Media
di Emiliano Fumaneri
L’ Europa contesa fra transumanisti e bioconservatori
Abbonati agli albi cartacei de La Croce e all’archivio storico del quotidiano
ARTICOLO TRATTO DALLA VERSIONE PER ABBONATI, SOSTIENI
QUI http://www.lacrocequotidiano.it/abbonarsi-ora
Credo che molti di voi abbiano visto su YouTube il video toccante in cui una giovane donna affetta dalla sindrome di down interpella la Cancelliera tedesca Angela Merkel chiedendole quale sia la sua posizione sull’aborto tardivo. Bisogna sapere che in Germania in media nove bambini su dieci con sindrome di down vengono abortiti, anche a pochi giorni dalla nascita (è questo il cosiddetto “aborto tardivo”). La percentuali di aborti praticati nel caso di diagnosi della sindrome di down sono realmente impressionanti. Nel Regno Unito, in Europa e negli Stati Uniti oscillano dall’87 al 98%. Una autentica ecatombe silenziosa, tanto che Roberto Volpi ha potuto scrivere un libro dal titolo emblematico: “La sparizione dei bambini down”.
La giovane conclude la sua domanda con queste parole: «Come mai un bambino con sindrome di down può essere abortito fino a poco prima della nascita? Non la trovo una cosa buona dal punto di vista politico. Questo argomento è importante per me. Non voglio essere abortita, ma rimanere al mondo!».
«Non voglio essere abortita». Alcuni hanno fatto osservare come, essendo già nata, queste parole fossero prive di senso. Ecco, io credo che non sia affatto così. Quelle parole mostrano invece che la vera questione, la questione decisiva, essenziale, va ben oltre l’aborto tardivo. Qui è in gioco l’accoglienza della vita umana, il valore stesso della vita umana. Qual è il valore della mia vita? Questa mi sembra la questione essenziale, alla quale Angela Merkel naturalmente non ha risposto se non in termini evasivi. Se andiamo alla radice della questione assistiamo infatti a questa scena: una giovane affetta da una anomalia genetica – la più comune anomalia cromosomica che come sappiamo di solito è associata a un ritardo nella capacità cognitiva e nella crescita fisica, oltre che a un particolare insieme di caratteristiche del viso – che chiede alla massima autorità politica del suo paese perché vite come la sua siano considerate vite “senza qualità” e perciò meno degne di essere vissute. E fa certo effetto sapere che questa domanda è stata posta n Germania.
Mentre guardavo il video mi veniva alla mente quanto sostiene il filosofo e matematico francese Olivier Rey in un bellissimo libro che avevo terminato di leggere proprio in quei giorni. Il libro si intitola “Une question de taille” (Una questione di taglia). In questo libro Rey sostiene che il nostro tempo ha perso il senso della misura e con esso il senso del limite.
Il nostro è un mondo che misura tutto. Ma che paradossalmente, proprio per questa sua ansia di misurare e catalogare tutto, ha perso il senso della misura. Si è smarrita cioè quella che fin dall’Antichità era definita come la giusta misura, la debita proporzione, l’equilibrio. Essenzialmente quella nozione di ordine che gli Antichi comprendevano con la parola kosmos.
È una legge che vale in ogni campo dell’esistente.
Simone Weil ricordava che la legge dell’equilibrio e dell’armonizzazione vale tanto in campo biologico quanto in campo morale e spirituale. La salute biologica dell’organismo richiede una relazione equilibrata tra poli differenti. Il corpo umano ha bisogno di mangiare, ma anche di intervallare i pasti; necessita di esercizio ma anche di riposo, di caldo come di fresco. Tutta la natura, a ben vedere, è caratterizzata da equilibri che non sono stabili ma oscillanti. Un cuore in buono stato alterna secondo un certo ritmo le contrazioni (sistole) e le distensioni (diastole) del tessuto muscolare (miocardio).
E in nessuna questione questa perdita della giusta misura si vede come nelle questioni collegate alla vita umana. Vorrei citare a questo proposito un pensiero proprio di Olivier Rey, che scrive quanto segue: «Un tempo ciò che esisteva godeva, per il solo fatto di esserci, di un pregiudizio favorevole». Così c’era un pregiudizio favorevole nei confronti di ciò che appariva come proveniente dalla natura (ad esempio la famiglia composta da uomo e donna) e dalla tradizione. C’era la viva percezione di un ordine delle cose dato, intangibile. In una parola, c’era la coscienza di un limite da non oltrepassare. Alcune cose semplicemente non si fanno.
Qualche esempio? I malati si curano con amore. Non si eliminano. È la malattia che si cerca di eliminare, non il malato.
Oggi naturalmente non è più così. Non ci sono più limiti. La natura appare come una materia malleabile, indagabile e manipolabile dalla tecnoscienza come argilla plasmabile dalla mano dello scultore. È subentrata quella mentalità secondo cui, come diceva Günther Anders, esistente diventa sinonimo di usabile. Ciò che esiste diventa funzionale, tutto è tendenzialmente ridotto a materiale manipolabile, utilizzabile e trasformabile per lucrarne un vantaggio o un profitto. Anche l’uomo, il corpo umano in primis, diventa un homo materia, diventa un oggetto impiegabile, un fondo (Heidegger avrebbe detto un Bestand) o una riserva disponibile, un materiale pronto all’utilizzo.
Anche l’esistenza umana, per tornare all’esempio che facevamo all’inizio (o pensiamo anche alla tragedia del piccolo Charlie Gard), non gode più di un pregiudizio favorevole per il solo fatto di esserci. L’esistenza deve essere di una certa qualità, deve rispettare certi parametri efficientistici. L’esistente non è abbastanza performativo, non sono ammesse falle. Se quanto esiste non può essere trasformato (attraverso l’ingegneria biologica) va incontro alla possibilità dello scarto (quella cultura dello scarto che è diventata una delle parole chiave del pontificato di papa Francesco). La cultura dello scarto è una conseguenza del principio di usabilità del mondo. Se ammettiamo che non esiste nulla che non sia usabile, allora ne consegue che bisogna scartare – cioè annientare – tutto quello che è inusabile, come si scartano i prodotti venuti male, con difetti di fabbricazione. I princìpi talora hanno delle conseguenze. È una amara constatazione, ma è così.
Questa concezione della vita come materiale usabile ha fatto chiaramente perdere il senso della misura e quel pregiudizio positivo (o favor vitae) nei riguardi della vita umana. Lo vediamo benissimo in questi casi di vite fragili, imperfette, ferite, che non vengono accettate per quello che sono, non vengono accolte. Anche qui si è imposta un’etica del perfezionamento che ha soppresso il giusto equilibrio, la tensione vitale tra le due dimensioni dell’amore genitoriale.
Il filosofo Michael J. Sandel parla di due aspetti o momenti dell’amore genitoriale: l’amore di accettazione (accepting love) e l’amore di trasformazione (transforming love).
«L’amore che accetta – scrive Sandel – afferma l’essere del figlio, quello che trasforma cerca il suo benessere». Così ciascun aspetto dell’amore genitoriale bilancia e corregge gli eccessi dell’altro.
L’amore di accettazione è quell’amore che potremmo definire tipicamente materno, che accoglie incondizionatamente il figlio, accettandolo per come è. L’amore di accettazione si accompagna a un’etica del dono naturale. Il figlio è un dono e accettato come tale, non è un “prodotto” delle nostre qualità o dei nostri sforzi.
L’amore di trasformazione ha invece caratteristiche più maschili. È l’aspetto più performativo dell’amore, che pone condizioni. Perché per crescere un figlio ha bisogno di sviluppare i propri talenti, in un certo senso deve passare attraverso una trasformazione. A differenza dell’amore di accettazione, qui siamo in presenza di un’etica del miglioramento. Amare un figlio vuol dire anche volere il meglio per lui, promuovere l’eccellenza del figlio aiutandolo a scoprire e sviluppare il proprio talento e i propri doni.
Questi due momenti sono benefici solo se sanno equilibrarsi, se si trova la giusta misura, il dosaggio conveniente. Quando uno dei due si assolutizza a scapito dell’altro, diventando un idolo, abbiamo disastri inenarrabili. L’idolo dell’amore di accettazione produce “signorini soddisfatti”, eterni adoloscenti, perenni immaturi; l’idolo dell’amore di trasformazione porta invece alle aberrazioni dell’eugenetica, al baby design, alla programmazione del figlio su misura, al culto della performance.
Che fare? La prima cosa da fare è il recupero della cultura del limite, del giusto mezzo, della giusta misura. Oggi non si tratta più di innovare, di trasformare, quanto di ripristinare e conservare. Roger Scruton definisce il conservatorismo come «la filosofia dell’attaccamento» che nasce dalla consapevolezza di aver ereditato qualcosa di buono, qualcosa di prezioso da custodire. Non si tratta di un conservatorismo “patrimoniale”, cioè di essere “attaccati” agli interessi dei privilegiati. Si tratta di conservare non solo i tesori di saggezza e bellezza del passato, ma anche quei legami che ci rendono umani (come i legami familiari e amicali), tesori oggi minacciati dal pugno di ferro dello stato e dalla mano invisibile del mercato. Perché le cose buone, ricorda sempre Scruton, «possono essere distrutte con facilità, ma non possono essere create con facilità».
Concludo perciò con una osservazione: sono sempre più convinto che la vera linea di frattura oggi sia quella che divide transumanisti e bioconservatori. Da una parte abbiamo i transumanisti vale a dire coloro per cui bisogna approdare oltre l’umano, nel postumano, e padroneggiare sia la nascita che la morte, creando un uomo nuovo attraverso la tecnologia, rinunciando alla fiinitudine umana. Dall’altra i biuoconservatori, coloro che credono che un mondo senza limiti sia destinato a ricadere in quel peccato di dismisura che gli Antichi chiamavano hybris (hübris), ciò che indicava qualcosa di eccessivo e di insolente al tempo stesso