Storie
di Lucia Scozzoli
Clochard morto in un rogo: fatalità?
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Un barbone (straniero) morto carbonizzato nell’auto in cui viveva e due minorenni (stranieri) indagati. Questa è la storia di degrado emersa dall’inchiesta sul rogo avvenuto nel dicembre scorso a Santa Maria di Zevio (Verona).
Ahamed Fdil, un marocchino di 64 anni, era rimasto senza lavoro e aveva fatto dell’auto la propria casa. Era spesso importunato dai ragazzi del quartiere, i quali a volte gli lanciavano contro pure dei petardi. Quelli del paese lo chiamavano Gary “il buono”, segno che il suo semplice augurare buona giornata a chi incrociava, quando chiedeva l’elemosina, aveva lasciato un’impressione positiva. Gary era un clochard vero, di quelli che hanno il disagio economico solo come scusa sottesa alla propria scelta di vita: Ahamed aveva alle spalle una famiglia benestante (un nipote a Barcellona ed altri parenti ad Oslo), ma aveva preferito accomodarsi nel paesello vivendo così, di briciole, senza pretese.
Il 13 dicembre, nella sera di santa Lucia, sarebbe avvenuto l’incidente, classificato dapprima come tragica fatalità, magari dovuta ad un mozzicone di sigaretta e all’alcool. Ma le indagini hanno condotto il Tribunale dei Minori di Venezia a formulare l’ipotesi di omicidio a carico di due giovanissimi, di 13 e 17 anni, di origine straniera (uno nordafricano e l’altro dell’Est Europa).
“Gioco perverso”, “scherzo finito male”, “legge del branco”, “bullismo”. In realtà omicidio, non si sa ancora se volontario o preterintenzionale. Saranno gli esiti definitivi dell’autopsia a stabilirlo, chiarendo se Ahamed è morto per le fiamme, o per il fumo, o magari se era stato in precedenza colpito e tramortito. In ogni caso la sua fine è stata atroce: infatti è stato ritrovato incastrato nell’auto mentre cercava di uscire dal finestrino della vettura in fiamme.
Come si può bruciare un uomo? O non soccorrerlo in una situazione tanto grave? Questa è la domanda che tutti ci facciamo.
La nazionalità dei presunti aggressori risparmia il popolo italiano dall’accusa di razzismo e almeno questa è una magra consolazione. Però la loro giovane età mette sul banco degli imputati anche il nostro sistema scolastico, che nelle intenzioni dovrebbe creare integrazione e soprattutto tolleranza, ma pare essere assai poco incisivo su questo. Resta l’incognita sulle famiglie di origine dei due ragazzi: qual è il substrato culturale di provenienza? La coesione affettiva? I valori insegnati?
In Italia la povertà sta avanzando: ci sono 7,2 milioni di poveri, 50mila senza tetto. La maggioranza vive nelle grandi città, soprattutto a Roma e Milano, ma stanno aumentando anche nelle zone di provincia. L’85,7% sono uomini, il 58,2% sono stranieri, il 75,8% ha meno di 54 anni. Solo l’8% si ritrova a condividere la situazione di precarietà totale con un partner o un figlio, segno che in qualche modo questo è anche un dramma della solitudine affettiva. Addirittura il 14,1% degli intervistati per la rilevazione statistica ha avuto difficoltà ad interagire con gli operatori, per problemi di comprensione linguistica (29,7%) ma soprattutto per problemi legati a limitazioni fisiche o a disabilità evidenti (insufficienze, malattie o disturbi mentali) e/o dipendenze.
Quindi in mezzo al popolo dei senza tetto c’è tantissimo disagio psicologico e sociale, non solo un problema economico. Per questo appaiono spregevoli le ordinanze che alcuni sindaci d’Italia hanno emesso per ridare decoro alle città, come montare sulle panchine dei parchi dei separatori di posto che impediscano alle persone di stendersi. Inoltre si dice che i clochard devono rifugiarsi nelle strutture preposte, ma queste strutture non sempre ci sono e soprattutto sono quasi esclusivamente della Caritas (e numericamente in calo), segno che lo stato sta facendo poco o nulla a riguardo.
Solo il 60% dei senza tetto è riuscito a dormire almeno una volta al mese in una struttura di accoglienza notturna.
È difficile non provare diffidenza verso chi sta letteralmente ai margini delle strade, come anche distinguere gli accattoni di professione dai bisognosi veri, ma nel caso di Ahamed non sussistevano dubbi in merito e l’azione di bullismo violento messo in atto di ragazzi del paese è senza senso, è puro sadismo sul più debole, incapacità di riconoscere nel barbone un uomo.
Da una inchiesta realizzata qualche anno fa dalla Società italiana di Pediatria su circa tremila ragazzi italiani tra gli 11 e i 14 anni, i motivi che spingono a fare il bullo sono i seguenti: essere ammirato all’interno del gruppo degli amici (84%), diventare il leader del gruppo (79%), essere attraente per le ragazze (70%), non essere emarginato (61%), essere temuto (58%), solo per divertirsi un po’ (45%). Questi sono i motivi consapevoli, ma naturalmente ce ne sono anche di inconsapevoli: la frustrazione per i brutti voti a scuola, sfogata magari su un compagno più esile; essere a propria volta vittima o assistere a violenza fisica o verbale in famiglia; esorcizzare la paura di diventare a propria volta vittime.
Per quanto riguarda la consapevolezza di fare del male, alcuni ce l’hanno e aggrediscono di proposito, qualche volta per vendetta, altre volte per “divertirsi” a spese di un soggetto percepito come debole, oppure antipatico, sgradevole ecc. Altri invece pensano che siccome loro si divertono il loro comportamento non sia grave.
I comportamenti violenti nei giovanissimi dipendono dunque da molti fattori, ma principalmente dalle condizioni di vita, da come i giovani vengono allevati, dal loro livello di soddisfazione e di inserimento nel contesto familiare, scolastico e sociale. In ognuno di noi c’è un certo quantitativo di aggressività, indispensabile per sopravvivere e difenderci, ma essa certo va incanalata verso obiettivi costruttivi e non trasformarsi in violenza gratuita. È l’educazione che permette questo processo. Subire o assistere a violenze in famiglia, essere sottoposti a insegnamenti espliciti o impliciti violenti; provare frustrazioni, insuccessi, senso di vergogna, ricerca di attenzione, carenze affettive, assenza di disciplina e di un codice morale; sono tutti fattori incidenti importanti, che si innestano su una fragilità emotiva dell’individuo.
Inoltre le famiglie, più o meno disastrate, più o meno in difficoltà, si trovano a vivere in contesti in cui non si parla più esplicitamente di bene e di male, ma tutto è immerso in un relativismo etico il cui unico principio valido è farsi gli affari propri, per cui il fatto stesso di non rischiare una sanzione, un rimprovero, una punizione, spinge i ragazzi a dare il peggio di sé, a patto di non essere scoperti. Il forte prevale sul debole e il debole non ha diritto a nessuna pietà.
Che dignità ha un barbone? Che diritti? Egli è come un cane randagio, fatto oggetto delle più malevole angherie, perché tanto non c’è nessun padrone che verrà a difenderlo.
Più che il razzismo dovuto ad una differente etnia, è pericolosa la discriminazione compiuta con criteri economici e sociali: il povero e l’emarginato sono meritevoli di disprezzo e ostracismo, non di cura o di semplice umano rispetto. Il rischio grave che corriamo in Italia è di far convergere l’intolleranza verso i poveri con l’intolleranza per gli stranieri, creando un mix esplosivo di rabbia e violenza. Ma non è un rischio che corrono specificatamente gli italiani, quanto piuttosto gli abitanti dell’Italia, stranieri compresi: nella guerra tra poveri, il povero sa essere incredibilmente più crudele del ricco.