Società
di Lucia Scozzoli
Postano foto dei figli online: multati
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Si dice fin dall’antichità: in nomen omen. Oggi però, con la tecnologia social che si innesta sulle nostre vite in modo continuo, sarebbe più giusto dire che il presagio del nostro destino non sia più racchiuso nel nome, quanto piuttosto nella nostra immagine: instagram ha fatto scuola.
In tal senso risulta estremamente ragionevole la sentenza del Tribunale di Roma del 23 dicembre 2017, con la quale il giudice ha condannato una madre a togliere dalla rete tutte le immagini del figlio 16enne, pena una multa di 10.000 euro.
La storia sottesa non è delle più allegre: il ragazzo è purtroppo vittima innocente in mezzo ad un divorzio in corso, per cui la guerra tra i due ex coniugi si è svolta anche sui social, a colpi di immagini col figlio, cosa che ha messo il giovane in una situazione psicologica estremamente sgradevole e lo ha indotto a rivolgersi al giudice per ottenere l’applicazione della banale misura di buon senso: se ti chiedo di non postare mie foto, tu non le devi postare, anche se sei mia madre.
Tra l’altro un 16enne è ancora un minore, ma certo non lo si può definire bambino inconsapevole e quanto valga la propria immagine già lo sa, come lo sanno tutti gli adolescenti che finiscono malauguratamente nel mirino di qualche bullo coetaneo sul web e si ritrovano straziata pure la quotidianità reale.
Da diversi anni ci sono ricercatori che si occupano di *cultural studies** e analizzano i fenomeni di massa che passano sui social. *Jaremy Sarachan, professore di comunicazione e giornalismo al St. John Fisher College, ad esempio, ha condotto uno studio sulle immagini profilo degli utenti di Facebook, le ha classificate e poi ne ha tratto alcune conclusioni. Dietro la scelta di una foto, di un filtro, o di una pic, ci sono sempre motivazioni psicologiche complesse, spesso inconsce: in ogni caso un’immagine risulta più immediata di un discorso a parole e dà l’impressione di una comunicazione più veloce ed efficace, anche se ciò è vero solo nei confronti degli altri utenti del social che abbiano un modo di decodificare quelle immagini simile al nostro.
Purtroppo esistono gruppi chiusi di persone evidentemente disturbate che riescono a vedere uno sfondo sessuale nel più banale ed innocente dei sorrisi e nei quali si fa scempio di immagini prelevate dai profili altrui per esercitare il pubblico sberleffo, l’insulto libero e l’umiliazione. Costoro ritengono di coltivare un passatempo innocuo, mentre proiettano i propri vizi sulle immagini altrui e così facendo li alimentano in se stessi. Quando poi il gioco viene esercitato su foto di persone conosciute dal gruppo, il risultato è che esso prosegue anche al di fuori dei social e si trasforma in bullismo vero e proprio.
Le persone che scoprono di essere state usate come bersaglio di un tiro a freccette solitamente non la prendono affatto bene: l’immagine che gli altri hanno di noi costituisce un tassello importante della nostra identità, sebbene non l’unico, ed essere colpevolizzati non per qualcosa che abbiamo fatto o che siamo, bensì solo per come siamo apparsi in un’istantanea, getta nello sconforto assoluto.
La protezione della propria immagine, dunque, non è affatto un tema banale o da ragazzini: C.H. Cooley, esponente della psicologia sociale, definisce addirittura il concetto di sé come “prodotto (passivo) delle relazioni con gli altri”, ovvero *“looking – glass self”*, cioè considera il sé come prodotto del rispecchiamento che ogni individuo effettua negli altri. Grazie a processi sempre più complessi di tipo cognitivo, simbolico e sociale, l’individuo interiorizza gli atteggiamenti, i ruoli sociali, le rappresentazioni e le aspettative del gruppo di appartenenza e costruisce il proprio sé.
Questo io di rispecchiamento consiste in tre elementi: l’immagine relativa al nostro modo di apparire agli altri; l’immagine relativa al loro giudizio sul nostro modo di apparire; la risposta affettiva del soggetto alla valutazione percepita, formata soprattutto da sentimenti di orgoglio o di frustrazione.
La valutazione di sé è un processo che non si interrompe mai, perdura per tutta la vita dell’individuo, ma quello che si sviluppa durante l’infanzia, all’interno della famiglia, è il più duraturo e meno modificabile.
Il senso di identità scaturisce anche dalla percezione con il proprio corpo: per sapere chi siamo, dobbiamo riconoscere quello che sentiamo, a livello di sensazioni, movimenti, portamento. Nella nostra società, piuttosto concentrata sull’immagine, molte persone soffrono di confusione di identità, si sentono minacciate quando il ruolo e l’immagine che hanno fatto propria è messa in discussione. Prima o poi l’identità costruita sull’immagine di sé o su un ruolo particolare, non è più sufficiente e non offre una adeguata soddisfazione all’individuo. Il progressivo distacco dell’uomo dal prossimo e da se stesso, genera una sessualità prestazionale, compulsiva, una vita professionale scarica di creatività e un pensiero di vita egoistico. Questo provoca una perdita di valori universali e gioia di vivere, e la percezione di sé connessa a sensazioni e sentimenti è sostituita da un’immagine astratta e surreale. Calunniare, depredare, offendere, umiliare e addirittura uccidere diventa facile se l’essere umano è ridotto solo all’immagine di sé. Un estremista può commettere atti efferati se vede in un uomo solo l’immagine che deriva dalla sua carica politica. L’odio per una filosofia si traduce nell’odio per l’uomo.
La diffusione di un uso smodato dei social, in cui, per come sono strutturalmente concepiti, l’immagine statica è il mezzo fondamentale per veicolare se stessi, rischia di provocare una dissociazione di massa dalla propria identità e in questo senso si coglie in pieno la gravità del grido di allarme di Parker e Palihapitiya sui danni che Facebook (ma anche Instagram e simili) può fare alla società.
Si capisce dunque come possa essere deteriorata la situazione di una famiglia in pezzi in cui due genitori cerchino di ridefinire il proprio ruolo e la propria identità muovendosi con spregiudicatezza sui social, a discapito del figlio, tanto da ignorare gli appelli di quest’ultimo a tenerlo fuori da questo processo sostanzialmente autolesionista. Infatti la vera domanda non è se è giusto o no comminare una multa tanto salata per qualche foto, quanto piuttosto perché una simile diatriba sia dovuta approdare in tribunale.
Non ci si parla più faccia a faccia, ma si procede a colpi di post. Non si ascolta più la voce viva e vibrante di una persona fisicamente presente, ma se ne rielabora l’identità attraverso istantanee di un’armonia ormai perduta.
Dice Alessandro D’Avenia “Viene il giorno che ti guardi allo specchio e sei diverso da come ti aspettavi. Sì, perché lo specchio è la forma più crudele di verità. Non appari come sei veramente. Vorresti che la tua immagine corrispondesse a chi sei dentro e gli altri, vedendoti, potessero riconoscere subito se sei uno sincero, generoso, simpatico… invece ci vogliono sempre le parole o i fatti. È necessario dimostrare chi sei. Sarebbe bello doversi limitare a mostrarlo. Sarebbe tutto più semplice.”
In tanti si stanno illudendo che basti postare la foto giusta per essere la persona giusta. Ma ciascuno è definito da ciò che fa, non da ciò che appare, nel bene e nel male.