Politica

di Lucia Scozzoli

Residenza permanente USA per Charlie Gard

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Ieri l’apposita commissione americana per gli stanziamenti ha approvato l’emendamento per accordare a Charlie Gard la residenza americana permanente, che rappresenta il primo passo per il riconoscimento della cittadinanza statunitense (un requisito per la richiesta della cittadinanza è appunto avere lo status di residenza permanente da cinque anni). Il provvedimento è stato aggregato ad uno stanziamento fondi per la sicurezza nazionale, che potrebbe richiedere tempi lunghi per l’approvazione in Camera e Senato, ma senz’altro già questo passo è un segnale molto forte dell’amministrazione Trump, che sul caso Charlie Gard ha deciso di compromettersi politicamente.

Ne ha dato comunicazione all’opinione pubblica Jeff Fortenberry, rappresentante repubblicano del Nebraska, con un tweet: “We just passed amendment that grants permanent resident status to #CharlieGard and family so Charlie can get the medical treatment he needs.”

Il testo della mozione, presentata il 13 luglio, è di rara bellezza, così pulita nella indiscutibile essenzialità delle affermazioni a sostegno, vecchie ovvietà che abbiamo smarrito in quest’epoca di relativismo morale e di esaltazione di nuovi diritti carichi di morte:

“Incoraggiando le corti del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del nord per permettere a Charlie William Gard e Constance Rhoda Keely Yates di perseguire un’assistenza medica innovativa per il loro figlio;

Considerando che la vita umana è sacra e meritevole di cure e di conservazione in tutte le fasi dello sviluppo;

Considerando che un bambino non è una statistica da gestire, ma piuttosto una vita, da sostenere in ogni modo possibile;

Mentre esiste negli Stati Uniti un trattamento sperimentale che potrebbe prolungare la vita di Charlie Mattew William Gard (“Charlie”).

Considerando che un ospedale negli Stati Uniti si è offerto di ammettere Charlie a tale trattamento;

Mentre il presidente Donald J. Trump, mosso dalla lotta di Charlie, ha teso una mano di aiuto ai suoi genitori dagli Stati Uniti; e

Considerando che i genitori conservano il diritto intrinseco di proteggere e provvedere ai propri figli, e di cercare tutte le risorse e i servizi disponibili per garantire i trattamenti di salvataggio, ovunque essi possano essere trovati, per i loro figli: ora, quindi,

stabilisce che i tribunali del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord e la Corte europea dei diritti umani dovrebbero permettere a Charles William Gard e a Constance Rhoda Keely Yates di intraprendere un’assistenza medica innovativa per il loro figlio, Charlie Mattew William Gard (“Charlie”), in qualsiasi paese in cui tale assistenza possa essere disponibile, per dare a Charlie la possibilità di essere curato in conformità con i desideri dei suoi genitori.”

L’altro ieri al capezzale del piccolo, al GOSH, si sono riuniti insieme ai medici curanti anche l’esperto americano Michio Hirano, professore di neurologia presso la Columbia University di New York e un inviato dal Bambino Gesù di Roma (di cui però non è stato reso noto il nome). Indiscrezioni riportate dal Daily rivelerebbero che il professor Hirano ha cercato per 5 ore di convincere i medici del GOSH che esiste una speranza anche per il piccolo Charlie, ma loro non si sono lasciati smuovere dall’idea che lasciarlo morire sia l’unica opzione percorribile. Sono stati analizzati dai tecnici anche nuovi esami fatti sul piccolo. Connie e Chris hanno pubblicato sui social la foto del bambino mentre con gli occhi socchiusi guarda un gioco, per smentire l’affermazione del GOSH secondo il quale Charlie sarebbe cieco.

Ricordo a tutti gli scientisti che affollano il web che gli esami diagnostici oggettivi vanno sempre interpretati e in particolare quelli sul cervello per dedurre il malfunzionamento di altri organi sono poco attendibili, soprattutto su bambini piccoli. Infatti vengono solitamente eseguiti più volte per avere una ripetibilità dei risultati a garanzia di una migliore interpretazione. Dire che un bambino è cieco (o sordo) con certezza, senza che egli possa confermare per la troppo tenera età con i suoi comportamenti, è estremamente anti scientifico. A meno che non ci siano danni fisici a varie parti dell’occhio (come una retina perforata, un cristallino opaco, un bulbo oculare deformato, un nervo ottico lesionato), gli esami diagnostici non possono dire con certezza se i segnali che l’organo cattura vengano o no processati dal cervello e l’analisi dell’encefalogramma o della risonanza forniscono informazioni complesse passibili facilmente di errori interpretativi.

Qui la politica conta ormai molto più della medicina, visto che il mondo medico non è concorde sullo specifico caso e anche uno dei massimi esperti di malattie mitocondriali non è riuscito ad incidere in modo rilevante nella scorza di pregiudizi cementati attorno alle condizioni di salute del piccolo.

Anche l’argomento dell’accanimento fa acqua: ritenere più pietosa la morte certa che un trattamento non ancora adeguatamente testato nei suoi risultati (mentre per gli effetti collaterali si è parlato chiaramente solo di diarrea, non infligge alcun dolore aggiuntivo) è una colossale scusa. Infatti il contendere non è sulla specifica cura, se procurerebbe o meno altra sofferenza, ma sulla sua probabilità/capacità di portare ad un risultato apprezzabile per Charlie in termini di “qualità della vita”. Su questo bisogna essere molto chiari: i medici del GOSH non sono contrari perché non è dignitoso trattare un bambino come un topo di laboratorio (argomento che in sé, a livello teorico, avrebbe anche una sua valenza etica), ma perché anche curandolo, essa lascerebbe Charlie per quello che è, cioè un bambino gravemente handicappato, che non parlerà, non camminerà, forse non mangerà autonomamente e non respirerà senza un aiuto meccanico. I danni cerebrali branditi come argomento chiave non riguardano lo stato di coscienza, cioè non si tratta di un essere umano in coma vegetativo, senza una percezione del mondo intorno: si parla di danni cerebrali che minano la qualità della vita e quindi la dignità umana. In sostanza questo bambino è troppo menomato fisicamente per essere degno di vivere.

L’azione politica degli USA, cioè la concessione della residenza permanente, potrebbe rappresentare l’ultima spinta per convincere i soggetti coinvolti dell’opportunità di una soluzione del contenzioso a favore della famiglia Gard, ma potrebbe anche essere accolta dagli inglesi come un’indebita ingerenza nei propri affari interni, esacerbando ancora di più gli avvocati e il giudice Francis, inducendoli a non cedere alle nuove evidenze per il solo motivo di mostrare al mondo la superiorità del loro sistema legislativo. Francis ha già dichiarato alla seduta della settimana scorsa che è suo preciso dovere perseguire il bene del bambino e applicare la legge indipendentemente dalle ingerenze politiche e mediatiche.

Comunque nel panorama internazionale il criticatissimo Trump rappresenta l’unico capo di stato che ha speso parole a favore del diritto alla vita di questa piccola creatura indifesa, per il resto un inquietante silenzio in salsa politically correct affossa il vecchio continente. Qualche esponente politico di opposizione ha fatto dichiarazioni pubbliche, in Italia e all’estero; da noi ha twittato anche Renzi, che non è più al governo, mentre Gentiloni è rimasto muto come un pesce e Alfano ha ringraziato gli UK per la professionalità con cui stanno trattando il caso. Insomma, chi aveva il potere di incidere in qualche modo con la sapiente arte della diplomazia si è guardato bene dal farlo.

Intanto si stanno diffondendo sempre più iniziative di cittadini e sindaci a favore di Charlie (come l’illuminazione di importanti monumenti di azzurro) e qualcuna anche contro gli inglesi, tra cui l’email al consolato britannico in cui si chiede come fare per assicurarsi che, in caso di viaggio in Inghilterra e necessità improvvisa di ricovero in ospedale, non si venga internati negli ospedali pubblici a fare la fine di Charlie, in ostaggio di protocolli medici che possono decretare la morte di qualcuno contro la volontà dell’interessato o dei suoi parenti (questa la sostanza).

Purtroppo il regime ospedaliero inglese non è un’eccezione nell’evoluta Europa: nei paesi dove l’eutanasia è stata introdotta da tanti anni, come in Olanda e in Belgio, essa ha preso talmente piede come prassi consolidata da aver raggiunto numeri esorbitanti e altamente preoccupanti, la sanità è già diventata un luogo di esecuzione di massa di sentenze sulla dignità delle vite non ritenute degne.

L’eutanasia fonda il segreto della sua diffusione nel fatto atroce che essa è sempre una scelta che porta benessere il primis ai parenti del malato. Chi è fiaccato da una malattia e sente il disamore e la fatica di chi gli sta intorno, e si avverte come mal sopportato, facilmente si lascia indurre a prestare un consenso alla propria terminazione “volontaria”. Con tutti i progressi che ha fatto la medicina, non si dovrebbe nemmeno più parlare di dolore fisico, sempre eliminabile con le cure palliative idonee. Resta pressante la sofferenza psicologica, acuita dall’impazienza di chi sta intorno.

In questo caso ad essere impaziente di chiudere una vita, però, non sono i genitori, bensì lo stato, che con tutta la sua supponenza, parla di interessi del minore e di bene supremo sventolando una sentenza di morte.

Non sappiamo come si risolverà la vicenda Gard, se il bambino potrà tentare la cura sperimentale, se sopravvivrà, se morirà presto: attendiamo l’udienza del 25 per vedere cosa decreterà il giudice. Però certo il problema etico sollevato dal caso resta intatto, indipendentemente dal suo esito contingente: davvero vogliamo che sia lo stato, con le sue fredde istituzioni e le sue leggi improntate all’economia, a decidere chi ha diritto di vivere e chi no?

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20/07/2017
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