noi osiamo operare una scelta, e proporla ogni giorno in otto pagine diffuse su tutto il territorio nazionale (e oltre – sempre grazie al web).
Per questo la carta ha un vantaggio tuttora insuperato sul digitale: entra nel mondo vero, sta in mano alle persone, si affaccia sulle strade dove la gente porta a passeggio i cani. A dispetto di ogni formato elettronico e digitale, e malgrado le loro enormi potenzialità, è nel mondo fisico che gli uomini si troveranno sempre ad avere a che fare con la verità di loro stessi: parafrasando Shakespeare, perfino i nostri malanni ci garantiscono dalle ideologie (basta un mal di denti perché nessuno possa credersi un padreterno). Per questo motivo ci ostiniamo a stampare su della lussuosissima cartastraccia il meglio che – dalla strada al web, passando per i libri – l’intelligenza e il senso comune ispirano e dettano.