Società
di Emiliano Fumaneri
Nell’universo del sadismo non c’è amore
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Una parola viene alla mente dopo il suicidio in carcere di Marco Prato, protagonista assieme a Manuel Foffo del brutale omicidio di Luca Varani: sadismo.
Lucia Scozzoli ha ricordato ieri gli elementi principali che hanno contraddistinto la tragica fine di Varani: un cocktail di violenza, perversione, crudeltà, indifferenza al dolore altrui. Una uccisione brutale, contrassegnata da una freddezza che non ha mai abbandonato Prato e Foffo, i quali mai hanno palesato qualche segno di pentimento, mai hanno manifestato pietà per la vittima delle loro atrocità e neanche per i suoi genitori, straziati dalla sofferenza.
Sono tutti elementi che ritroviamo anche nei romanzi di Donatien-Alphonse-François de Sade (1740-1814), autore di romanzi inneggianti a perversioni sessuali e a crimini d’ogni genere.
Sade predica l’infanticidio, l’omicidio, il matricidio, il suicidio, come altrettante manifestazioni della volontà di piacere e della assoluta libertà. Ogni relazione nell’universo del sadismo è vista in termini di proprietà: il rapporto con gli altri, ma anche il rapporto con se stessi e il proprio corpo. Beninteso, proprietà come dominio, “ius utendi et abutendi”, come sovranità assoluta. La categoria dell’«altro» non esiste per Sade. Luigi Lombardi Vallauri lo definisce un anti-Kant. Sade perverte infatti l’imperativo categorico kantiano (considera l’altro come fine e mai come mezzo). Al contrario, nei suoi romanzi l’altro è sempre mezzo e mai fine. Crudamente, l’altro non è che oggetto del proprio piacere.
Questa incapacità di relazionarsi con l’altro da sé è anticipata da una famosa figura di libertino del teatro e della letteratura europea: Don Giovanni, il seduttore che spende il proprio tempo cercando di possedere un numero infinito di donne. Egli non ama nessuna delle donne che ha sedotto. Don Giovanni è alla disperata ricerca della Donna Totale e definitiva. Pertanto nessuna di queste donne ha una vera e propria esistenza di fronte ai suoi occhi, perché Don Giovanni ama la femminilità, non la femmina. Cerca di fondersi con una essenza astratta del femminile, di cui ogni singola donna non rappresenta che un esemplare limitato e insufficiente.
Per questa ragione nessuna donna è mai “prossima” per lui se non nella misura in cui è la “prossima tappa”. In quest’ottica l’esistenziale è solo un’appendice dell’essenziale, cosa che in definitiva rende Don Giovanni incapace di relazione e di comunicazione. Non può incontrare veramente qualcuno. La ricerca di un altro astratto porta ad annullare l’altro concreto.
La degradazione dell’altro a oggetto di piacere spiega la predilezione degli antieroi sadiani per la sodomia. Scrive Lombardi Vallauri: «Il privilegiamento assoluto e sistematico della sodomia, nel rapporto sia omo- che eterosessuale, esprime nel modo più plastico la generale riduzione dell’altro a puro succube, a sub-giacente, privato del volto e dello sguardo, ossia degli organi della reciprocità, egli è passività pura, materiale per alimentare il fuoco della passione. La posizione fisica nel rapporto esprime il rifiuto dell’incontro, la sterilità del rapporto il rifiuto dell’impegno».
Isolamento, assenza di empatia, indifferenza alla sofferenza altrui. Sono tutte caratteristiche dell’individuo assoluto, la figura principale del sadismo. Pensiamo solo a Dolmancé, il criminale aristocratico e protagonista indiscusso della sadiana “Filosofia nel boudoir”. Ateo, omosessuale (anche con le donne ha solo rapporti anali), Dolmancé è un Don Giovanni portato alle estreme conseguenze. È lui a derubare due volte della propria innocenza la giovane Eugénie iniziandola a pratiche sempre più perverse e istruendola nel contempo sull’assurdità della morale, della compassione, della religione. Tutte follie che, spiega l’eroe sadiano, contrastano con l’unico fine della vita umana: il piacere.
Quando Eugénie lo interroga sui motivi della sua crudeltà («Vi prego, in quale modo considerate l’oggetto che serve ai vostri piaceri?»), Dolmancé risponde senza esitazioni: «Come un’assoluta nullità, mia cara; che condivida o meno i miei piaceri, che provi o meno soddisfazione, apatia o anche dolore, purché io sia felice mi è del tutto indifferente». Sarebbe meglio anzi che l’oggetto del proprio piacere provasse dolore, spiega il terrificante Dolmancé con logica lucidissima: «Cosa si desidera quando si gode? Che tutto quanto ci circonda si occupi esclusivamente di noi, non pensi che a noi, non abbia cura che di noi. Se gli oggetti che ci servono godono, eccoli di conseguenza più occupati di sé che di noi, e il nostro godimento, ne risulta disturbato. Non c’è uomo che non voglia essere despota quando è eccitato: gli sembra di provare meno piacere se gli altri sembrano provarne quanto lui. ... Facendo del male, al contrario, sperimenta tutto il fascino che gusta un individuo nervoso nel fare uso delle proprie forze; allora domina, è tiranno».
Violenza e il despotismo sono connaturali al sadismo. Riccardo De Benedetti, acuto studioso di Sade, attira l’attenzione sull’intimo desiderio di autodistruzione che percorre i romanzi sadiani. Dolmancé, a ben vedere, non è altro un soggetto in missione per conto della natura, una natura come “factum brutum”, che opprime l’uomo attraverso se stesso. La terrificante violenza che coinvolge tutti i personaggi delle opere del Divin Marchese non esprime altro che questo desiderio di annientamento finale. È un clima da tregenda che ricorda molto, per certi versi, la mitologia germanica del Ragnarök, la lotta finale in cui tutti gli dèi germanici sono destinati a soccombere. Il culto di Wotan (da cui “Wut”, furore in tedesco), dio della guerra, non era soltanto il culto di un’aggressività distruttiva rivolta verso l’altro, ma rappresentava l’aspettativa di una distruzione totale, anche di se stessi.
Nell’universo del sadismo non c’è amore. Su tutto domina incontrastato il potere, un potere cieco e violento ridotto alla sua dimensione più brutale e animalesca. Questo legame tra perversione sessuale, violenza e potere è stato l’oggetto dell’ultimo film di Pier Paolo Pasolini: “Salò. Le centoventi giornate di Sodoma”, dichiaratamente ispirato, fin dal titolo, a uno dei più noti romanzi di Sade. Poco prima di morire Pasolini ha confessato la ragione profonda di questa sua opera cinematografica: scoprire come l’azione del potere, dissociandosi da ogni senso di umanità, finisca per trasformare la persona in oggetto. Il sesso, che nel film straripa ovunque, è metafora del rapporto del potere coi corpi degli uomini soggiogati. Per dirla con le stesse parole di Pasolini, è la rappresentazione della «mercificazione dell’uomo: la riduzione del corpo a cosa» da parte di «quel potere che trasforma gli individui in oggetti». Nonostante la quasi maniacale esibizione di organi e gesti sessuali, nel film regna una compostezza gelida. Ovunque traspira un formalismo privo di calore umano, una specie di grado zero dell’affettività. Gli individui, ridotti a cose inanimate, appaiono come pietrificati. Così lo spettatore è messo dinanzi a un paesaggio desertificato, dove ogni traccia di umanità è svanita dopo aver incrociato lo sguardo del potere.
È questo il volto del sadismo: un volto di morte e distruzione che schiaccia i deboli e gli inermi. Dove Cristo viene abbandonato subentra Sade. E la persona umana diventa un trascurabile scarto della natura.