Società
di Lucia Scozzoli
Partito il processo a Cappato: perderà comunque il diritto
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Ieri si è aperto davanti alla Corte d’Assise di Milano il processo a Marco Cappato per aiuto al suicidio nella vicenda del decesso di Fabiano Antoniani, detto Dj Fabo, avvenuta lo scorso 27 febbraio in una clinica svizzera. Marco Cappato, esponente dell’associazione Luca Coscioni, nonché portavoce delle istanze radicali a favore dell’eutanasia e del suicidio assistito, è stato incriminato in quanto ha messo in contatto Fabiano Antonioni con la clinica della “dolce morte” e poi ve lo ha accompagnato fisicamente.
Dj Fabo era un ragazzo 39enne diventato cieco e tetraplegico in seguito a un incidente stradale del 2014. I miglioramenti prospettati dalle possibili terapie non avrebbero restituito a Fabiano la vita di un tempo ed egli non voleva restare rinchiuso nell’inferno buio dell’immobilità. E così, oltre a maturare il proposito di usufruire dei servizi svizzeri di suicidio assistito, si è pure prestato all’associazione Luca Coscioni per fare da testimonial alla libertà di scelta del proprio destino di morte, girando per le iene un video in cui pure la fidanzata si univa al coro di chi invocava il diritto di farla finita in situazioni in cui la qualità della vita fosse troppo deteriorata.
I pm nella prima udienza hanno visionato il video delle iene, hanno disposto l’acquisizione su sollecitazione dei pm di una copia del codice penale svizzero, delle brochure della clinica Dignitas, della documentazione dei servizi forniti nella struttura di Zurigo e delle fotografie ritraenti la cliniche, materiale scaricabile da internet, nonché dei certificati medici del dottor Veneroni sulle dimissioni di dj Fabo dall’unità spinale dell’ospedale, dove era ricoverato dopo l’incidente stradale, e della storia clinica del paziente con l’indicazione delle terapie che assumeva e la posologia relativa ai farmaci.
Sono già state fissate le date delle prossime udienze, il 4 e il 13 dicembre, per ascoltare come testimoni il medico-anestesista Mario Riccio che seguì il caso Welby e la madre e la fidanzata di Antoniani.
I giornali e l’ansa hanno subito titolato con tentativi di sensazionalismo, a colpi di “video shock” per intendere il video del servizio delle iene, già visto da milioni di telespettatori, e “sono pronto alla prigione” con toni melodrammatici.
Fuori dal tribunale i radicali davano il via alla campagna #ConCappato per «sostenere simbolicamente sui social o più concretamente con una donazione sul sito concappato.associazionelucacoscioni.it la coraggiosa azione legale». Con loro c’erano pure i pastafariani a manifestare, segno che la situazione è grave ma continua a non essere seria.
Per lo meno è evidente che Cappato non nutre alcuna preoccupazione di natura legale: tanto ha fatto che finalmente è iniziata la sua passerella mediatica. Egli stesso si era autodenunciato dopo la morte di Antoniani, chiedendo poi anche il rito abbreviato all’incriminazione, “perché voglio che in Italia finalmente si possa discutere di come aiutare i malati a essere liberi di decidere fino alla fine, sia quando lottano per vivere, sia quando decidono di fermarsi. Il processo sarà un’occasione per discuterne ed è bene che sia il prima possibile”.
Naturalmente l’obiettivo è far approvare la legge sul testamento biologico ferma in senato, per iniziare a percorrere tutte le tappe che già abbiamo visto attraversare dai paesi del nord Europa, per l’approvazione dell’eutanasia, con tutte le sue varianti (prima solo malati terminali, poi anche malati di mente, o cronici, poi i vecchi, ora pure bambini e depressi) fino al suicidio assistito. L’importante è partire, fare una prima breccia nel diritto alla vita, mettere in discussione il principio fondante che la vita sia un bene supremo, il primo bene di ciascuno, superiore ad ogni altro diritto o pretesa. Lo scopo è diffondere il nuovo dogma della “qualità della vita”, espressione fumosa, mai definita nei suoi contenuti, che si presta ad essere appiccicata e stiracchiata all’uopo, in un meccanismo da finestra di Overton ormai consolidato, per sostituire la più semplice e inoppugnabile “vita”, in modo da manipolare l’opinione pubblica con il solito gioco di prestigio delle parole, spogliate del proprio significato primigenio, cerare bisogni che non ci sono e approvare legislazioni forzose per soddisfarli, mentre si ignorano i bisogni veri e sacrosanti, come il diritto alle cure e alle terapie per tutti i malati, anche quelli cronici, anche quelli senza prospettive di miglioramento, anche quelli terminali.
Si cerca di tenere alto il livello di sentimentalismo, di indurre al pietismo, per non far focalizzare il cuore vivo della questione, che è assai sottile e controversa.
Questo processo è un fallimento del diritto, comunque vada a finire: infatti Cappato è colpevole di istigazione al suicidio, ma non è il più colpevole, benché sia l’unico inquisito. Infatti una persona scaraventata nel buio e nella paralisi può evidentemente sopravvivere al dolore psicologico, prima ancora che fisico, solo attraverso l’amore, solo grazie allo sguardo di chi, attorno a lui, sappia trovare motivi nuovi e diversi per continuare a vivere, come fanno tantissimi malati in condizioni analoghe a Dj Fabo che ogni giorno combattono la propria battaglia difficile su questa terra sapendo comunque godere della gioia della vita. È un misto indecifrabile di sostegno psicologico e spirituale, ciò che effettivamente fa la differenza e che evidentemente in questa triste storia è mancato. Nessuno attorno a lui gli ha saputo fornire ragioni per vivere, in attesa che egli stesso avesse il tempo per ritrovarle da sé, nel difficile processo di ricerca di un nuovo equilibrio. La fidanzata che chiede la morte, accanto al suo letto, che si presta a leggere in tv la sua richiesta di morire, è l’emblema della resa: se nemmeno tu, che mi ami, che dici di amarmi, trovi un motivo perché io viva, perché dunque io devo vivere?
Eppure è inquisito solo Cappato, che ha fatto da autista fino in Svizzera e che ha fatto mercimonio del dolore privato di quest’uomo. D’altra parte uno non può essere accusato di non aver fornito un supporto che non aveva per se stesso: chi può darsi la forza che non ha? Si istiga al suicidio quando ci si inserisce in una debolezza psichica, quando si manipola, si opprime, si deprime a tal punto una personalità da spingerla a preferire la morte rispetto alla vita. Non è questo il caso, ovviamente: Fabiano era già in una condizione tra le più difficili immaginabili per un essere umano, nessuno si è accanito contro di lui per vessarlo di più, semplicemente non ha trovato gli appigli di cui aveva disperatamente bisogno per non sprofondare, ma non averglieli forniti non è una colpa penale. Però non è nemmeno un segno d’amore, un gesto grondante pietà, come si vorrebbe far credere: non cercare di fare desistere dal proposito di morte qualcuno, avendone la possibilità, è azione di cui vergognarsi, non certo di cui vantarsi in tv.
Cappato, invece, ha fornito la giustificazione morale alla resa e i mezzi materiali per metterla in atto, ma nessun becchino può convincere un uomo a morire prima, per quanto sia un abile venditore di bare. Insomma, la sua azione è stata umanamente spregevole, in quell’offerta di un finto aiuto che era poi solo la fine di ogni opportunità e futuro e soprattutto nello sfruttamento ignobile della sua situazione per la propaganda per i propri fini politici, ma che sia configurabile come reato penale di istigazione al suicidio è ancora tutto da vedere.
Di contro, se il processo dovesse assolvere Cappato, automaticamente si aprirebbe anche in Italia il mercato promozionale del turismo di morte verso le cliniche svizzere e potrebbero spuntare nuovi avvoltoi di fianco ai letti di persone sofferenti per alimentare il business dell’iniezione letale a costo altissimo per la vittima e bassissimo per la clinica. Serve qualcuno che, in qualche sede istituzionale autorevole, sia in grado di ribadire l’ovvio che ci stiamo smarrendo, e cioè che ammazzare qualcuno dietro compenso è azione da assassini sicari, non da caritatevoli samaritani, e che la vita è un bene primario da tutelare, senza attributi ulteriori. Per parlare di qualità della vita, serve la vita.