Società

di Claudia Cirami

Forse l’Ohio salverà i down

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Dall’America potrebbe arrivare la salvezza per i bimbi down? Dopo l’Indiana e il Nord Dakota, anche l’Ohio è avviato verso il divieto di aborto in caso di diagnosi prenatale relativa alla sindrome di down. Questo potrebbe provocare un’inversione di tendenza nel contesto culturale odierno. Certo, è presto per dirlo. Ma è vero che la dura partita che si sta giocando nel mondo in questi ultimi anni – con colpi ben assestati da entrambe le parti – sembra ancora aperta. Mentre ci sono alcuni stati al mondo che vorrebbero arrivare al numero zero per la sindrome di down (inutile dire che non si tratta di guarire ma di eliminare alla radice) ci sono altri stati che, invece, stanno prendendo progressivamente coscienza di un dramma.

Il termine non è frutto di esagerazione. Ed è un dramma che nemmeno il politicamente corretto è riuscito a risolvere, mostrando anzi le sue forti contraddizioni interne. Se da un lato, infatti, c’è in atto la tendenza a proteggere le disabilità attraverso leggi, campagne, ecc., dall’altra parte c’è in atto la convinzione che la sindrome di down – tra le varie situazioni di disabilità – si possa in qualche modo “contenere” o “eliminare” estirpando i bambini con diagnosi accertate dai grembi delle loro madri. L’Islanda, per esempio, ha mostrato che si può arrivare a dati veramente bassi di nascite di bimbi down se si diffonde una mentalità mortifera. Sul radicarsi progressivo di questa cultura a favore della soppressione come soluzione finale riflette anche il libro di Mario Adinolfi, “O capiamo o moriamo”: appena uscito, è già schizzato nella top ten di Amazon. Riguardo alla soppressione dei bambini nel grembo materno, l’autore intitola significativamente il sesto capitolo: Aborto, lo sterminio dei più deboli. Perché se ci si pone dalla prospettiva dei bambini soppressi, non si può che usare questo o altri termini analoghi.

Ciò che è più atroce è che la discussione sulla sindrome di down ha spesso preso le inquietanti e dolorose sembianze, come per ogni aborto, della guerra tra madre e figlio. Perché da un parte i sostenitori pro-life puntano correttamente sul diritto del bambino al nascere; dall’altra parte viene invece difeso il diritto della donna a scegliere di abortire in presenza di una diagnosi prenatale che prospetta la nascita di un bambino con trisomia 21. Fino al verificarsi di prese di posizione per certi versi assurde, come è accaduto in Francia con il divieto di trasmettere uno spot a favore delle persone down. Il motivo: turbava le madri che avevano o avrebbero deciso di disfarsi di questi figli. Quell’appello alle future mamme è stato considerato insostenibile emotivamente: eppure dava semplicemente la parola ad alcuni ragazzi e bambini down. Ma in un paese come la Francia, con il 96% di aborti di bambini affetti dalla suddetta sindrome, uno spot simile ha creato un caso

La sindrome di down è causata da un’anomalia nei cromosomi. Le persone che ne sono affette presentano una varietà di disabilità, sia di tipo cognitivo che fisico, ma è giusto ricordare che, mentre un tempo, queste persone avevano un’aspettativa di vita piuttosto bassa (intorno ai 25 anni), ora invece si parla di 60 anni come traguardo non impossibile da raggiungere né da superare. Questo accade non perché la sindrome di Down sia in sé curabile ma perché riguardo ad alcuni problemi fisici, come per esempio le malformazioni cardiache, la medicina contemporanea – con i suoi progressi – offre oggi una competenza significativamente aumentata. Inoltre, vivere con una persona down non è sempre facile ma adesso, con un più rilevante intervento della legislazione a tutela delle disabilità, è certo più agevole che in passato. Naturalmente non è possibile ignorare che, in questa come in altre situazioni di disabilità motoria, fisica, intellettiva, i passi avanti non sono stati risolutivi e c’è sempre un (gran) margine di miglioramento. Ma è indubbio notare che forse, oggi, la difficoltà a vivere con una persona che presenta la sindrome di down è più un problema emotivo e culturale.

Nel primo caso, infatti, il confronto con un nascituro affetto da sindrome di down pone immediatamente i genitori nella situazione di dover sostenere due pesi di una certa rilevanza. Da un lato le difficoltà oggettive che la situazione comporta: le visite mediche, il ritardo nello sviluppo, i primi problemi di gestione della sindrome. E naturalmente c’è anche la preoccupazione per il futuro del bambino. Dall’altro lato, tuttavia, questo peso sarebbe sostenibile se non ci fosse spesso il muto (ma tante volte esplicito) biasimo dell’ambiente circostante per aver deciso di mettere al mondo un bambino non perfettamente sano. Siamo in un contesto dove la “via alternativa” – cioè l’aborto a seguito di diagnosi prenatale di sindrome di down – viene considerata da tanti una strada più che praticabile. Chiara Corbella Petrillo, che mise al mondo due creature disabili (non affette dalla sindrome di down ma, nel suo caso, destinate a morire dopo poche ore) prima dell’ultimo figlio, raccontò proprio la difficoltà di sostenere il “fuoco amico”. Così accade oggi ai genitori che mettono al mondo un bambino con la sindrome di down. Paradossalmente, un padre e una madre che scelgono la vita anche quando si presenta in condizioni non facili, invece di essere definiti eroici, vengono condannati come irresponsabili o egoisti.

C’è poi un problema culturale specifico, anzi due. Il primo è relativo a chi non riesce a vedere null’altro che la disabilità. Proprio in questi giorni il presidente dell’Associazione Italiana Persone Down ha scritto una lettera aperta al direttore di Sky Sport perché un cronista, durante una telecronaca del Gran Premio di Singapore, ha utilizzato come epiteto ingiurioso il termine “mongoloide”. Paolo Virgilio Grillo – così si chiama il presidente dell’associazione – ha scritto «Ci stupiamo e addoloriamo che ancora oggi – dopo tanto lavoro fatto in questi anni per promuovere una corretta immagine delle persone con sindrome di Down – si sia costretti ad ascoltare commenti del genere, per di più da un professionista della comunicazione». Il direttore si è tempestivamente scusato, proponendo anche una collaborazione. Ma è chiaro che un certo problema culturale permane. Ma c’è un altro problema, come già anticipato: in un contesto che fotoshoppa o ritocca chirurgicamente la realtà perché non accetta la benché minima imperfezione, i bambini down, con la loro espressione caratteristica e le difficoltà fisiche o intellettive, ci ricordano – attraverso la loro stessa presenza – che in realtà la perfezione è soltanto un mito (e per tutti noi, non soltanto per loro: ognuno a suo modo è imperfetto). Le persone affette dalla sindrome di down ci suggeriscono, fin da loro primo apparire, i limiti della nostra creaturalità. Come accettarli se coltiviamo l’irrealistica presunzione di voler diventare perfetti? Per non essere smentiti in questo parossistico “credo” contemporaneo, ci adoperiamo a cancellare le tracce di ogni realtà che si presenta come disturbante, in contraddizione con quanto “professato”. Non è un problema che riguarda solo le persone affette dalla sindrome di down: viviamo in un contesto che occulta la morte, non tollera la vecchiaia, si vuole liberare dalla visione stessa della malattia. Così anche chi soffre di questa anomalia cromosomica conosce questa “spada di Damocle” sulla testa: qualcuno l’ha chiamata rischio di “estinzione”. È certo una parola forte, ma cosa dire della volontà di “cancellare” queste persone, sopprimendole dalla nascita? Eppure, le persone down oggi mostrano che possono avere una vita più che simile a quella di chi non è affetto dalla sindrome: praticano sport, studiano (ormai diversi sono arrivati alla laurea), recitano, amano. L’unica difficoltà è nel nostro sguardo? Forse non del tutto, ma certo in buona misura.

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22/09/2017
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