Società
di Giovanni Marcotullio
Parigi-Bruxelles: solo i cristiani possono far superare lo scontro di inciviltà
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Gli attentati di ieri mattina a Bruxelles hanno confermato una volta di più l’inadeguatezza della società occidentale secolarizzata a fronteggiare le insidie che la attaccano, specie quando esse vivono e covano all’interno di questa. Tre bombe in un aeroporto e in una stazione metro, due luoghi simbolo della “società aperta”; duecento feriti e più di trenta morti, compresi i kamikaze (almeno due dei tre che sarebbero dovuti saltare in aria) – questo il bilancio in fredde cifre. Come da copione, l’Isis rivendica l’azione regalando a Donald Trump il vento in poppa per la volata finale alle primarie (e forse resterà ancora della strizza emotiva per il voto vero e proprio).
Le destre nazionaliste europee guadagnano terreno e hanno buon gioco di inasprire i toni paraxenofobi, le sinistre socialdemocratiche (o che tali pretesero di essere) sono all’angolo come un pugile suonato e devono scegliere tra finire a tappeto o adottare anch’essi i toni delle destre (come ha fatto lo stesso Hollande). Lo scopo? Placare la paura delle masse e scongiurarne una deriva panica servendosi di tutti i mezzi, a cominciare dall’indizione della caccia all’untore.
Bruxelles dopo Parigi
Il filo rosso che lega i due fatti di sangue è sotto gli occhi di tutti: quali che siano gli ingranaggi reconditi della vicenda, le bombe hanno indiscutibilmente a che fare con l’arresto di Salah Abdeslam. Quando Jean-Jacques Urvoas, ministro della Giustizia francese, ha dichiarato che il mandato d’arresto europeo avrebbe consentito di ottenere una risposta “rapida” in merito all’estradizione del terrorista in Francia i media hanno presentato quei “sessanta, massimo novanta giorni” come un eccezionale strappo alle normali procedure. «Voi forse ancora ve pensate – pare di sentire il monsignor Colombo del compianto Nino Manfredi – de’ sta’ qua a giudica’ Giordano Bruno»: la stessa distanza che c’era tra il caso Bruno e il caso Monti & Tognetti balza oggi agli occhi tra la “giustizia” europea e le fulminee reazioni del terrorismo islamista. Tre giorni appena per architettare una punizione esemplare e farla scattare. Tre giorni dell’Isis contro i tre mesi dell’Europa, e ce lo hanno detto gli stessi terroristi via Telegram: «Pianificazione e attuazione a grande velocità». C’è di che riflettere, soprattutto perché la posizione di Salah all’interno dell’Isis è difficilmente valutabile, a oggi, da parte di esterni e profani quali siamo: sicuramente una risorsa dalle importanti energie organizzative, il giovane attentatore sarebbe comunque dovuto morire suicida, il 13 novembre. Invece è sopravvissuto e le sue reti lo hanno tenuto in vita, nascosto e protetto per cinque mesi. Questo è un altro aspetto interessante: nella società ossessionata dall’efficienza, in cui non si concederebbe un mese a un derattizzatore per disinfestare uno stabile, se ne accordano volentieri cinque a più corpi di polizia per setacciare un solo quartiere di un’unica città – il colmo, poi, è che quella stessa società sia pesantemente affetta dal tic del giustizialismo.
Bruxelles come Parigi
Bisogna vedere se l’estradizione sarà concessa, ora che la capitale belga ha nel petto le stesse ferite della sua omologa francese, per quanto sia vero che conservarsi in casa quell’ospite scomodissimo – i giornali dicono che Salah “collabora”: che significa? Dirà il vero? L’Isis può accettarlo? – senza neanche poter applicare su di lui la legge del taglione metta in una situazione tutt’altro che auspicabile. Sempre via Telegram, però, sappiamo che i rivendicatori dell’uno e dell’altro attentato non hanno cambiato idea circa la scala delle operazioni: «Ce ne saranno ancora, in Europa». Dall’altra parte dell’Atlantico Trump ripete il suo ritornello, che non pare più scemo come ieri, neanche ai suoi detrattori: «Io chiuderei le frontiere». E poco importa che confonda l’Isis col Medioriente e questo, genericamente, con “gli arabi”. La gente ha paura e lui lo sa, ma non è vero che «gli attacchi non li fanno gli svedesi, bensì gli arabi»: il secolarismo europeo, e in misura significativa proprio quello scandinavo, ha svuotato l’Occidente della sua anima, rendendolo poco più di una bella casa ammobiliata e senza padroni. Trump e i suoi epigoni (europei e italiani) dicono che il problema sono le frontiere, ossia le chiavi del portone di casa; noi osiamo osservare, restando in metafora, che quando il padrone non ricorda più di cosa è fatta quella casa e come le porte servano sia da aperte sia da chiuse quello delle chiavi è un problema tutto sommato marginale. È una questione fisica: dove l’argine del logos cede, nell’illusione che allo spirito umano non occorrano guide e freni, quello stesso spazio – divenuto generico “vuoto” – viene riempito dalla prima e/o dalla più potente forza nei paraggi. Non necessariamente buona, non necessariamente razionale. Ma non si può dire che le erbacce “facciano male” a prosperare in un campo lasciato a sé stesso: ovviamente i terroristi hanno delle (gravissime) responsabilità morali, ma non sono responsabilità più grandi quelle di chi pretende di essere rispettato e – avendo fatto strame delle ragioni della propria dignità – non sa spiegare a sé stesso (figuriamoci a un aggressore) perché dovrebbe effettivamente esserlo.
Bruxelles più di Parigi
Insomma, ogni volta che entra in gioco un fondamentalismo irrazionale come quello islamista noi rifiuteremo irenismi da un lato e semplificazioni grossolane dall’altro: l’Islam ha una sua responsabilità intrinseca e oggettiva, in questa temperie (lo dice anche il piddino Khalid Chaouki), ma non per questo un mussulmano (in Europa o altrove) è un terrorista. Troveremo invece molto più importante vagliare la consistenza della costituzione occidentale dell’Europa: certo, è la filosofia politica di Ratzinger che ci ispira, e ad ogni lago di sangue ci sentiamo sempre più confermati nell’aver sempre fatto tesoro della lezione di Ratisbona. Non dimentichiamo però che anche Ernst-Wolfgang Böckenförde ha fatto osservazioni complementari: la società aperta si fonda su principî che a sua volta non è in grado di fondare (e quindi garantire). In tal senso nessun attentato è uguale all’altro, e le ferite di Bruxelles bruciano forse più di quelle di Parigi. Al Bataclàn era sera, perlomeno, un venerdì sera: si capiva bene che la gente comune fosse rilassata e che sia stata presa di sorpresa (lo stesso non vale per le forze dell’ordine, che avevano ricevuto l’allarme dei servizî segreti). Nella metropolitana belga e nell’aeroporto, invece, erano le otto del mattino di un ferialissimo martedì: in quale altro momento i nervi di una società e di una città dovrebbero potersi considerare più lucidi e reattivi? Quella davanti a cui si trova l’Europa è un’idra dalle innumerevoli teste, che si moltiplica in numeri e forze lì dove viene colpita, e che passa al contrattacco là dove non ce lo aspettiamo.
Proprio il quadro mitologico della lotta di Ercole con l’Idra di Lerna offre una lezione simbolica a cui l’Europa dovrebbe avere l’umiltà di tornare. Se il semidio ragionasse con la testa di un Trump qualsiasi (ne abbiamo anche sul suolo europeo o italiano) menerebbe botte a destra e a manca, confidando nella sua forza sovrumana e rimanendo infine soverchiato dalla furia belluina della sfuggente e multiforme avversaria. Il fuoco invece è l’elemento che, cauterizzando le ferite doverosamente inflitte dall’eroe al mostro, interrompe il circolo vizioso e permette la vittoria finale del bene sul male, cioè dell’ordine sul caos. Perché questo dice il mito, nel suo linguaggio (che è quello archetipico): il fuoco, nella Weltanschauung greca (da Esiodo a Eraclito), è l’elemento razionale peculiare dell’uomo, in forza del quale si distingue dagli altri animali e si avvicina al numinoso. Né più né meno di ciò che disse Benedetto XVI a Ratisbona.
L’“opzione Benedetto”
Ma c’è un’altra prospettiva che prende piede, ed è quella sviluppatasi negli ambienti conservatori statunitensi e divenuta nota col nome di “Benedict option”: l’opzione Benedetto è come viene chiamata la complessa formula di una componente cristiana della società che scopre all’improvviso di non essere così determinante come per decenni s’era illusa di essere, e che per questo si disillude sull’azione politica diretta e si consacra alla missione di diventare un mistico serbatoio di civiltà per una ripresa futura. Si capisce facilmente perché tale opzione porti il nome dell’eremita di Norcia: non poté fermare i Barbari (come non li avrebbe fermati il suo biografo, Papa Gregorio), ma la sua opera paziente e costante valse all’Occidente l’accumulo di riserve spirituali enormi che ne hanno garantito – per così dire – la sopravvivenza oltre il letargo.
La tesi è innegabilmente suggestiva, e offre il considerevole vantaggio “psicologico” di potersi subito pensare come destinati a un’altra missione, piuttosto che come semplici falliti. Ciononostante, essa non mi pare tenere in considerazione almeno tre aspetti, di cui due storici e uno dottrinale. Il primo degli aspetti storici riguarda il “sitz im-Leben” della “Benedict option”: tale prospettiva ha infatti per cornice il bipartitismo statunitense, che se per un verso non si sottrae alla progressiva metamorfosi nel denociano partito radicale di massa, per l’altro vive di estremismi e massimalismi estranei alla cultura politica europea (e tanto più italiana). Il secondo, storico pure questo, è sulla correttezza della lettura di Benedetto e della sua figura: lo stesso Benedetto XVI disse nel 2008, proprio a Parigi, che «per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione [di Benedetto e dei suoi compagni, n.d.r.] di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quærere Deum, cercare Dio». E proseguiva poco oltre: «Si dice che erano orientati in modo “escatologico”. Ma ciò non è da intendere in senso cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o verso la propria morte, ma in un senso esistenziale: dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo».
Ma veniamo al terzo punto, più strettamente dottrinale: tenendo quel discorso al Collège des Bernardins, il 12 settembre 2008, Benedetto XVI parlava pure (tra gli altri) a dei delegati della comunità musulmana francese: a questi spiegava come e perché il libro sacro cristiano, analogamente a quello ebraico ma differentemente da quello islamico, richieda di per sé un processo esegetico intrinsecamente votato ad accordarsi alla retta ragione nel trascendimento del senso letterale del testo. A quella stessa platea, inoltre, ricordava che la divinità cristiana – differentemente da quelle pagane – aveva santificato l’attività lavorativa praticandola nella creazione e infinitamente di più con l’Incarnazione della sua seconda Persona: «Del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola, una cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili. Questo ethos dovrebbe però includere la volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura».
È quindi impossibile escludere l’azione “politica” in nome del cristianesimo – se si intende così l’“opzione Benedetto” – perché «i cristiani – sono sempre parole di Papa Ratzinger – […] dovevano […] sentirsi chiamati in causa dalla parola di Gesù nel Vangelo di Giovanni, con il quale Egli difendeva il suo operare in giorno di Sabato: “Il Padre mio opera sempre, e anche io opero” [5,17]».
In fondo, il vero motivo per cui l’“opzione Benedetto” sembra nel complesso più un mesto ripiego di un’aspirazione frustrata che un frutto genuino della speculazione cristiana si riconosce in questo: di rado vi si sente vibrare quella “simpatia immensa” di cui Paolo VI parlava all’epilogo del Concilio Vaticano II. Senza sopravvalutare quell’entusiasmo, che cinquant’anni dopo lo stesso Benedetto XVI ci ha testimoniato essersi dolorosamente stemperato sulle asprezze della storia, va tuttavia raccolto un altro aspetto della vicenda, contestualmente evidenziato da Papa Montini: «La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un anatema? Poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio».
Cosa c’entra Paolo VI con la Benedict option e con gli attentati di Parigi e Bruxelles? È presto detto: non è in corso uno scontro di civiltà tra cristianesimo e islam, perché quello avvenne in secoli di grande rigoglio del pensiero islamico (e di relativa stagnazione della speculazione cristiana), mentre il problema odierno del dialogo tra cristianesimo e islamismo è precisamente che quest’ultimo non riesce ad accogliere alcune delle istanze “moderne” del cristianesimo, che questo covava in nuce dentro di sé ma che sono maturate nel confronto col mondo secolarizzato. Lo scontro in atto è un scontro di inciviltà: da un lato un islam regredito a religione tribale di tagliagole esaltati (perché avversi all’integrazione tra la retta ragione e l’esperienza di fede); dall’altro “il dramma dell’umanesimo ateo”, che ha lungamente propagandato la propria apoteosi e che di fronte agli assalti del terrore non sa rendere ragione della propria millantata divinità.
Il cristianesimo, invece, possiede come dote peculiare la proprietà di poter abbracciare il prossimo, perfino quando è nemico, e di convertirlo con la propria sola “conversatio”, ovvero col suo modo di vivere. Questo “modo di vivere” – imperniato sul rapporto vivo e vivificante con Cristo Gesù, creduto risorto e operante nel mondo con poteri di signoria suprema – è stato classicamente riassunto in quattro punti: leitourgía, diakonía, koinonía, martyría. Prima di tutto la preghiera, a partire dalla celebrazione pubblica del mistero cristiano all’interno della comunità dei credenti – senza di questo il cristianesimo diventa un ciclo di conferenze, mentre fermandosi alla sola liturgia esso diventa un passatempo per esteti raffinati. La traduzione immediata della celebrazione del Mistero di Cristo è la conformazione a Gesù come servo di tutti: il cristiano ha “una simpatia immensa” verso il mondo non perché sia mondano, ma perché si ricorda come lo aveva accolto e curato il divino Samaritano quando era mondano lui. Il servirsi a vicenda di tutti i membri di una comunità produce la comunione, cioè la libertà redenta di condividere insieme il dono ricevuto da ciascuno: è una rivoluzione che scavalca ogni utopia e trascende tutte le rivoluzioni, lasciandosele alle spalle come piccinerie di gente meschina. In ultimo, questa comunione diventa testimonianza ed evangelizzazione: «Guardate come si amano!», racconta Tertulliano che solevano esclamare i pagani. E Tertulliano stesso, che fu appassionato apologeta del cristianesimo e panegirista dei martiri, sapeva bene a quale prezzo potesse arrivare tale testimonianza. Tale è il destino reale e mistico del cristianesimo nel mondo, né c’è motivo di pensare che da oggi in poi possa andare altrimenti (perché, poi?).
Tutto ciò mi conferma nella convinzione che solo il cristianesimo possa integrare l’Islam in Europa, senza combatterlo e senza annichilirsi: nessuno dei regni barbarici che fece tremare i monaci di Benedetto resistette al fascino di quella sfrontata mitezza, tutti divennero cristiani, e senza neanche smettere di essere “barbarici”. Questo miracolo il cristianesimo può farlo ancora, sia con l’islam sia con l’Europa, che se non fosse tanto dimentica di sé potrebbe forse risparmiarsi tante inutili stragi. Il cristianesimo imperniato su Gesù, non sui “valori” (negoziabili o non): questo solo può operare quel miracolo. Accogliere tutti, anche i nemici, senza risparmiare ad alcuno l’evangelizzazione, anche a costo di porgere mille volte l’altra guancia – questo solo i cristiani possono farlo.