Storie
di Lucia Scozzoli
E’ un diritto di ogni uomo essere anche donna seppur non lo sia
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Il 17 gennaio scorso il collegio della seconda sezione civile del Tribunale di Pavia ha pronunciato una sentenza con cui riconosce ad un 29enne la facoltà di cambiare anagraficamente sesso, da maschile a femminile, anche senza l’intervento di riassegnazione previsto dalla legge, poiché il soggetto in questione si trova in uno stato di obesità che ne pregiudica la salute e rende impossibile eseguire l’intervento senza sopportare rischi eccessivi. Il suo legale, Francesco Longiu, ha spiegato al tribunale che il suo assistito sarebbe nato «con indole femminile» e che già dal 2011 ha cercato di rivolgersi a un chirurgo per il cambio di sesso, ma egli «esprimeva parere negativo all’effettuazione dell’intervento e, successivamente, nel 2016, perdurando la problematica dell’obesità, ne certificava l’assoluta controindicazione, onde evitare di esporlo a elevati rischi per la propria incolumità nel corso dell’intervento, oltre a complicanze post - operatorie».
Il tribunale di Pavia riconosce ora che «la libertà di autodeterminazione dell’individuo nel decidere di avvalersi di tale intervento rappresenta un diritto inviolabile della persona, che non mette in discussione la serietà del percorso soggettivo intrapreso, qualora la persona decida di non sottoporsi al trattamento medico - chirurgico».
Era già successo nel luglio scorso: con la sentenza 180 del 13 luglio 2017 la Corte Costituzionale aveva escluso la necessità di interventi chirurgici per ottenere l’ufficializzazione del genere a cui un individuo si sente di appartenere, in spregio ad ogni verificabile realtà biologica, aprendo la strada alla riassegnazione anagrafica del genere, anziché del sesso.
La transizione, che comincia con le cure ormonali e che dovrebbe approdare all’intervento chirurgico di asportazione dei genitali originari e ricostruzione di nuove imitazioni di organi, può essere ora ufficialmente sostituita dall’intervento di un giudice sufficientemente convinto dell’irreversibilità della disforia di genere del soggetto, del tutto a prescindere dall’anatomia, dalla biologia e anche dalla storia clinica, psicologica e familiare della persona.
La scienza, che parla di cromosomi e geni, oggettivamente verificabili, è accantonata in un angolo, superata dal predominio del mito all’autodeterminazione. E ancora andiamo bene: infatti il punto dirimente della sentenza è la valutazione dell’irreversibilità della disforia, ma solo per il momento. Non sappiamo quanto durerà, questo flebile argine, a reggere all’urto dirompente della follia collettiva sbarcata nelle aule dei tribunali: perché mai dovrei avere il diritto di cambiare l’indicazione del sesso anagrafico solo una volta? Se oggi mi sento donna, l’anno prossimo uomo, e poi mi pento e voglio tornare donna? E poi magari di nuovo uomo? Venuto a mancare completamente il criterio dell’oggettività scientifica, entrati a piè pari nel principio di irrealtà, non si capisce perché si debba prevedere una sola riassegnazione.
Infatti in Canada si possono già iscrivere all’anagrafe bambini senza l’indicazione del sesso, cosicché possano deciderlo da grandi in tutta libertà.
Il passo ulteriore sarà l’eliminazione dell’informazione del sesso dai documenti di identità in generale, per proteggere una minoranza esigua di disforici indecisi, nonché preservare le istituzioni dal vespaio di incongruenze giuridiche in cui si sta andando a cacciare con queste sentenze creative, piegate al progressismo individualista.
Secoli di statistica finiranno nel bidone del politically correct: gli studi medici dettagliati per sesso, le ricerche sociologiche, pure la più futile disciplina del marketing dovranno fare a meno di un’informazione che non è mai stata velleitaria, né superflua, essendo maschi e femmine profondamente diversi dal punto di vista fisico, psicologico e comportamentale. Una grande madornale masochistica zappata sui piedi. Chissà a vantaggio di chi.