Società
di Lucia Scozzoli
Ciascuno deve scegliere per se
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Non si spegne il dibattito sulle DAT (disposizioni anticipate di trattamento), normate dalla legge appena approvata dal Parlamento: fortunatamente, pare che questa ennesima “conquista di civiltà” non riesca ad essere così agevolmente digerita come l’epopea radicale e di sinistra ha cercato di farci intendere.
Infatti la questione non può spegnersi per il semplice banale motivo che adesso la palla è passata dai senatori ai cittadini: ciascuno deve scegliere per sé cosa fare (sebbene non sia ancora chiaro il come). Farsi un’idea precisa e circostanziata degli eventi nei quali potrebbe tornare utile o dannoso avere redatto le proprie DAT non è esercizio di stile, bensì indispensabile attività di discernimento sulla propria personale e circostanziata vita.
È dunque molto importante chiarire alcuni concetti che ai più sfuggono (perché finora in salute): in Italia, grazie a Dio, esiste già un’ottima alleanza medico-paziente, per cui ogni singolo caso viene sì trattato all’interno di binari procedurali prefissati (perché scelti come protocolli standard da percorsi esperienziali medici e didattici comprovati, non perché al primario di turno gira così), ma è altresì vero che ogni paziente ha una storia clinica unica e personale non incasellabile facilmente in categorie. Nel momento in cui ad una persona viene presentata la diagnosi infausta di una malattia dal decorso più o meno rapido, verso l’impossibilità comunicativa, o l’incoscienza, le viene anche spiegato il dettaglio di come questo scivolamento avverrà, della durata probabilistica di ciascuna fase, delle difficoltà associate ad ogni passo, ovviamente crescenti. Fino a che punto dovranno arrivare i trattamenti è un tema subito affrontato, ma mai in maniera definitiva perché, come i medici ben sanno, la prospettiva cambia man mano che si avanza nel buio sempre più fitto. In tanti, davanti al verdetto di una distrofia, o sla, subito esclamano “non voglio ridurmi così”, alludendo alle fasi finali della malattia, ma poi, visto che ci si arriva lentamente, durante l’arduo percorso capita sovente che cambino idea e che considerino man mano accettabili condizioni che in prima battuta avevano rifiutato, perché trovano nella vita delle motivazioni più profonde del semplice benessere superficiale per proseguire nella battaglia.
Ci sono anche casi in cui il paziente, a ridosso dell’evento ampiamente prevedibile, già comunichi ad esempo di non voler essere intubato, quando sopraggiungerà la prima grossa crisi respiratoria, segno di un collasso irreversibile. In quei casi nessuno lo intuba a forza, ma viene accompagnato con le cure palliative verso la morte inevitabile. Capita anche che un malato grave di diabete, con la circolazione ormai non funzionante, rifiuti un’amputazione di arto in cancrena, e vada incontro alla morte più rapidamente, ma non serve nessuna disposizione anticipata di trattamento in questi casi: si tratta di pazienti pienamente coscienti, che applicano il loro sacrosanto diritto di decidere fin dove spigere le cure, per malattie che comunque sono destinate a condurre nella tomba. Il confine tra trattamento e accanimento è una linea sottile, mossa dal pazienze secondo la propria personale storia e sensibilità, e dalla medicina, sempre in continua evoluzione e capace di proporre ogni giorno nuove speranze.
Ci sono malati terminali a cui è proposto in totale trasparenza di sottoporsi a trattamenti sperimentali, che daranno loro un breve allungamento della vita, nella migliore delle ipotesi, e in tanti accettano, perché tutta questa gente che si affolla per scegliere di morire non è che poi ci sia effettivamente: più spesso i malati vogliono vivere, a volte si accontentano di qualche giorno in più.
Personalmente posso testimoniare di due miei zii, che hanno subito la triste sorte di dure malattie: uno sclerosi multipla, l’altro tumore. Il primo ha subito decretato che non avrebbe aspettato di ridursi ad una larva, ma poi ha accettato di scendere piano piano lungo il calvario del dolore, accompagnato da una moglie innamoratissima, che gli ha saputo comunicare l’importanza del fatto che lui restasse il più a lungo possibile con lei, essendo la stampella ai suoi passi sempre più incerti, fino a spingere una carrozzina, vedendo per lui quando i suoi occhi non hanno più mostrato l’orizzonte, facendosi presenza consolatrice nei momenti di più dolore.
Lo zio malato di tumore è stato divorato in pochi mesi: la sua unica preoccupazione era non far preoccupare la moglie, prima, quando ancora c’era speranza, e non farle pensare che si fosse arreso, dopo, quando è stato chiaro che la battaglia era persa. Ad un certo punto i medici che lo avevano in cura hanno parlato chiaro: la chemioterapia, alleggerita progressivamente compatibilmente con quello che il suo fisico malato poteva sopportare, ormai dava più danno che aiuto, suggerivano di sospendere e di lasciar andare. Non lo dissero a mio zio, però, perché egli già lo sapeva: lo dissero a mia zia, perché avevano anche capito bene che era lei la sua fonte di vita, l’unica persona del cui giudizio gli importava. Non avrebbe mai dismesso la terapia, se questo avesse fatto pensare alla moglie che preferiva lasciarsi morire che combattere ancora per restarle accanto.
Che potrebbe mai scrivere una persona in salute nelle proprie DAT? L’amore senz’altro cambia tutto e la solitudine fa scegliere le scorciatoie anche verso la fine. Ma è già così, anche senza bisogno di queste dichiarazione anticipate, è così in tutti i casi in cui si realizza una collaborazione tra i tre soggetti in gioco: il malato, il medico e la famiglia. Non è vero che il rapporto è a due, non lo è mai in nessun caso, dal bambino all’anziano. Il dolore è il momento del deserto, il malato si trova scarnificato nella solitudine di una sofferenza che può solo essere intuita dagli altri, mai pienamente compresa. I familiari sono il ponte tra il malato e il mondo, gli unici in grado di leggere nel non detto, di bucare la coltre di solitudine e fornire un’effettiva prossimità. Il dramma vero e lancinante si realizza quando la famiglia non è più alleata del malato, ma sua nemica: quando l’anziano a carico in stato di demenza è un peso per il costo e per la fatica delle cure domiciliari o ospedaliere; quando il congiunto è in coma e non comunica più, non restituisce alcun feedback di gratificazione; quando non tolleriamo di assistere al disfacimento altrui.
Ricordiamo bene: in caso di coscienza, il malato dice da sé cosa vuole. In stato di incoscienza, di quale sua sofferenza stiamo parlando di preciso? Non stiamo piuttosto considerando la nostra, a restargli accanto?
Inoltre con la parola “coma” non si indica uno stato preciso, ma una condizione che può essere descritta in molte gradazioni: la scala detta “Glasgow Coma Score” è un punteggio che viene assegnato al paziente in stato comatoso per definire in termini descrittivi il tipo di coma. Si basa su tre aspetti clinici fondamentali: apertura degli occhi, che descrive la vigilanza del paziente; le migliori risposte verbali, cioè se il paziente riesce a relazionarsi; migliori risposte motorie.
Quindi dire coma senza dettaglio ulteriore non significa nulla. Inoltre nessuno assicura che la mancanza di relazione significhi anche assenza di coscienza: esistono persone che sono riuscite a risalire da stati di incomunicabilità e che hanno rivelato di essere sempre stati presenti. Lasciar morire di fame e sete simili pazienti, supponendo che soffrano moralmente (perché incapaci di autodeterminazione) ma non fisicamente è un azzardo.
Eluana non soffriva affatto, ma suo padre sì. E morire di stenti di fronte a spettatori inerti l’ha fatta soffrire assai di più, come testimonia il referto dettagliato del suo calvario.
Infine se qualcuno crede di poter disporre di sé per una dipartita rapida, per fare un favore ai familiari, si ravveda in fretta: chi ti ama, vuole che resti. E se ami, vuoi restare.