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di Francesca Centofanti

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Sono un’insegnante oramai da ventisei anni, ma se guardo indietro sembra passato solo uno schiocco di dita.

Non mi capita spesso di parlare di me, ma quando succede dico sempre: 《io, insegnante ci sono nata》, sta scritto nel mio dna.

Non ho genitori o nonni che abbiano intrapreso la stessa carriera (che poi carriera non è), nè nessuno che me l’abbia lasciata in eredità. Però all’età di 6 anni, quando solitamente i bambini fantasticano sul loro futuro lavoro senza nessuna pretesa di essere presi sul serio alla domanda 《cosa vuoi fare da grande?》, io non avevo dubbi. Volevo diventare una maestra.

Così a 18 anni mi sono ritrovata alla mia prima esperienza come supplente annuale a Carsoli. Ho lasciato le sicurezze e le comodità di casa mia e sono andata a vivere lì. Lavoravo in una piccola scuola paritaria portata avanti da cinque suore, che mi hanno accolto e coccolato come madri e sorelle, ma ero l’unica insegnante laica, ancora in fase adolescenziale, in un paesino lontano dal mondo con pochissimi giovani e a me totalmente sconosciuto. Ho sofferto terribilmente la solitudine. Mi era permesso uscire pochissimo, come da direttive lasciate alle care consorelle dai miei genitori. Dormivo nella mia aula. Il mio letto era nascosto nell’armadio. Scansavo un pochino le sedioline, aprivo le ante e scendevano giù rete e materasso.

Nella mia sezione c’erano trentaquattro alunni tra i tre ai cinque anni. Tra loro c’era Riccardino, un bimbo piccolo e secco con la capigliatura arancio carota. Saltava continuamente da un banco all’altro cercando di scappare dalle finestre che quindi tenevo rigorosamente chiuse. Un giorno, mentre cercavo di riacchiapparlo, mi ritrovai stesa per terra con tutti e trentaquattro i bambini addosso, non sto esagerando. Li avevo tutti e trentaquattro addosso.

Vent’anni fa Riccardo era considerato semplicemente un bambino caratteriale. Quindi non erano previsti aiuti, nessun sostegno per gestire la situazione. Quel bimbo semplicemente caratteriale però stava riuscendo a mettere profondamente in crisi il mio desiderio di diventare maestra. Di fronte a lui si palesavano le mie abissali incapacità di un’ insegnante alle prime armi, come me.

Oggi la situazione sarebbe diversa. Avrei una diagnosi chiara in mano: un disturbo da deficit di attenzione con annessa iperattività, disturbo anche detto ADHD o evolutivo dell’autocontrollo. Sarebbero bastate queste poche parole per tranquillizzarmi e per dire a me stessa: 《Coraggio non sei un’incapace. Coraggio ce la puoi fare. Coraggio non sei un’incapace》. Invece piangevo tutte le notti e desideravo tornare a casa. Sapevo che sarebbe stata una sconfitta per me, ma finalmente sarei stata al sicuro, a casa mia.

Ringraziando Dio non l’ho fatto. Sì, grazie a Dio e a Riccardo pel di carota, che ha messo a dura prova la mia vocazione, non ho mollato. Grazie a lui, dopo quell’esperienza, la certezza di voler diventare una maestra è diventata granitica. Riccardo è stata la conferma che volevo davvero donare tutta la mia vita ai bambini. Volevo crescere con loro, imparare da loro. Combattere per loro. Divertirmi insieme a loro. Condividere con loro tutto l’amore che avevo dentro.

Oggi, sono un’insegnante da 26 anni e mai neanche un giorno ho pensato che avrei potuto scegliere un’altra strada. Perché insegnare è la mia vita, non è il mio lavoro. Lo dico a tutte le persone che, in assenza d’altro o come ripiego, cercano di entrare nel mondo della scuola, magari attratti scioccamente dalle vacanze estive. Insegnare non è un lavoro, è una vocazione, è una missione. Lo devi desiderare fin dal profondo delle tue viscere. Devi sentire che ti scorre nel sangue. Devi imparare ad attingere forza ed energie da un sorriso, da un abbraccio o da un disegno di te che occupa tutto il foglio per dirti quanto sei importante. Da un 《ti voglio bene maestra… 》. Devi imparare a ricaricarti nelle piccole cose perché per il resto del tempo è un darti, darti, darti e ancora darti. E allora quei mesi di vacanza sono come la prescrizione medica dei giorni che necessiti per ritornare a darti.

Perché vi assicuro che dare sé stessi a lungo andare è logorante, stressa, destabilizza….esaurisce. A meno che tu non abbia imparato a riempirti e fare benzina dalle piccole meraviglie quotidiane, da un piccolo progesso, da una gita con loro, da un bimbo autistico che finalmente ti guarda negli occhi, da quell’altro che per sbaglio ti chiama mamma. Queste sono cose che solo una maestra impara a fare. È un segreto tutto suo. Perché esistono poi invece anche altri insegnanti, quelli che lo fanno per portare la pagnotta a casa, senza vocazione. Per necessità. Tra questi c’è chi sopravvive, ma alcuni di loro schiattano e a volte vanno anche a finire sui giornali, perché i loro alunni, poveri inconsapevoli, li opprimono con le loro continue richieste, con i loro pianti, le loro urla, i loro capricci. Con il loro essere semplicemente bambini. E logorati, questi insegnanti senza vocazione, cedono al più terribile dei pensieri: considerare quelle piccole creature, acerrimi nemici. Coloro che gli tolgono la serenità, la libertà. E vi assicuro che dopo 26 anni di insegnamento non parlo per sentito dire, ma so sulla mia pelle di cosa parlo, so cos’è il logorio. Ho conosciuto la stanchezza. Il nervosismo. Il desiderio (dopo anni e anni di mense con più di 100 bambini che urlano) di scappare su un’isola deserta. La tentazione di mollare tutto perché a sessantacinque anni come potrò ancora farmi carico di una classe di ventisei cinquenni?

Ma c’è qualcosa che ogni volta mi fa cambiare idea. Qualcosa che anche nei momenti più bui mi ridona il sorriso. Qualcosa che solo ad una maestra è dato di provare. Ed è la voglia pazzesca di stare con i miei bambini. È una sensazione di pienezza che spazza via ogni dubbio, che sopperisce a tutta la stanchezza, che mi ridona quella forza che oramai credevo perduta. È un pensiero che ho tatuato nel mio cuore, un pensiero che mi dice che anche se mi togliessero lo stipendio, io continuerei a fare la maestra per il resto della mia vita.

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05/04/2017
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