Politica

di Emiliano Fumaneri

Quale governo dopo il voto? L’Italia attende!

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Quale governo dopo il voto? In questi giorni, come da prassi, si sprecano le ipotesi.

Tuttavia i numeri, apprendiamo da un bell’articolo apparso su ilPost.it, rendono possibili solo quattro combinazioni.

1. Centrodestra + “responsabili”. Al centrodestra mancano poco più di 50 seggi alla Camera e poco meno di 30 al Senato per arrivare alla maggioranza assoluta. Difficile però, se non praticamente impossibile, raccogliere 80 parlamentari fuoriusciti dal Movimento 5 Stelle o dal Pd disposti a sostenere un governo sotto la guida di Matteo Salvini.

2. “Governissimo” tra centrodestra + centrosinistra. Gli 80 parlamentari necessari al centrodestra potrebbero arrivare da un’intesa col centrosinistra. Una ipotesi, quella della larghe intese, che sembrava essere caduta nel dimenticatoio. Ma gli appelli alla responsabilità del Capo dello Stato potrebbero resuscitarla. Soprattutto a Berlusconi potrebbe andare a genio un governo di larghe intese appoggiato dal Partito Democratico.

3. Movimento 5 Stelle + Lega. Anche il M5s non ha i numeri per governare in solitaria. Gli mancano poco meno di cento seggi alla Camera e circa cinquanta al Senato. La Lega da sola potrebbe garantire una sottile maggioranza in Parlamento. Ma dovrebbe accettare due condizioni. La prima è la rinuncia a guidare il governo: la Lega infatti è il partito che ha preso più voti tra quelli della sua coalizione, ma ne ha avuti meno dei Cinque stelle che, dal canto loro, hanno già fatto sapere di voler formare un governo “monocolore”. Ai partiti alleati, pertanto, non rimarrebbe che un “appoggio esterno”: dovrebbero votare la fiducia al governo pentastellato senza però ricoprire incarichi, concordando al massimo un programma limitato.

4. Movimento 5 Stelle + Pd + LeU. L’altra opzione è un accordo tra Movimento 5 Stelle e le forze del centrosinistra, vale a dire Pd e Liberi e Uguali, alle stesse condizioni dello scenario precedente (governo monocolore 5s con appoggio esterno). Questa maggioranza sarebbe però ancora più risicata di quella garantita dalla Lega. Anche questo scenario non appare di facile realizzazione dato che il M5s pone come condizione l’uscita di scena di Renzi e il Pd continua a presentarsi come alternativa radicale ai “populisti” (M5s e Lega). Liberi e Uguali si è detto disponibile già in campagna elettorale a valutare la possibilità di appoggiare dall’esterno un esecutivo pentastellato, ma resta l’ostacolo inaggirabile dei numeri. Tuttavia se dovesse naufragare l’intesa tra Lega e 5s, è notizia di questi giorni, i piddini potrebbero anche essere disponibili al “sacrificio” e appoggiare un governo non loro in nome del “senso di responsabilità”.

Un quadro complesso, come si può vedere, che non fa escludere l’ipotesi supplementare di un governo tecnico.

Qualche indicazione supplementare può arrivare dalla analisi dei flussi elettorali dell’Istituto Cattaneo. Una lettura istruttiva. Dall’esame dei flussi emergono diverse cose interessanti.

a) Il M5s ha eroso pesantemente l’elettorato del Pd. «Il M5s», affermano gli analisti dell’Istituto Cattaneo, «si è posto come concorrente del Pd, offrendosi agli elettori di questa parte politica come una sinistra più “vera” di quella incarnata da un leader come Renzi che, su molte questioni (rinnovamento delle istituzioni, economia e lavoro, ecc.) ha assunto posizioni di rottura con la tradizione di sinistra».

b) Una novità: anche la Lega si è mostrata capace di erodere l’elettorato piddino. «I temi del controllo dell’immigrazione, e più in generale del “law & order”, tradizionale patrimonio dell’elettorato di centrodestra, sono evidentemente temi che oggi suscitano l’attenzione e le preoccupazioni anche dell’elettorato di sinistra, che in parte si lascia oggi attrarre da chi – come la Lega salviniana – ha posto questi temi al centro dell’agenda politica».

c) Il M5s conquista voti prevalentemente dal Pd. Ma, attenzione, al Nord e al Centro ne perde a vantaggio della Lega. Una dinamica emersa in tutte le città esaminate dall’Istituto Cattaneo e già verificatasi in passato alle elezioni comunali dove spesso al primo turno il M5S aveva rubato voti al Pd. Nel caso in cui però il candidato pentastellato non fosse riuscito ad attivare al ballottaggio, il voto dell’elettorato si era riversato in maggioranza sul candidato di centrodestra come a voler punire il centrosinistra nella sua veste di forza di governo. Per questo si era parlato del M5S come “traghettatore” di voti dal centrosinistra al centrodestra. Per cui il M5s è oggetto di un doppio flusso: in entrata dal Pd e in uscita verso la Lega (anche se questo secondo flusso è generalmente di entità minore).

È un movimento di voto presente in tutte le città analizzate, che spiega come mai il M5s si sia imposto prevalentemente al Sud. Al Nord i Cinque Stelle pagano la concorrenza con Lega. A Brescia ad esempio abbiamo un 4,9% di elettori passati dal Pd al M5s, che però ne perde altrettanti (4,7%) in favore della Lega. A Parma il M5s addirittura perde notevolmente da questo meccanismo di scambio: 1,7 dal Pd ma ben 5,5 verso la Lega. Meglio va nelle restanti città della «zona rossa» (Modena Bologna, Livorno, Firenze) con saldi sempre positivi per il M5s (i voti in entrata dal Pd sono sempre maggiori dei voti in uscita verso la Lega).

Al Sud la situazione cambia radicalmente: i voti in entrata dal Pd sono presenti al Sud, ma mancano i voti in uscita verso la Lega. Al Sud la concorrenza della Lega è pressoché inesistente e il panorama elettorale risulta meno competitivo per il M5s che qui può recitare la parte del partito «pigliatutti».

La svolta moderata dei pentastellati, con l’investitura di Di Maio, il passo “di lato” di Grillo e la scelta di una campagna elettorale dal tono più istituzionale ha premiato i 5 Stelle convincendo nuovi elettori provenienti dal centrosinistra (in particolare, come si è visto, dal Pd). D’altro canto la svolta moderata ha penalizzato il M5s in rapporto alla proposta più radicale e antiestablishment della Lega. Il cambio di rotta operato da Di Maio ha fatto perdere credibilità ai Cinque Stelle agli occhi del suo elettorato più radicale, più attratto al Nord dall’offerta politica di Salvini.

Questa ambiguità rende estremamente fluido lo scenario politico. Il successo eclatante alle elezioni non deve ingannare. Ora arriva un passaggio decisivo, potenzialmente critico, per il Movimento di Grillo. Il futuro dei Cinque Stelle dipenderà da come sapranno affrontare il passaggio da movimento di protesta a forza di governo. Al trionfo rischia di seguire un momento, se non di crisi, almeno di profonda incertezza.

Alcune considerazioni. La prima è che il Pd non può permettersi di farsi ancora superare a sinistra da un diretto concorrente come il M5s. Questo fatto rende imbarazzante, per non dire sconveniente, entrare in un’alleanza di governo dove finirebbe per giocare un ruolo più “moderato”. Così facendo il Pd consegnerebbe al suo diretto competitore una formidabile arma propagandistica che permetterebbe ai Cinque Stelle di giustificare ogni eventuale rallentamento dell’agenda di governo con l’ostruzionismo della “vecchia sinistra” a marcia più lenta. Il Pd rischia di esporsi a un autentico suicidio politico lasciando al M5s una carta per erodere ancora di più il suo elettorato. Allo stato attuale, come mostra un’altra interessante analisi del Centro Italiano Studi Elettorali (Luiss), il Partito Democratico è votato prevalentemente dalle élites. Tra Pd e M5s il vero partito della nazione, capace di pescare voti da tutti gli strati della società, è senz’altro il secondo.

In seconda battuta non bisogna dimenticare che il Pd è uscito da queste elezioni come il grande sconfitto. La pretesa di entrare comunque nella coalizione governativa affosserebbe ancora di più l’immagine del Pd presentandolo all’opinione pubblica come il partito delle poltrone, con l’effetto di alimentare ulteriormente gli umori anticasta su cui prospera il grillismo. Deve averlo capito bene Renzi che sin da subito ha premuto per lasciar esporre la Lega e i Cinque Stelle (dove i secondi hanno governato, vedi Roma e Torino, non hanno certo entusiasmato).

Senza contare che la condizione imprescindibile per un’intesa tra piddini e pentastellati, la derenzizzazione del Pd, appare praticamente impossibile alla Camera per una questione banalmente numerica: un governo Pd-M5s dovrebbe ottenere la fiducia di più del 9o per cento del gruppo democratico. Peccato però, come ricorda Maria Teresa Meli sul Corriere, che la metà almeno di quel gruppo sia composta da renziani.

La possibilità di un governo M5s-Pd non sembra per nulla certa. Anzi. Proprio ieri il Pd, tramite Andrea Orlando, ha escluso «la possibilità di un governo con i 5 Stelle, o con il centrodestra; il 90% del partito è contrario». Un dato confermato dal coro di no raccolto da un sondaggio del Corriere della Sera tra i 167 neoeletti del Partito Democratico.

Senza contare che l’apertura di credito di Scalfari, che su La7 aveva confidato a Giovanni Floris di vedere con favore una maggioranza M5s-Pd come embrione di una «nuova sinistra», è stata subito stroncata dalla presa di posizione negativa di intellettuali di spicco come Rossana Rossanda. «È una cosa schifosa», ha commentato Rossanda. «Ma come si può dire una cosa simile? Sono anni che i Cinquestelle dimostrano di essere inaffidabili». Su posizioni di netta contrarietà all’intesa coi pentastellati si attestano anche Carlo Freccero, Sandra Verusio, Emanuele Macaluso, Massimo Cacciari. Anche Repubblica, con l’editoriale di Mario Calabresi e l’intervista al sindaco di Milano Giuseppe Sala, parteggia per un Pd all’opposizione.

D’altro canto, si sa, gli appelli alla “responsabilità” come quello lanciato dal presidente Mattarella spesso fanno miracoli. Per non parlare dei suggerimenti della Bce che per bocca del presidente Mario Draghi ha ricordato quanto l’instabilità politica sia minacciosa per la fiducia dei mercati finanziari. Le parole di Mattarella e di Draghi hanno dato forza all’idea di appoggiare i 5s. Così, come per magia, il Pd potrebbe anche cambiare schema. Qualche segnale lo ha dato ieri il braccio destro di Renzi, Luca Lotti. «Se vogliamo essere seri», ha dichiarato al Corriere della Sera, «siamo pronti come sempre ad ascoltare Mattarella. Forse, anziché parlare del Pd, che ha perso e starà all’opposizione». Occorre vedere «che vogliono fare Salvini e Di Maio».

Va detto che un apparentamento col Pd appare problematico anche dal punto di vista dei Cinque Stelle. Legarsi a una forza politica divenuta ormai sinonimo di conservatorismo, elitarismo e spirito di casta rischia di intaccare l’aura di incorruttibilità su cui i grillini hanno tanto puntato. Come commenta con acume il politologo Piero Ignazi, «per ora, tra i pentastellati, prevale l’ebbrezza della vittoria, ma non durerà molto perché la loro purezza incontaminata di cui si sono tanto vantati sarà inevitabilmente sporcata dal “fare politica”» (Repubblica, 09/03/2018).

D’altro canto l’analisi dei flussi in uscita dei Cinque Stelle mostra che con la Lega le parti si invertono. L’elettorato pentastellato, come si è detto, appare attirato dal radicalismo leghista (così come i 5 Stelle appaiono più di sinistra del Pd) che, tra l’altro, non è più così disdegnato a sinistra (e questo spiega la cauta apertura a sinistra di Salvini in questi ultimi giorni). Questa competizione potrebbe anche portare a costruire un nuovo bipolarismo articolato sulla contrapposizione tra M5s e Lega.

Ma non è affatto escluso che i due movimenti trovino una quadra. Proprio l’attrazione della base dei Cinque Stelle per la Lega non fa escludere questa ipotesi. Giusto ieri La Stampa riportava la notizia di un sondaggio segreto commissionato dai vertici del M5s che avrebbe rivelato un elettorato più propenso ad accordarsi con la Lega di Salvini che col Pd, anche senza Renzi.

Riposizionamenti strategici, vecchi e nuovi equilibri che si giostrano sul filo del rasoio in uno scenario politico estremamente fluido. La natura intimamente relativista del M5s non esclude ogni genere di panorama politico. Come è stato evidenziato da diversi studi (ad esempio il libro curato da Piergiorgio Corbetta, “M5s. Come cambia il partito di Grillo”, Il Mulino, 2017) il populismo proprio del Movimento di Grillo è una ideologia “debole” senza una visione “forte” della politica e della società.

Il populismo in salsa pentastellata si nutre dell’insoddisfazione cronica per lo schema del “bipartitismo perfetto”, ossia per quel sistema politico che prevede l’alternanza tra una destra e una sinistra. Il M5s rifiuta l’asse ideologico sinistra-destra. Beppe Grillo lo ha ribadito più volte: «Il tempo delle ideologie è finito. Il Movimento 5 Stelle non è fascista, non è di destra, né di sinistra. È sopra e oltre» (www.beppegrillo.it, 11/01/2013); «Ma qui non è una questione di sinistra o di destra, ormai lo capirebbe anche un bambino di quarta elementare che tra due schieramenti non vi è differenza alcuna» (20/12/2007). E via dicendo.

La natura “liquida” del M5s si riflette nella capacità dei grillini di dire tutto e il contrario di tutto nel giro di pochissimo tempo. Pensiamo solo alle giravolte sull’Europa, a tutta la ridda di posizioni contraddittorie dei grillini capaci di mescolare il terzomondismo in chiave antioccidentale, la simpatia per i populismi latinoamericani e le aperture di credito a Putin, ma anche il neutralismo (né con la Russia né con gli Usa, né con i palestinesi né con gli israeliani). Insomma, la tanto vantata post-ideologicità dei grillini non sembra essere altro che la copertura per il più italico dei trasformismi, per giustificare ogni genere di oscillazione senza dover fornire troppe spiegazioni.

Tuttavia la spregiudicatezza con cui il M5s ha abituato a cambi di linea sortisce un effetto indesiderato: priva i cittadini di un quadro di riferimento chiaro, disorientandoli. Per questo l’ambiguità ideologica del Movimento 5 Stelle è un’arma a doppio taglio. Se da un lato permette di prendere molti voti (soprattutto alle elezioni) attirando persone dai più diversi orientamenti, dall’altro crea al proprio interno una disomogeneità ideologica e culturale sempre a rischio di strappi, conflitti, tensioni. E questo a ogni livello: semplici elettori, militanti della base, amministratori o parlamentari.

In altre parole: il trasformismo pentastellato, come permette di guadagnare molto consenso, rischia di farlo anche perdere molto velocemente. Soprattutto al Sud dove, come avverte il direttore dell’Istituto Cattaneo Piergiorgio Corbetta, l’elettorato rischia di voltare velocemente le spalle in mancanza di risultati. Leggi reddito di cittadinanza, sgravi fiscali, riduzione del 40 per cento del rapporto debito/Pil. Insomma, tutte le promesse elettorali dei grillini sono attese al varco.

Il qualunquismo pentastellato è mutamorfismo, è un Proteo che può assumere qualunque natura. L’astuzia del M5s sta nell’aver saputo intercettare la rabbia popolare verso una politica divenuta ostaggio di lobby e gruppi d’interesse che governano sulla testa dei cittadini, privandoli di ogni possibilità di partecipare alla vita pubblica, emarginando soprattutto i giovani. Donde il sentimento anticasta incanalato dal Movimento 5 Stelle in una via senza uscita e portato allo sfogo in un contenitore vuoto, riempibile con qualsivoglia contenuto. E che prevedibilmente non farà che alimentare ulteriormente il risentimento, la sensazione d’impotenza, la frustrazione sociale.

È un quadro confermato recentemente anche da Paolo Becchi, ex ideologo dei Cinque Stelle ora avvicinatosi alla Lega. Becchi, parlando delle ipotesi di governo, ha rammentato, lui, uomo a cavallo tra quei due mondi, come il carattere liquido, impolitico e a-ideologico dei 5S renda possibile un accordo a sinistra, in nome dell’europeismo, con un Pd derenzizzato. Ma allo stesso modo rende possibile anche un accordo a destra con la Lega in nome dell’antieuropeismo. Tutto e il contrario di tutto, con buona pace del terrorismo psicologico diffuso a piene mani da quei propagandisti cattodestri che in campagna elettorale hanno agitato ossessivamente lo spettro apocalittico di un fronte unico tra le sinistre (M5S e Pd).

Il M5s e la sua visione dal corto respiro sono attesi da prove decisive che ne determineranno il destino, nel bene e nel male. Ma è un rebus anche il futuro dei due grandi vinti di queste elezioni. Non solo il Pd di Renzi ma anche, forse soprattutto, Berlusconi con la sua Forza Italia. Una esperienza politica la sua che, se non altro per motivi anagrafici, sembra ormai essere davvero arrivata al capolinea.

Gli scenari politici sono dunque aperti a molteplici sviluppi. E tra questi non sono affatto esclusi, anzi, dei deficit di rappresentanza politica che andranno colmati. Perciò non bisogna disperare. Se giocherà le sue carte con pazienza e umiltà, con coraggio e intelligenza il PdF riuscirà a intercettare quella porzione di società civile più ferita dalla dittatura del relativismo.

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12/03/2018
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