Storie
di Lucia Scozzoli
L’esempio del padre della ragazza violentata
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I due nomadi, Mario Seferovic e Maikon Halilovic, nati a Roma da famiglie di origini bosniache e domiciliati nel campo nomadi di via Salone, dovranno rispondere di violenza sessuale di gruppo continuata e sequestro di persona continuato in concorso. A difenderli sono rimaste solo le madri, il resto del clan se n’è andato dopo l’incendio del camper a giugno scorso, in cui morirono le tre sorelle Halilovic. Di quel delitto è accusato Serif Seferovic (il quale aveva già patteggiato pure per lo scippo finito in tragedia sui binari del treno della cinese Zhang Yao a dicembre 2016).
Ieri mattina Mario Seferovic e Maikon Halilovic hanno fatto scena muta davanti al gip Costantino De Robbio, che di loro aveva dichiarato: “Le modalità con cui le violenze sono state ideate e portate a termine sono sintomatiche di estrema freddezza e determinazione unite a un’assoluta mancanza di scrupoli e a non comune ferocia verso le vittime degli abusi, ciò che induce a ritenere che possa trattarsi di casi non isolati ma destinati a ripetersi in coerenza con una personalità incline alla sopraffazione e al brutale soddisfacimento di istinti di violenza, sicuramente valutabili come indice di sussistenza del pericolo di reiterazione del delitto”. Halilovic si proclama innocente (attraverso il suo avvocato, Seferovic tace.
In questa storiaccia, splende come un astro il padre di una delle due vittime 14enni, il quale è stato parte attiva in questa indagine: per primo ha raccolto la confessione disperata della figlia, ad un mese dalla violenza, che si perpetuava nelle continue minacce dei due aggressori anche sui social; si è procurato le foto dei due, li ha rintracciati nei loro profili fake, ha fornito agli inquirenti tutti gli elementi che hanno condotto all’arresto. Secondo il padre, i nomadi avevano adocchiato la figlia sull’autobus e, per diverso tempo, hanno fatto in modo di incrociarla spesso. Le facevano ascoltare le canzoni sul bus. Finché Seferovic non le ha chiesto l’amicizia su Facebook, dichiarando di avere solo 16 anni e di chiamarsi Alessio “il Sinto”. Poi il 10 maggio l’appuntamento, a cui la ragazzina si è presentata con un’amica. Ma la cautela non è stata sufficiente: le ragazze sono state ammanettate ad un cancello e poi violentate da Seferovic, mentre Halilovic faceva il palo. E infine sono tornate a casa in autobus piangenti, sorvegliate alla fermata da Seferovic, perché non dessero confidenza a nessuno.
“È stato terribile ascoltarla - racconta il padre al Messaggero - ci è voluto un po’ prima che riuscisse a raccontare; hanno influito le minacce che (Mario Seferovic, ndr) le ha fatto, ma anche la paura, il senso di vergogna per quello che le era capitato. Sì, si vergognava, indifesa. Ora stiamo cercando di andare avanti”.
Poi aggiunge: “Meno male che li hanno presi , mi auguro che la giustizia faccia il resto… se così non fosse ci sarò io ad aspettarli quando usciranno di prigione. Devono pagare per quello che hanno fatto, non possono farla franca”.
A quest’uomo bisogna fare un monumento: credo che non ci sia niente di più atroce che ascoltare dalla propria figlia adolescente, delicato fiore uscito dalla fase luccichini rosa e peluches da una manciata di mesi, il racconto di una violenza subita così efferata, subdola, umiliante. Ascoltare, accogliere, stringendo i pugni e digrignando i denti, ma senza darlo troppo a vedere, perché quella rabbia feroce che ti nasce nel cuore non deve turbare ancora di più chi già è sconvolto e fragile. Quel padre ha preso in mano la situazione senza tentennamenti, ha rimesso il naso dentro gli spazi di libertà e autonomia appena concessi alla figlia, frugando nel cellulare della figlia, facendo il segugio su facebook; ha detto “adesso ci penso io” e ci ha pensato per davvero. E intende continuare a farlo: quella minaccia di farsi giustizia da solo, qualora la magistratura latitasse, incagliandosi, come abbiamo visto capitare spesso, in qualche piega contorta del diritto, è un atto di difesa estrema della figlia, per sempre, finché ce ne sarà bisogno e in qualunque condizione. Non è una minaccia a vuoto, non è nemmeno una frase di rabbia buttata là, per sfogare la comprensibile ira. No, è una scelta fatta consapevolmente e con freddezza: quei due non toccheranno più la sua bambina, è una promessa.
Dietro questo padre, che si è alzato in piedi e ha levato gli scudi, ora una ragazzina sta cercando di ricostruire se stessa, di riprendere il filo di una maturazione così bruscamente sferzata dalla violenza, così dolorosamente ferita. E confidiamo che possa riuscire, in tempi brevi, grazie soprattutto all’amore della sua famiglia che ha saputo stringerla in un abbraccio protettivo deciso.
Ci mancano molto i padri come questo, uomini che sappiano difendere anche materialmente l’incolumità dei propri figli, insegnando ai maschi la virilità del cavaliere, che sa combattere con coraggio e forza, ma che combatte sempre in difesa del debole e soprattutto delle donne, e proteggendo le femmine dai lupi.
I lupi ci sono, e sono tanto più spavaldi ed insolenti quanto più la nostra società si rammollisce in una pappetta sentimentalista di accettazione indiscriminata e fiducia cieca. Io rivendico per me e per le mie figlie il sacrosanto diritto di nutrire e coltivare tutti i pregiudizi che mi pare verso gli sconosciuti, di cui non conosco la provenienza, la cultura, la storia familiare. Quando ero una bambina, se parlavo di qualche compagno di scuola con mio padre, per prima cosa egli mi domandava: “ma chi sono i suoi genitori?” ed io mi lamentavo, dicevo che questa cosa non c’entrava, che ognuno è ciò che è indipendentemente del luogo culturale e fisico da cui proviene. E invece aveva proprio ragione: nessuno spunta dal nulla e le violenze, gli atti di bullismo, i comportamenti socialmente pericolosi hanno delle motivazioni rintracciabili proprio a partire dagli humus di provenienza. Non si tratta di pregiudizi, ma di post-giudizi, perché le statistiche sulla criminalità giovanile forniscono fotografie molto nitide di disagi e degradi familiari aberranti.
Poi ovviamente la libertà di ciascun individuo gli offre sempre la possibilità di riscattarsi e diventare un campione di onestà pur crescendo in una famiglia di scippatori e incendiari, ma anche io ho la libertà di proteggermi con un sano pregiudizio, senza per questo essere tacciata di generico razzismo. Anche perché non si tratta di razza: la discriminante non è il paese di provenienza, bensì l’ideale sotteso. Per questo clan di bosniaci, noi siamo come babbani: inferiori, cretini, smidollati, gente da fregare con gusto, sempre immeritevoli dello sforzo della verità. E francamente non mi sento di biasimare troppo questa loro visione dell’italiano medio, soprattutto se guardo certe prese di posizione radical chic di difesa aprioristica dello straniero o, più genericamente, del disadattato sociale. C’è spazio per tutti in questo nostro paese, per tutti quelli che vogliono partecipare al bene comune. Per chi invece crede di poter adescare, violentare e poi farla franca, preferirei che non ci fosse spazio, indipendentemente dalla nazionalità, almeno finché non si ravveda in modo serio e provato. Il punto di ingresso di chiunque dentro la società dovrebbe essere la condivisione del bene, l’onestà e il rispetto, come valori inviolabili, non passibili di deroghe per nessun motivo. Vivere in un luogo abusivo non è una buona partenza; farsi beccare in mezzo a risse, scippi e violenze varie, nemmeno; presentarsi dichiarando un nome falso, pure.
Se non lasciassimo intendere ai malintenzionati che comunque noi tolleriamo tutto, forse qualcuno di essi desisterebbe dai propri propositi tenebrosi e, se non per convinzione, almeno per paura, si asterrebbe da condotte delinquenziali. Punire in modo rapido ed esemplare questi violentatori sarebbe un atto profondamente educativo. Ne saremo capaci?