Chiesa
di Giovanni Marcotullio
Francesco & Kirill: una nuova geopolitica ecumenica
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Un sombrero messicano che da Cuba veniva e a Cuba è tornato, ieri sera. Ci sono espedienti narrativi che, quando si trovano in una sceneggiatura, sono il segnale che quell’oggetto, o quel posto, o quell’incontro, o quelle persone, stanno per vivere qualcosa di importante ai fini della storia. E così il sombrero indossato da Papa Francesco ieri pomeriggio, mentre volava sopra l’Atlantico alla volta dell’isola caraibica, gli è stato consegnato dalla giornalista (messicana) che durante lo scorso viaggio di Papa Francesco a L’Avana lo aveva riportato in Europa da parte di una famiglia (cubana ma di origini messicane), che desiderava farne dono al pontefice. «Glie lo darò io – aveva promesso loro la giornalista – se lui manterrà la promessa di venire in Messico». La promessa è stata mantenuta, ma chi poteva immaginare, fino a qualche settimana fa, che il sombrero messicano sarebbe tornato da Roma a Cuba in testa al Papa argentino?
La suggestiva congiuntura fa da accessorio a un evento di per sé più “storico” che epocale: anche se non è esatto dire che un Papa latino e un Patriarca moscovita non si incontravano da mille anni (perché mille anni fa non esisteva il patriarcato moscovita, costituito solo nel 1593 da Melezio Pigas a Costantinopoli), è pur vero che non si erano mai incontrati. Il polo russo del cristianesimo data infatti al primo millennio (convenzionalmente ci si riferisce al battesimo di Vladimir di Kiev, avvenuto nel 988), dunque prima che la cristianità conoscesse lo scisma d’Oriente (1054); ma il patriarcato moscovita non è stato accolto nella cerchia degli altri che già esistevano, e che erano all’epoca cinque, se non dopo più di cinque secoli, quando in Occidente già si bruciavano eretici e Lutero stesso, dopo aver contribuito a dividere la Chiesa latina, aveva schivato il rogo per pura fortuità.
Come se non bastasse la cornice del passato, anche quella del presente offre all’incontro tra Francesco e Kirill dei connotati straordinari, che di per sé si candidano a entrare nelle pagine della grande Storia: oggi la Chiesa ortodossa russa è il polo numericamente più rappresentativo dell’ortodossia tutta; al contempo il Papa romano è un uomo che viene “quasi dalla fine del mondo”. Se si considera poi che il rango patriarcale fu conferito a Mosca perché «Dio l’aveva giudicata degna dell’Impero», – dunque la città diventava “terza Roma” dopo la prima “l’antica” e “la nuova”, Costantinopoli – è ancora più singolare che l’incontro sia avvenuto fuori dal “vecchio continente”, che tra i fuochi di queste tre grandi città imperiali si era più volte fatto e disfatto.
Diplomazia, si dirà, e certamente a buon titolo. Ma chissà che altro pure. «Tu chiamami e io vengo – così Papa Francesco ha più volte raccontato di aver detto per telefono al confratello Kirill – dimmi dove venire e io vengo». Per motivi la cui gran parte sfugge senz’altro alle cronache mediatiche, in poco tempo si è formata la congiuntura opportuna allo storico incontro.
«Certamente c’è ancora molto da appianare tra noi – ha detto il moscovita incontrando il romano – ma è bello potersi incontrare ed abbracciare». «Non c’è dubbio – gli faceva eco questo – che è volontà di Dio che questo accada. Siamo fratelli!». E l’ironia della storia disponeva un Castro a fare da testimone e garante ai capi di due Chiese cristiane fino a poco fa immerse in tanto atavica ostilità (una di esse ci era addirittura nata dentro) che nessuno sperava di poter vedere l’abbraccio di ieri.
La triangolazione “Santa Sede-Mosca-Cuba” non è del tutto inusitata, nella storia recente, ma mentre nel 1962 Cuba si configurava come base missilistica per l’Unione Sovietica contro l’estremità dell’asse atlantico, adesso gioca la parte dell’ospite e della garante alla costituzione di un altro asse, non direttamente politico eppure non privo di ricadute – anche forti – sullo scacchiere dei potenti del mondo. Sembra essere di questo avviso anche Donald Trump, il quale (pur ignorando forse la suggestiva storia del sombrero papale) ha salutato la vigilia del viaggio papale dichiarando: «Non penso che il Papa comprenda la gravità del pericolo per gli Usa rappresentato da una frontiera aperta col Messico. Penso che i messicani lo hanno spinto a fare questo gesto perché vogliono mantenere la frontiera perforabile, come è oggi. Loro ci guadagnano sopra una fortuna e noi perdiamo».
È vero che Francesco avrebbe voluto, in occasione del viaggio apostolico dello scorso autunno negli Usa, arrivare in territorio statunitense passando via terra dalla frontiera messicana, ma non lo fece proprio perché i messicani preferirono non prestarsi a simili illazioni di certi loro burrascosi vicini di casa.
E comunque è difficile dire che Trump abbia torto nel definire Papa Francesco “a very political person”, mentre si dovrà vedere se dopo questa affermazione si potrà dire lo stesso di lui, a conti fatti: facendo di sé la caricatura del “wasp” certamente si aliena le simpatie politiche del Vescovo di Roma, ma molto più imprudentemente si attirerà le antipatie di una buona fetta di mondo cattolico che vota largamente repubblicano per opporsi alla deriva liberal dei democratici (e nella fattispecie avrebbe preferito Trump anche solo per non disperdere voti), ma che non avendo ancora espresso la propria preferenza nelle primarie avrà certamente un elemento di più su cui riflettere.
Papa Francesco è oggi in terra messicana – “Mexixo siempre fiél”, soleva ripetere Giovanni Paolo II – e l’immaginario xenofobo di Trump e dei suoi elettori vede i flussi migratorî alle frontiere come una falange di missili da far rimpiangere quelli sovietici. In questi viaggi ravvicinati, che tentano di cucire punti di sutura tra nord e sud, tra est e ovest, si ha ben più di una vaga “retorica dei ponti” (di cui fin troppi laudatores riempiono pagine ed etere): viene di fatto incoraggiato e sospinto un diverso modello di civiltà moderna. Benestante ma non egoista, produttiva ma non consumista, liberale ma non liberista, democratica ma non anarchica: questa è la città degli uomini che il magistero di Papa Francesco, in piena continuità con quello dei suoi predecessori, traccia e incoraggia a fondare. «Il futuro del mondo – soleva ripetere Giovanni Paolo II, che della dialettica tra est e ovest aveva fatto uno dei punti costanti della propria riflessione – non è New York e non è Mosca».
Chiaramente non si sarà parlato primariamente di queste cose, nelle due ore di colloquio tra i due: quando la Chiesa ha fatto sanamente la politica mondana, l’ha fatta sempre in seconda battuta e quasi per effetto collaterale alla propria missione: un asse tra la Santa Sede e il trono patriarcale numericamente più pesante al mondo significa il ridimensionamento del fattore atlantico sullo scenario internazionale e un contestuale incremento della presenza slava – e nel quadro europeo e in quello mondiale. Se dunque i due si sono trovati d’accordo per azioni concrete che volgano a tamponare il più possibile le minacce che nel Medio Oriente insidiano le comunità cristiane, ciò significa che le Chiese opereranno conseguentemente per indirizzare i governi ad azioni collettive e sovranazionali che “fermino l’aggressore ingiusto” senza lasciarlo in preda al saccheggio di capibanda autocostituitisi.
L’altro fronte geopolitico che i due avranno certamente toccato è quello ucraino, ma anche lì le questioni territoriali dei prodromi e dei postumi dell’Unione Sovietica si mischiano a diatribe puramente ecclesiali e canoniche: ricordavamo sopra come il più giovane dei patriarcati storici rivendichi i suoi “quarti di nobiltà ecclesiastica” proprio a partire da Kiev, e dunque l’indipendenza cultuale dell’Ucraina è problematica per Kirill quasi quanto quella politica lo è per Putin. Anche un interlocutore che, come Papa Francesco, abbia dichiarato l’uniatismo “un errore storico” – sconcertando non poco le chiese uniati, che non poco hanno tollerato per restare fedeli a Roma, ma vincendo alcune diffidenze russe in merito – non può condannare le espressioni locali di fede e culto, quali quelle di cui è simbolo ad esempio il patriarcato ortodosso di Ucraina (né si tratta di un caso unico: oscilla da quattro a otto il numero dei patriarcati moderni non in comunione con una o con tutte le chiese patriarcali storiche).
Questo però resta un problema interno al mondo ortodosso, ben più di quanto non sia uno specifico ostacolo al dialogo di Mosca con Roma. Un’altra cosa di cui sicuramente Francesco e Kirill avranno parlato è il sinodo panortodosso annunciato per il 2016 e che davvero sarebbe una novità storica dal potenziale inestimabile. Chi pensa però che il problema dell’ortodossia sia il papato romano non sa quanto proprio il papato romano potrebbe giovare ad alcune delle gravi tensioni intestine del mondo ortodosso.
Ecco, poiché ieri abbiamo visto una cosa che un anno fa nessuno sperava di vedere, oso azzardare un auspicio molto audace: che il sinodo panortodosso voglia invitare, nella forma che si troverà più opportuna e congeniale, il vescovo dell’antica Roma a partecipare all’assise sinodale. Le ferite storiche delle Chiese potrebbero guarirsi l’una con l’altra, e con l’aiuto di Dio la loro concordia le porterebbe a riconoscere che incontri come quelli di ieri sono già l’espressione della cattolicità e dell’unicità della Chiesa. Apostolica e santa. Che nulla ha da perdere, se non le catene; tutto il mondo ha da guadagnare, per consegnarlo a Dio.