Storie

di Emilia Flocchini

Oggi parla il piccolo San Giovanni Bosco

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La prima figura che abbiamo scelto di trattare è una scelta quasi scontata: oggi infatti la Chiesa ricorda san Giovanni Bosco, ritenuto quasi per eccellenza il Santo dei giovani. È anche il centotrentesimo anniversario esatto dal suo passaggio da questo mondo al Padre. Ecco quindi un tentativo di dare uno sguardo agli anni che hanno contribuito a renderlo un uomo e un sacerdote riuscito, immaginando che sia lui stesso a raccontarli.

Se mi chiedessero come sono stati gli anni della mia giovinezza, non avrei timore di affermare che sono stati fondamentali. Durante quel tempo, ho imparato tanti insegnamenti che mi sarebbero risultati utili in un secondo momento. Penso che facessero parte di quel “tutto” che avrei compreso a suo tempo, come mi disse quella Signora che vidi, a nove anni, nel sogno che mi cambiò la vita.

La prima cosa che ho imparato è stata che dovevo tenere a freno il mio carattere. Sono sempre stato un tipo facile agli scatti d’ira, specie quando vedevo compiere qualche ingiustizia. È stato così anche quando, sui banchi di scuola a Chieri, ho preso le difese di Luigi Comollo e di Antonio Candelo. Erano due bravi ragazzi, specie il primo: una volta si prese un paio di schiaffi solo perché non voleva partecipare alla gazzarra degli altri compagni, prima di una lezione. La sua risposta mi lasciò senza parole: disse che perdonava chi l’aveva colpito. Quella volta lasciai correre, ma quando mi accorsi che gli altri se la prendevano di nuovo con lui ho letteralmente perso la ragione: ho afferrato un altro dei miei compagni e me ne sono servito per picchiare gli altri, quasi fosse una clava umana. Il professore, al vedere la scena, scoppiò a ridere e si dimenticò di punirci tutti. In compenso, Luigi mi ricordò che non avrei dovuto usare la mia forza fisica per fare del male agli altri.

Nello stesso anno, intorno al 1832, ho dovuto cambiare pensione: la signora Lucia Matta, che mi aveva ospitato da quando avevo sedici anni, aveva ripreso in casa suo figlio, che aveva terminato gli studi. Sono quindi stato accolto da Giovanni Pianta, che aveva appena inaugurato un caffè a Chieri. “Accolto” forse è un termine eccessivo, dato che dovevo fare l’aiutante in quel locale. Ogni mattina, prima delle lezioni, dovevo fare le pulizie, poi correvo alla Messa nella chiesa di Sant’Antonio. La sera, invece, servivo al banco e dovevo tenere il conto del punteggio nella sala del biliardo. In cambio avevo solo un piatto di minestra due volte al giorno e mi veniva condonato l’affitto.

E il tempo per studiare? Avevo una buona memoria, ma dovevo pur stare qualche ora sui libri. Trascorrevo quasi tutta la notte a studiare, sotto la luce di una lampada. Molto spesso il signor Pianta mi trovava con il libro ancora aperto, cominciato la sera prima. A lungo andare, però, rischiavo di rovinarmi la salute. Ho quindi riconosciuto che dovevo fare quello che potevo e non di più, perché la notte è fatta per il riposo.

Intanto, però, cominciavo a chiedermi cosa dovessi fare della mia vita. Il sogno di cui accennavo prima mi fece intuire che avrei dovuto conquistarmi i ragazzi non con i pugni – e quanti ne avevo dati! – ma con la mansuetudine e l’amore. Col passare degli anni, ho seguito l’interpretazione che mia madre, Margherita, aveva dato quando l’avevo raccontato a lei e agli altri di casa: era segno che Dio mi voleva sacerdote. Il fatto era che la mia famiglia era molto povera e mio padre, Francesco, era morto che non avevo ancora due anni. Non volevo essere di peso, ma sentivo che quella fosse la strada per me.

Così, nel marzo 1834, ho presentato domanda per farmi francescano. Sono andato a Torino per l’esame necessario e, il 18 aprile, sono stato accettato. Non avrei dovuto nemmeno versare la quota a cui erano tenuti i novizi: i frati comprendevano le mie ragioni economiche. Il mio parroco, don Dassano, rimase stupito quando gli chiesi i documenti che mi servivano. Era così contrario che andò da mia madre e cercò di convincerla a farmi cambiare idea. Mamma Margherita venne sì a trovarmi, ma mi fece capire che avrei dovuto seguire la volontà di Dio, non la sua o quella del parroco. «Io sono nata povera, sono vissuta povera e voglio morire povera. Anzi, te lo voglio dire subito: se ti facessi prete e per disgrazia diventassi ricco, non metterò mai piede in casa tua», dichiarò, prima di andarsene.

Un altro dei miei sogni mi mandò ancora più in confusione: un frate mi diceva che in convento non avrei trovato pace e che Dio preparava per me un altro luogo. Mi confidai con Luigi Comollo, il quale mi suggerì da una parte di fare una novena, dall’altra di ricorrere a un suo zio sacerdote. L’ultimo giorno della novena arrivò una lettera da parte di don Comollo: il suo consiglio era quello di non diventare frate.

Un altro consiglio importante mi arrivò da don Giuseppe Cafasso. Aveva appena ventitré anni e doveva completare gli studi di approfondimento teologico, ma era già molto ricercato come direttore spirituale a Torino. Era anche famoso come “il prete della forca”, perché accompagnava e confortava i carcerati fin sul luogo della loro esecuzione. Anche lui mi suggerì di entrare in Seminario e di non preoccuparmi per il denaro: Dio avrebbe provveduto.

Ecco quindi che, il 25 ottobre 1834, nella chiesa del mio paese, Castelnuovo d’Asti, ho indossato per la prima volta la veste nera da prete. Lasciando i miei abiti, ho pregato il Signore di distruggere le mie cattive abitudini e di aiutarmi a vivere davvero una vita nuova. Lo stesso giorno, mi hanno portato alla festa patronale del paese vicino. Il chiasso dei festeggiamenti e il comportamento di alcuni sacerdoti mi lasciò impressionato, tanto che, nei quattro giorni successivi, mi sono dato a riflettere attentamente. Nei sette propositi che ho scritto allora, promettevo di abbandonare le mie abitudini di prima, come andare a vedere spettacoli pubblici o fare il saltimbanco. Da bambino, infatti, lo facevo spesso, ma prima di concludere invitavo il mio pubblico a pregare.

Il 30 ottobre sono entrato nel Seminario di Chieri, accompagnato, ancora una volta, dalle esortazioni di mamma Margherita. Mentre preparavo il mio baule, la sera precedente, mi aveva preso in disparte e ribadito: «Se un giorno avrai dubbi sulla tua vocazione, per carità, non disonorare quest’abito. Posalo subito. Preferisco avere per figlio un povero contadino piuttosto che un prete trascurato nei suoi doveri».

Le giornate in Seminario erano scandite dal suono della campana, che per noi doveva essere la voce di Dio che ci richiamava al dovere. Era molto difficile obbedirle quando dovevamo terminare la ricreazione. Spesso mi mettevo a giocare a carte, puntando del denaro: pur non essendo molto bravo, guadagnavo sempre, a spese, però, dei miei compagni. La tristezza che provavo nel vederli così abbattuti mi fece decidere di smettere, quand’ero al secondo anno di Filosofia. Dovevo concentrarmi sui libri, non sulle figure delle carte, che mi tornavano in mente perfino quando studiavo.

Il giovedì venivano a trovarmi i miei amici e compagni di scuola, quelli che avevo riunito nella «Società dell’Allegria». Insieme ci eravamo impegnati a non compiere azioni o pronunciare discorsi che facessero arrossire un cristiano, a fare i nostri doveri scolastici e religiosi e a essere allegri, perché sapevamo di essere nelle mani di Dio. Intanto stavo iniziando a immaginare che tipo di prete avrei voluto essere. Se già da ragazzo ero certo che non avrei voluto essere uno di quelli che incutevano paura e autorità severa, negli anni di Seminario ho capito che non avrei mai fatto né il confessore delle ragazze, né il precettore in qualche famiglia nobile.

Il 3 novembre 1837 ho iniziato gli studi di Teologia e già nel 1838, il giorno della Madonna del Rosario, sono stato invitato a tenere la mia prima predica nel paese di Alfiano. Dopo la celebrazione, ho chiesto a don Giuseppe Pelato, il parroco, come fossi andato. Il suo giudizio fu positivo, ma solo in parte: avevo espresso contenuti che a me parevano semplici, ma erano complicati per il popolo, con uno stile ordinato. Da allora mi sono impegnato a seguire quel che lui aggiunse: «Bisogna lasciare lo stile dei classici, parlare in dialetto, o anche in lingua italiana se volete, ma in maniera popolare, popolare, popolare. Invece di fare ragionamenti, raccontare esempi, fare paragoni semplici e pratici. Ricordatevi che la gente segue poco, e che le verità della fede bisogna spiegarle nella maniera più facile possibile».

L’ordinazione sacerdotale, intanto, si avvicinava. Scrivevo nel mio quaderno di appunti, durante gli Esercizi spirituali in preparazione: «Il prete non va da solo al cielo, non va da solo all’inferno. Se fa bene, andrà al cielo con le anime da lui salvate con il suo buon esempio; se fa male, se dà scandalo, andrà alla perdizione con le anime dannate per suo scandalo». Per questa ragione, ho rinnovato i propositi della vestizione e ho aggiunto altri tre punti: «Occupare rigorosamente il tempo; patire, fare, umiliarsi in tutto e sempre quando si tratta di salvare le anime; la carità e la dolcezza di san Francesco di Sales mi guideranno in ogni cosa». Sentivo particolarmente vicino quel santo perché, come me, aveva moderato il suo carattere, facendo confluire l’ardore che sentiva nella predicazione e nella scrittura.

Così, il 5 giugno 1841, sono stato ordinato sacerdote. Il giorno del Corpus Domini, il giovedì seguente, ho celebrato la prima Messa al mio paese, ma non era la prima in assoluto. Anche allora, mia madre non mancò di far sentire il suo consiglio: «Ora sei prete, sei più vicino a Gesù. Io non ho letto i tuoi libri, ma ricordati che cominciare a dir Messa vuol dire cominciare a soffrire. Non te ne accorgerai subito, ma a poco a poco vedrai che tua madre ha detto la verità».

Ho rifiutato tutte le sistemazioni che mi venivano offerte, fedele agli insegnamenti di mia madre e di don Cafasso. Sotto la sua guida, ho approfondito la formazione al Convitto Ecclesiastico di Torino, ma ho anche fatto la scoperta di quello che avrebbe dovuto essere il mio campo di lavoro. Fino ad allora avevo vissuto in campagna: non sapevo nulla di come i ragazzi e i giovani nei quartieri periferici di Torino trascorressero le loro giornate. Ho visitato le soffitte dove si rifugiavano gli operai al termine della giornata, ho incontrato ragazzi giovanissimi finiti in carcere e ho ascoltato la loro rabbia. È stato così che ho deciso: avrei speso la mia vita per salvarli, per evitare che altri avessero la loro sorte e per essere loro amico.

Il primo amico che ho incontrato era Bartolomeo Garelli, l’8 dicembre 1841. Era un muratore, di sedici anni, orfano di entrambi i genitori. L’ho trovato in sacrestia, mentre stavo indossando i paramenti per la Messa solenne. Nonostante i rimproveri del sacrestano, gli ho detto di restare per la celebrazione e, dopo, abbiamo parlato di Dio e di come lui sia nostro Padre. Per concludere, l’ho invitato a tornare la domenica dopo, con alcuni amici: lo fece.

Avevo appena ventisei anni ed ero prete da sei mesi. Non lo sapevo ancora, ma la mia storia stava per avere una nuova pagina. Non solo la mia, ma quella di tanti altri giovani che sarebbero passati per l’oratorio che avevo in mente. Da centotrent’anni guardo il mondo mentre sono immerso in Dio e sono sicuro che non va poi così male. Basta che ci siano uomini e donne, bambini e ragazzi, capaci di avere un po’ più di fiducia in Lui e in Maria Ausiliatrice: così sarà possibile compiere autentici miracoli.

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31/01/2018
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