Politica
di Vittorio Pellicano
L’Italia si merita una scuola libera
Abbonati agli albi cartacei de La Croce e all’archivio storico del quotidiano
ARTICOLO TRATTO DALLA VERSIONE PER ABBONATI, SOSTIENI
QUI http://www.lacrocequotidiano.it/abbonarsi-ora
La recente decisione del Sindaco di Torino di ridurre i fondi pubblici alle scuole cattoliche fa tornare alla ribalta un tema – quello del finanziamento dell’istruzione e della connessa libertà d’insegnamento – su cui si sono espressi numerosi autorevoli pensatori, sia del passato (De Tocqueville, Rosmini, Mill, Salvemini, Friedman, von Hajeck, Gramsci, Einaudi, Sturzo solo per citare i più illustri) che contemporanei (su tutti Antiseri e Capaldo). Nello stesso tempo il dibattito tocca le corde di un sistema, quello della formazione e dell’istruzione, che vede il nostro Paese in una situazione di preoccupante arretratezza rispetto ai partner delle principali aree industrializzate del mondo.
Nel 2013 l’Italia si è collocata al quart’ultimo posto tra tutti i paesi dell’OCSE (cfr. OECD, Education at Glance 2016) in termini di spesa totale (pubblica e privata) per tutti i tipi di istruzione (dalle scuole elementari all’istruzione universitaria e post universitaria) in rapporto al prodotto interno lordo (4 per cento del PIL rispetto a una media OCSE del 5,2 per cento e una media dell’Unione Europea del 4,9 per cento); all’istruzione è stata attribuita una quota di bilancio esigua rispetto ad altri settori: nel 2013, infatti, l’Italia ha stanziato il 7,3 per cento della spesa pubblica complessiva – tra i 35 paesi OCSE solo l’Ungheria ha stanziato per l’istruzione una quota di spesa pubblica inferiore – livello decisamente inferiore alla media dei Paesi OCSE (pari all’ 11,3 per cento) e dell’Unione Europea (pari al 10 per cento).
Non è un caso se nel nostro Paese gli adulti non studenti di età compresa tra 25-64 anni che hanno raggiunto il più elevato grado di istruzione (laurea, master, o dottorato) sono solo il 18 per cento, livello tra i più bassi (penultimo) di tutti i paesi OCSE (dove in media tale percentuale è pari al doppio di quella italiana) ed europei (dove in media tale percentuale è superiore di un terzo rispetto a quella italiana).
Un elevato grado di istruzione oltre a produrre effetti sociali positivi (buona salute, qualità della vita) influenza la possibilità di accesso al mercato del lavoro (il tasso di disoccupazione dei laureati è sempre più basso rispetto alla popolazione con un livello di istruzione inferiore) e il livello del reddito (mediamente nei paesi OCSE chi ha conseguito la laurea guadagna il 50 per cento in più di chi possiede un diploma di scuola secondaria superiore). Più in generale l’investimento in istruzione produce risultati positivi non solo per gli individui ma anche per la società, crescenti all’aumentare del livello di istruzione.
Recenti indagini sulla qualità dei sistemi scolastici dei Paesi più sviluppati del mondo posiziona l’Italia a un livello inferiore alla media (un rapporto realizzato dall’Economist Intelligence Unit ci colloca al 25-esimo posto sui 40 classificati).
Cosa fare per invertire questa tendenza e migliorare lo stato di salute del nostro sistema scolastico e dell’istruzione in generale?
Per poter affrontare serenamente la questione – sempre a rischio “ideologizzazione” con effetti negativi sugli approfondimenti necessari ad una comprensione esaustiva del problema – è opportuno sviscerare la tematica partendo dalle fondamenta. Occorre, in altre parole, ripercorrere le tappe che giustificano l’intervento statale in campo formativo e rispondere alle seguenti domande: perché l’istruzione è importante per una società? È giusto che denari pubblici vengano impiegati per finanziare la formazione dei bambini/ragazzi? È desiderabile che i soggetti erogatori dell’istruzione siano necessariamente/prevalentemente operatori pubblici?
Nel discutere di questi temi, al fine di formulare alcune proposte, focalizzeremo l’attenzione sull’istruzione obbligatoria, che abbraccia la scuola primaria e gran parte di quella secondaria, tralasciando per il momento l’istruzione facoltativa rappresentata sostanzialmente dalla formazione universitaria e post universitaria che, per via delle sue peculiarità (si tratta di formazione specialistica), necessita di una trattazione separata (anche se alcune soluzioni che proponiamo per l’istruzione di base possono essere applicate alche alla formazione di livello superiore).
Giustificazioni per l’obbligatorietà, la gratuità e la “statalizzazione” dell’istruzione primaria e secondaria. Una società stabile e democratica non può esistere senza che i suoi membri abbiano un minimo livello di alfabetizzazione (saper scrivere, leggere e fare di conto) e abbiano fatto propri alcuni valori comuni. L’istruzione di base di un individuo nell’età fanciullesca e pre-adolescenziale non va a beneficio solo suo e della sua famiglia ma dell’intera collettività. Essa è così importante che l’autorità pubblica ha il dovere di assicurarla a ogni bambino/ragazzo almeno fino ad una certa età (in Italia 15 anni). Dall’obbligatorietà della scuola di base ne deriva la sua gratuità: la società per via delle accennate esternalità è disposta a farsi carico, attraverso la fiscalità, dei costi necessari a garantire a tutti standard minimi di istruzione. D’altra parte la gratuità è necessaria per far rispettare l’obbligo minimo: a differenza di altri casi di esternalità nel caso dell’istruzione dei minori sarebbe molto difficile imporre il rispetto dell’obbligo a quei genitori che non potessero sostenerne il costo.
Per queste ragioni la scuola di base (primaria e secondaria) in gran parte dei paesi del mondo è obbligatoria e gratuita.
Se l’imposizione di un livello minimo d’istruzione e il suo finanziamento a carico della fiscalità generale trovano giustificazione nelle esternalità che da essa scaturiscono, tutt’altro discorso merita il tema della gestione degli istituti scolastici e delle modalità attraverso cui far pervenire ad essi i denari che la collettività decide di destinare a tale finalità. Sotto questo profilo la “statalizzazione” della scuola (ovvero la gestione dell’istruzione in via esclusiva da parte dell’operatore pubblico) è un aspetto molto più difficile – se non impossibile – da motivare.
Tra le varie argomentazioni a sostegno della scuola pubblica – nessuna in vero convincente – viene spesso richiamata l’uguaglianza delle opportunità di partenza. Sotto questo profilo la presenza quasi monopolistica dello Stato nella fornitura dei servizi scolastici sarebbe motivata dalla supposta superiore capacità dello Stato di garantire l’uguaglianza delle opportunità di istruzione (corollario dell’uguaglianza delle condizioni di partenza) e, per questa via, una maggiore coesione tra soggetti con condizioni economico sociali diverse. Evidenze empiriche sembrano dimostrare tuttavia il contrario. La scuola pubblica, anziché ridurre le differenze di classe, potrebbe aumentarle. Sotto certe condizioni la presenza quasi monopolistica dello Stato nella fornitura dei servizi scolastici può diventare il principale motivo della disparità delle condizioni di tra gli individui. Nel campo dell’istruzione coloro che appartengono alle classi con un reddito superiore hanno la libertà di scegliere se mandare i propri figli alla scuola pubblica o se mandarli a quella privata. Nel caso ritengano quest’ultima di livello superiore essi saranno disposti a pagare due volte: con le imposte per finanziare la scuola pubblica e con il pagamento delle rette scolastiche per far frequentare ai propri figli la scuola privata. Le persone appartenenti alle classi di reddito più basse ovviamente non potranno sostenere questo doppio onere e dovranno accontentarsi della scuola pubblica. Nel caso quest’ultima dovesse essere di livello inferiore a quella privata – cosa che spesso accade – essi saranno in partenza svantaggiati. E lo saranno nonostante la collettività abbia deciso di destinare ingenti fondi per prevenire questa evenienza! Questo paradosso potrebbe essere scongiurato solo nel caso in cui ritenessimo, per qualche ragione fantasiosa, la scuola pubblica in grado di garantire, sempre e comunque, una qualità dell’istruzione superiore a quella offerta dal privato. Se a livello teorico è difficile trovare argomentazioni a favore di questa tesi, l’esperienza pratica – purtroppo – in un numero non irrilevante di casi sembra far prevalere elementi di giudizio a favore della tesi contraria!
Il problema delle differenze rimarrebbe anche se si immaginasse di adottare la soluzione – peraltro illiberale – di vietare le scuole private. Spesso le scuole pubbliche migliori sono situate nelle zone della città a più alto reddito (dove il controllo da parte dei genitori della qualità della scuola è ancora una realtà) e dove generalmente è più difficile per un povero trasferirvisi. E ciò a dispetto del fatto che le spese d’istruzione per alunno nelle zone periferiche (nonostante qualità dell’istruzione sia enormemente più bassa) siano dello stesso livello di quelle delle zone residenziali a reddito medio alto.
L’amara conclusione è che un’istituzione concepita per consentire a tutti i bambini e ragazzi uguali opportunità, in pratica rafforzi la stratificazione sociale e dia luogo a condizioni che determinano opportunità in realtà molto disuguali. Non è un caso dei il nostro Paese nel panorama internazionale si contraddistingua per una pessima mobilità intergenerazionale per quanto riguarda il livello di istruzione. In Italia per i figli di genitori con un basso livello di istruzione la probabilità di usufruire dell’”ascensore sociale” (di accedere cioè attraverso lo studio ad un livello di istruzione più elevato) è la più bassa tra tutti i paesi dell’OCSE: tra gli italiani di età compresa tra 25 e 44 anni non studenti con genitori che hanno un livello di istruzione inferiore alla scuola secondaria superiore, il 54 per cento non ha conseguito un diploma di scuola secondaria superiore – rispetto a una media OCSE del 30 per cento – e solo l’8 per cento ha conseguito un livello d’istruzione almeno pari alla laurea – rispetto ad una media OCSE del 22 per cento.
Talvolta per giustificare la presenza prevalente dello Stato nella gestione degli istituti scolastici viene tirato in ballo il “monopolio naturale”, secondo cui la superiorità della scuola pubblica deriverebbe dalla sua dimensione: siccome la scuola è una organizzazione di dimensioni teoricamente molto ampie – affermano i sostenitori di questa tesi – le economie di scala che ne derivano giustificano la presenza nel settore di un solo operatore. Il difetto di questo ragionamento è ovvio quanto banale: la produzione di servizi in regime di monopolio porta inevitabilmente a una scarsa efficienza; in regime di concorrenza un’impresa può accrescere le sue dimensioni solo se produce un bene o un servizio che il consumatore preferisce per qualità o prezzo ad altri. Quando il consumatore è libero di scegliere la grande dimensione può sopravvivere solo se è efficiente. La sola dimensione non consentirà mai a nessuna impresa di imporre al consumatore un prodotto che per il consumatore non vale il suo prezzo. E questo vale anche per la scuola. Il problema è che nella scuola obbligatoria, con il monopolio pubblico, questa scelta non c’è. O meglio c’è – come detto – solo per le persone appartenenti a classi di reddito elevato, le uniche che conservano la libertà di scelta.
Per una scuola libera e per un maggior ruolo dei genitori. Per imprimere una inversione di tendenza all’andamento insoddisfacente del nostro sistema scolastico e aumentarne sia l’efficienza che l’equità, in presenza di risorse “scarse” (considerato il non proprio florido stato delle nostre finanze pubbliche), può essere necessario sottoporre l’intero settore a una “cura” a base di concorrenza che consenta di migliorare i servizi contenendo i costi. Occorre, per usare una metafora attribuita a Don Luigi Sturzo, grande sostenitore della scuola libera, «aprire le finestre e fare entrare una buona corrente d’aria di libertà, altrimenti vi si morirà asfissiati».
La scuola andrebbe, senza troppi giri di parole, “destatalizzata”. Nella scuola, così come in qualunque altro settore, il consumatore deve poter essere libero di scegliere e, soprattutto, di poter esercitare, tramite la scelta, un controllo sull’operato del produttore. E il controllo, nel caso della scuola, deve poter essere operato dai genitori dei ragazzi destinatari del servizio sulla base dei risultati raggiunti dalle singole scuole, misurati da apposite agenzie che dovranno rendere pubbliche le proprie analisi. Destatalizzare, sia chiaro, non significa abolire la scuola pubblica, ma soltanto abolire il quasi monopolio che caratterizza il settore.
In Italia l’istruzione, dalla scuola dell’infanzia a quella primaria fino a quella secondaria, riguarda circa 8,9 milioni di ragazzi che sono iscritti, nel 91 per cento dei casi, nei 44 mila istituti pubblici esistenti (il restante 9 per cento degli studenti affluisce in 12 mila scuole paritarie). La schiacciante prevalenza degli istituti pubblici va di pari passo con le modalità di finanziamento delle scuole: nel 2014 40,3 miliardi di euro sono affluiti alle scuole pubbliche a fronte di poco meno di 500 milioni di euro trasferiti alle scuole paritarie (in soldoni ciò significa che ogni alunno della scuola pubblica costa allo Stato mediamente 5.000 euro annui a fronte dei 600 euro di uno studente della scuola paritaria).
Nell’educazione dei bambini e dei ragazzi è utile che vi sia una pluralità di punti di vista mentre è quanto mai dannoso che ve ne possa essere uno solo, specie se proveniente da un monopolista spesso inefficiente e sciupone come lo Stato.
L’educazione dei bambini e dei ragazzi spetta, in primo luogo, ai genitori. In campo istruttivo compete ai papà e alle mamme scegliere cosa è meglio per i loro figli, esattamente come fanno per quanto riguarda la scelta dei vestiti, di una baby sitter o di cosa cucinare a pranzo e a cena. Il ruolo coercitivo dello Stato non fa altro che deresponsabilizzare i genitori in quello che dovrebbe essere, naturalmente, il loro primo impegno: l’educazione dei figli. I genitori devono avere la libertà di scelta della scuola, quando siano convinti che essa risponde nel modo migliore ai bisogni del propri figli. Questo include le scuole private. La possibilità di scelta tra scuole pubbliche e private non rappresenta soltanto una promozione della concorrenza di qualità ma irrobustisce anche l’interesse dei genitori nei confronti della scuola dei loro figli e li legano pure alla vita quotidiana della scuola.
Detastalizzare non significa che lo Stato deve rinunciare al potere di indirizzo e controllo sull’istruzione che continuerebbe ad essere esercitato dagli organi a ciò preposti (in primis Parlamento e Ministero dell’Istruzione) sia attraverso la definizione delle linee guida, nell’ambito delle quali potranno essere sviluppati i programmi di studio, che attraverso la verifica del rispetto di detti indirizzi da parte delle scuole operanti nel settore (sia private che pubbliche).
La soluzione: il buono scuola. Il finanziamento della scuola da parte dello Stato da un lato, e la gestione dell’istruzione dall’altro, sono due aspetti che possono essere tenuti separati. Se quella parte di spesa pubblica attualmente destinata all’istruzione – come visto più di 40 miliardi di euro annui – venisse messa a disposizione, pro quota di tutti i genitori, a prescindere dalle scuole che fanno frequentare ai propri figli, nascerebbe immediatamente una grande quantità di scuole disposte a soddisfare le loro esigenze. Nello stesso tempo le famiglie acquisirebbero un’arma efficacissima per esercitare il controllo sull’operato di scuole e professori sulla base della valutazione dei risultati elaborati dalle predette agenzie.
Uno strumento semplice ed efficace per permettere ai genitori una maggiore libertà di scelta, mantenendo nello stesso tempo le attuali fonti di finanziamento, è rappresentato dal sistema dei “buoni scuola”. Attraverso il buono scuola lo Stato mette a disposizione di tutte le famiglie per ogni ragazzo in età scolare una somma di denaro, di importo pari ad una frazione della spesa pro capite sostenuta per l’istruzione, spendibile sia nella scuola pubblica che in quella privata. Il buono scuola è uno strumento che non modifica né l’obbligatorietà della scuola, né la sua gratuità (il suo finanziamento da parte dei pubblici poteri attraverso la fiscalità generale) ma rappresenta un mezzo che consente innanzitutto di ristabilire l’equità tra chi può permettersi la scuola privata e chi non può permettersela.
Come sottolinea Milton Friedman, premio Nobel per l’economia e primo sostenitore del buono scuola già partire dagli anni 60 del secolo scorso «..un modo per raggiungere un più sensibile miglioramento, per far sì che le aule scolastiche tornino ad essere luoghi dove si impara, specialmente nei casi attualmente più svantaggiati, consiste nel dare a tutti i genitori un controllo maggiore sull’istruzione dei loro figli, quale quello di cui continuano a godere anche oggi i genitori che appartengono alle classi di reddito superiore. I genitori sono, generalmente, molto interessati all’istruzione dei loro figli e hanno, più di chiunque altro, una conoscenza profonda delle loro capacità e delle loro esigenze».
Un sistema strutturato attraverso il buono scuola risponderebbe efficacemente alle lamentele di quelle famiglie che inviando i figli ad una scuola privata sono costrette a pagare due volte. Ma soprattutto di quelle famiglie – e cominciano ad essere tante – che non potendosi permettere questa doppia spesa si sentono prigioniere di una scuola pubblica che spesso non funziona. Il sistema del buono scuola potrebbe inoltre incoraggiare i genitori a spendere di più per l’istruzione aggiungendo una piccola quota alla somma messa a disposizione dallo Stato.
Il buono scuola oltre a migliorare l’equità contribuirebbe ad aumentare l’efficienza del sistema scolastico. La maggiore concorrenza avrebbe l’effetto di far nascere una provvidenziale varietà di scuole e di programmi contribuendo a introdurre maggiore flessibilità nei sistemi scolastici. Con l’introduzione del buono scuola si creerebbe una vasta gamma di alternative e di provider dell’istruzione. Oggi, infatti, possono reggere “l’urto” del monopolio statale quasi ed esclusivamente le scuole cattoliche. Le famiglie si responsabilizzerebbero nello scegliere per i propri figli i percorsi educativi migliori diventando, attraverso l’arma del buono scuola, gli unici “giudici” della bontà delle istituzioni scolastiche presenti sul mercato; in alcuni casi le famiglie stesse, dando vita ad organizzazioni no profit potrebbero ideare dei percorsi formativi ritagliati sulle reali esigenze dei propri figli.
Ovviamente le scuole private per poter ricevere il buono dovrebbero essere “certificate” ovvero validate dalla Stato. L’ampliamento dell’offerta a disposizione delle famiglie avverrebbe sempre nell’ambito di un perimetro delimitato dall’attività di indirizzo e controllo esercitata dai pubblici poteri (che ovviamente non dovrebbero sabotare i privati restringendo i criteri di riconoscimento). Andrebbero in tale ambito sviluppati adeguati meccanismi di controllo dei risultati raggiunti dagli istituti scolastici in termini di qualità del livello di istruzione impartita e individuate idonee forme di pubblicizzazione e diffusione al pubblico di detti risultati al fine di consentire scelte informate da parte dell’utenza.
La ricerca di corsi formativi al passo con i tempi per accaparrarsi gli studenti migliorerebbe la qualità delle attrezzature tecniche presenti nelle scuole (es. computer, lavagne e libri elettronici, oggi scadenti se non inesistenti nella scuola pubblica). Una maggiore libertà di definire i programmi potrebbe ristabilire un corretto rapporto tra tempo per la scuola e tempo dedicato alle attività sportive (oggi relegato al poco tempo lasciato libero ai ragazzi dagli asfissianti programmi delle scuole pubbliche).
Le scuole si contenderebbero i migliori professori, si aprirebbero degli spazi per i giovani docenti (oggi il nostro corpo docente è il più anziano tra tutti i Paesi OCSE) e per gli insegnanti di sesso maschile (il settore scolastico italiano è caratterizzato da una delle quote di presenza femminile più alte al mondo).
Per quanto riguarda il salario degli insegnanti il sistema del buono scuola avrebbe il pregio non tanto di innalzarli (che pure è un problema visto che a livello retributivo la situazione del nostro corpo docente è tra le peggiori nell’ambito di tutti i paesi OCSE in termini relativi – il rapporto tra il salario percepito in media da un insegnante italiano della scuola secondaria e quello di un suo connazionale con un grado di istruzione di terzo livello è del 72 per cento, rispetto ad una media OCSE dell’89 per cento), ma di renderli meno rigidi e uniformi. I cattivi insegnanti sono oggi pagati troppo e quelli bravi troppo poco. Gli aumenti retributivi tendono ad essere uniformi e svincolati dalla capacità e dal merito. Gli aumenti retributivi conseguenti all’anzianità di servizio disegnano per il nostro Paese un profilo di carriera degli inseganti molto più piatto rispetto a quanto avviene in altri paesi (dopo 15 anni di servizio l’incremento del salario di un’insegnante italiano varia dal 20 al 25 per cento – a seconda del livello di istruzione della scuola di appartenenza – rispetto al 33-37 per cento della media OCSE). L’attuale struttura salariale degli insegnanti mira ad allontanare chi è dotato di immaginazione e ad attirare candidati mediocri. Il buono scuola invertirebbe questa tendenza.
La scuola pubblica uscirebbe dal torpore in cui versa oggi: si dovrebbe finalmente confrontare ad armi pari, pena la fuoriuscita dal mercato, sul terreno dei contenuti e dei programmi con le realtà private; arruolerebbe, in competizione con i privati, i docenti migliori; si doterebbe delle infrastrutture adeguate alle nuove esigenze; la sua dimensione sarebbe determinata dalla quantità di “clienti” che attira e non dalle assegnazioni di alunni operate dalla burocrazia.
Da ultimo – last but not least – la libertà di scelta che caratterizza la soluzione del buono scuola metterebbe fine alle sterili e continue polemiche sul rispetto, nella scuola pubblica, delle cosiddette “diversità” (di religione, di sesso, di razza e…… chi più ne ha più ne metta!), concetto che oggi viene utilizzato per finalità di diverso tipo, spesso in modo strumentale.
I pregiudizi sul buono scuola e i falsi miti in materia di scuola pubblica e scuola privata. Il dibattito sulla scuola libera è pieno di pregiudizi (spesso alimentati dall’ideologia più che dalla ragione) e di falsi miti. Proviamo a sfatarli.
Si sente spesso dire che la scuola privata è un privilegio per ricchi e un eventuale maggiore diffusione delle scuole private andrebbe a discapito dei ceti meno abbienti e amplierebbe le differenze tra le classi sociali. I ricchi tutti da una parte e i poveri dall’altra. Si tratta – come visto – di un affermazione infondata dal momento che l’introduzione del buono scuola può consentire ai poveri di frequentare scuole che oggi si possono permettere solo i ricchi. Sotto questo profilo il buono scuola può diventare la carta di liberazione delle persone meno abbienti.
La questione egualitaria viene tirata in ballo anche per criticare l’opportunità, offerta ai i genitori dal meccanismo proposto, di aggiungere facoltativamente all’importo del buono dei denari ulteriori per migliorare l’istruzione dei figli. Questa facoltà sarebbe appannaggio solo di chi se lo può permettere e non di tutti. In sostanza – secondo questa critica – i genitori che non hanno reddito sufficiente non aggiungerebbero nulla al buono mentre i ricchi lo integrerebbero abbondantemente. È una argomentazione bizzarra e un po’ ipocrita se si considera che anche in assenza del buono chi se lo può permettere accede a dei livelli di istruzione più costosi; ma lo è ancor di più in quanto non tiene conto dei sacrifici che talvolta le persone meno abbienti sono disposte a fare per l’istruzione dei propri figli (e che sono impediti dall’attuale sistema).
Collegata sempre agli aspetti egualitari è infine la critica secondo cui il buono scuola favorirebbe solo i ricchi che non dovrebbero pagare più due volte per il servizio ma non aggiungerebbe nulla al povero che rimarrebbe relegato in scuole di serie b. È senz’altro vero che il buono scuola migliorerebbe la qualità dell’istruzione a disposizione dei ricchi (o ne allevierebbe l’onerosità) ma in misura minima; il vantaggio dei poveri sarebbe più che sufficiente a compensare il fatto che qualche genitore ricco o con reddito medio eviterebbe di pagare due volte per l’istruzione dei suoi figli.
Altro pregiudizio: il buono scuola finirà soltanto per finanziare le scuole private esistenti senza alcun miglioramento della qualità del servizio mentre le scuole pubbliche rimarranno tali e quali e continueranno ad affluirvi soltanto i poveri. Non ci saranno in sostanza innovazioni di alcun tipo. La risposta a questa obiezione è che nel momento in cui dovessero riversarsi sul mercato dell’istruzione tutti i denari che oggi confluiscono quasi esclusivamente sulla scuola pubblica si svilupperebbe un mercato dove oggi non esiste. Molti operatori, in primis coloro che provengono dalla scuola pubblica, sarebbero interessati ad entrarvi. A fianco a società a scopo di lucro molte scuole nuove sarebbero sviluppate da associazioni no profit. La composizione del sistema scolastico in questo nuovo scenario sarebbe determinata solo dalla concorrenza. Solo le scuole capaci di soddisfare la propria clientela sopravvivrebbero nel nuovo contesto, quelle inefficienti uscirebbero dal mercato.
Secondo altri detrattori del buono scuola la qualità della scuola privata è decisamente inferiore a quella della scuola pubblica, e i suoi prezzi troppo alti, assurdo quindi metterle sullo stesso piano e consentire alle persone di sperperare soldi della collettività. La critica sulla qualità della scuola privata, ammesso che sia fondata, si basa sull’osservazione di una realtà condizionata dall’assenza di concorrenza: com’è possibile confrontare un prodotto sotto il profilo della qualità e del prezzo quando c’è un operatore che quello stesso prodotto lo regala? Senza un vero mercato di riferimento, l’offerta di servizi rivolta a quella piccolissima nicchia di clienti o è caratterizzata da costi altissimi (pochi clienti non permettono di abbattere i costi fissi e quindi i costi sono molto più alti di quello che non sarebbero in una situazione di concorrenza) ovvero non può disporre delle medesime infrastrutture di chi (la scuola pubblica) non deve con i ricavi remunerare i fattori produttivi.
La possibilità di frode è un altro argomento usato per criticare il sistema del buono scuola: chi può assicurare che il buono non venga convertito in denaro o in beni di consumo diversi dall’istruzione? La risposta è che la conversione del buono in contanti dovrebbe essere consentita solo a scuole riconosciute dai pubblici poteri, ai quali spetta comunque il compito di vigilare sul corretto funzionamento del sistema.
Ancora in tema di obiezioni infondate: in regime di buono scuola tante famiglie non sarebbero in grado di scegliere la scuola giusta per i propri figli. Spesso questo giudizio di inabilità a decidere viene ipocritamente riferito ai genitori più poveri e meno istruiti che sarebbero – secondo questa critica – quelli meno in grado di curarsi dell’istruzione dei propri figli in quanto privi delle competenze necessarie. Questa obiezione – per certi versi lesiva della dignità delle persone meno abbienti – può essere superata introducendo, come accennato, apposite agenzie che valutino i risultati ottenuti dalle scuole e che diffondano le analisi effettuate. D’altra parte le persone meno abbienti e meno istruite, come l’esperienza insegna, sono da sempre quelle maggiormente portate a sopportare enormi sacrifici per l’istruzione dei propri figli. Più in generale questa affermazione è irrispettosa dei principi elementari della democrazia che riconosce agli individui maggiorenni la capacità di votare alle elezioni (anche se non abbienti) e che tuttavia – stando a questa tesi – non dovrebbe riconoscergli la capacità di scegliere la scuola migliore per i propri figli. In secondo luogo essa è in linea di fatto non vera dal momento che l’amore e l’interesse per i figli, in ogni angolo della terra, fa sì che i genitori sbaglino meno che in qualsiasi altro contesto decisionale e che si informino adeguatamente circa gli insegnanti più bravi attenti e disponibili e circa le scuole più affidabili o più dotate di attrezzature.
Infine secondo alcuni il costo finanziario medio dell’istruzione sarebbe destinato a salire se si concedesse a tutti (anche a coloro che oggi si pagano da soli la scuola privata) un buono pari al costo medio annuo sostenuto dallo Stato (oggi in Italia pari a 5 mila euro circa). Per evitare questo fenomeno basterebbe abbassare il valore del buono rispetto a detto costo medio annuo.
Conclusioni. Il problema al taglio dei fondi pubblici alle scuole cattoliche emerso in relazione alle recenti prese di posizione dell’amministrazione comunale torinese – approcciato ancora una volta in maniera ideologica – non consente di cogliere il vero problema della scuola italiana e che è rappresentato – in estrema sintesi – dalla situazione di monopolio di cui gode lo Stato nell’erogazione di corsi di istruzione a livello primario e secondario. Questa situazione, come dimostrano i dati a livello internazionale, ha delle pesanti ripercussioni sullo stato di salute del complessivo sistema formativo italiano sia sotto il profilo dell’efficienza che dell’equità. Più in generale questa situazione influenza la libertà delle famiglie, specie quelle meno abbienti, di incidere sull’istruzione dei propri figli.
Suonano ancora molto attuali le parole con cui, circa 70 anni fa, si esprimeva Don Luigi Sturzo a proposito della scuola: «finché la scuola in Italia non sarà libera, neppure gl’italiani saranno liberi: essi saranno servi, servi dello Stato, del partito, delle organizzazioni pubbliche e private di ogni specie […], La scuola vera, libera, gioiosa, piena di entusiasmi giovanili, sviluppata in un ambiente adatto, con insegnanti impegnati alla nobile funzione di educatori, non può germogliare nell’atmosfera pesante creata dal monopolio burocratico statale».
Un esempio eclatante di come il monopolio pubblico in tema di scuola deprima la libera iniziativa dei privati e impedisca la diffusione di metodi e tecniche d’insegnamento innovativi è rappresentato dalla vicenda di Maria Montessori (1870-1952), scienziata italiana, candidata al premio Nobel per la pace, nota nel mondo per il metodo d’insegnamento che prende il suo nome e per aver rivoluzionato con le sue opere la pedagogia.
Il suo metodo d’insegnamento, basato sul principio fondamentale della libertà dell’allievo (solo la libertà favorisce la creatività del bambino; dalla libertà deve emergere la disciplina) ha prodotto uomini di genio, innovatori, premi Nobel (per citare solo alcuni dei più famosi: dai fondatori di Google, Sergey Brin e Larry Page, a Bill Gates, da Garcia Marquez a Will Wright di Sim City, dal fondatore di Amazon, Jeff Bezos, al padre di Wikipedia, Jimmy Wales); si è diffuso in migliaia di scuole materne, elementari, medie e superiori di tutto il mondo mentre in Italia, a più di cento anni dalla nascita, ancora stenta a decollare ed è relegato a fenomeno di nicchia. La diffusione del metodo Montessori in Italia è stata frenata esclusivamente da ragioni ideologiche, storiche oltre a diatribe interne al movimento culturale.
La mancanza di approfondimento di una materia complessa quale l’istruzione – come nel caso della vicenda di Torino – porta paradossalmente ad un capovolgimento della realtà: le istituzioni private (che per ogni alunno arruolato “sgravano” lo Stato di una spesa di circa 5 mila euro l’anno) anziché essere incoraggiate in quest’attività meritoria, finanziata per la maggior parte dai contributi di privati cittadini – che a loro spese, potendoselo permettere, decidono di pagare due volte per l’istruzione pur di non lasciare i propri figli nelle “grinfie” di un sistema pubblico sempre più inefficiente e inefficace come dimostrano indagini internazionali – vengono addirittura criminalizzate (solo per finalità ideologica) fino al punto di vedersi ridurre i già esigui finanziamenti pubblici. È ora che qualcuno, dati alla mano, cominci a spiegare al Sindaco Appendino e ad eventuali suoi emuli, che se le scuole private dovessero improvvisamente stufarsi del ruolo di supplenza che svolgono (contro tutti e tutti) per quel quasi milione circa di studenti che oggi arruolano, e dovessero ritirarsi dalla scena, le già malandate casse dello Stato verrebbero gravate di circa ulteriori 3,6 miliardi l’anno! Un costo po’ troppo salato per motivazioni esclusivamente ideologiche.