{if 0 != 1 AND 0 != 7 AND 0 != 8 AND 'n' == 'n'} Ripensando alla vicenda del senza tetto che non desiderava ospitalità

Storie

di Emiliano Fumaneri

Ripensando alla vicenda del senza tetto che non desiderava ospitalità

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Ha colpito molti – in negativo – il gesto di Paolo Polidori, il vicesindaco leghista di Trieste che ha pensato bene di immortalare sui social la sua azione di “sgombero” del bivacco di un clochard rumeno più volte oggetto, negli ultimi mesi, delle attenzioni della polizia locale, che premeva affinché accettasse l’ospitalità in una struttura protetta. Vista la scarsa collaborazione del senzatetto, Polidori non ci ha pensato due volte e ha gettato i suoi pochi averi in un cassonetto dell’immondizia accreditandosi poi, in una rappresentazione plastica della cultura dello scarto, quale tutore del pubblico decoro.

Su Facebook ha rivendicato infatti l’azione “purificatrice” con queste parole: «Sono passato in via Carducci, ho visto un ammasso di stracci buttati a terra, coperte, giacche, un piumino e altro. Non c’era nessuno, quindi presumo fossero abbandonati. Così, da normale cittadino che ha a cuore il decoro della sua città, li ho raccolti e li ho buttati, devo dire con soddisfazione, nel cassonetto: ora il posto è decente. Il segnale è: tolleranza zero. Trieste la voglio pulita! E adesso si scatenino i benpensanti, non me ne frega nulla».

Un programma davvero edificante, non c’è che dire: tolleranza zero contro i barboni che insudiciano i luoghi pubblici, crociata per la pubblica decenza, il tutto unito alla ormai rituale professione di menefreghismo che ricorda pagine – e inni – non proprio edificanti della storia italiana. Come se non bastasse, ai microfoni della Zanzara il secondo cittadino di Trieste ha insistito sulla natura “volontaria” della scelta del barbone con tanto di allusioni a “voci” secondo le quali il senzatetto rumeno sarebbe un fannullone che trova più conveniente mendicare anziché lavorare onestamente. Insomma, il vecchio stereotipo del mendicante ricco. Come se per strada non ci fossero disadattati con traumi e ferite interiori molto profonde, ma “astuti” truffatori che si arricchiscono alle spalle della collettività solo per vivere in una condizione subumana di degrado e sporcizia. Il clochard come potenziale nemico pubblico, parassita della società, un truffatore che lucra sulla sua condizione per arricchirsi.

Il cinismo del vicesindaco leghista, inutile dirlo, ha fatto scoppiare una aspra polemica, che continua ancora.

Personalmente, da quando ho appreso di questo fatto non mi riesce di non pensare a Fratel Ettore Boschini, l’angelo dei clochard, il religioso morto nel 2004 dopo una intera esistenza dedicata al riscatto degli ultimi e degli emarginati, che raccoglieva mentre girava strade, piazze e stazioni di Milano.

La sua vita è raccontata da un testimone d’eccezione che alla pari di Polidori può vantare una esperienza come amministratore della cosa pubblica. È Francesco Rocca, sindaco di Seveso negli anni terribili della diossina. Proprio in quel periodo incontrerà Fratel Ettore, divenendone amico e collaboratore, come racconta nel suo libro “Fratel Ettore. Il prediletto di Maria” (Fede & Cultura, 2010).

Fratel Ettore era alieno al nefasto dualismo tra cattolici del “sociale” e della “morale”. Si prodigava allo stesso modo, con parole e opere, contro la piaga dell’aborto ma anche in favore dell’umanità derelitta che raccattava agli angoli delle strade. Tanto meno separava la cura delle anime e quella dei corpi: portava i barboni a confessarsi al duomo di Milano, li faceva pregare recitando assieme a loro interminabili rosari, disseminava di cappelle e santissimi sacramenti le case dove li accoglieva per dare loro un rifugio, un pasto e le cure necessarie, oltre a tutto l’amore che poteva.

Non passava certo inosservato quel religioso dal temperamento un po’ anarchico e dai modi bizzarri, con quella sua indimenticabile auto bianca piena di vistose immagini religiose, prima fra tutte una statua della Madonna di Fatima – alla quale era profondamente devoto - alta più di un metro, che troneggiava sul tetto dell’utilitaria. Senza contare la grande croce rossa in bella vista sul petto a stagliarsi, come un marchio di fuoco incandescente, sulla sua lunga tonaca nera da camilliano.

Era una scelta precisa: Fratel Ettore teneva particolarmente alla comunicazione visiva. Voleva che la miseria fosse visibile agli occhi di tutti i benestanti, i benpensanti, la gente “perbene”. Perciò non nascose mai i poveri, portandoli con sé ovunque andasse. Mostrava se stesso povero che amava a aiutava i miserabili, i poveri più poveri di lui. Allo stesso modo volle che le pareti della chiesetta di Casa Betania, la comunità di accoglienza che costruì a Seveso, fossero costituite da grandi vetrate, così da rendere visibile a tutti il corpo di Cristo, la messa, il crocifisso.

Da figlio fedele di San Camillo, Fratel Ettore voleva dare visibilità a un amore incarnato e appassionato per il prossimo indifeso: il forestiero, l’orfano, la vedova, l’indigente, l’inerme. Scandalo e follia nella società del benessere consumistico dove i modelli erano – e sono ancora oggi - quelli della salute, della ricchezza, del successo, dell’efficienza.

Fratel Ettore non indulgeva certo in romanticismi di sorta. Non angelicava la miseria e ancor meno i miserabili. Grande mistico e al tempo stesso uomo estremamente pratico, come solo i santi sanno essere, non si faceva illusioni. Sapeva che «chi accoglie i poveri accoglie Dio», come confessò una volta a Mario Palmaro. Ma sapeva anche che pure i poveri sono peccatori come tutti gli altri.

Per questo non disdegnava di esprimere verità scomode, controcorrente, scandalose per una certa mentalità politicamente corretta. Era convinto ad esempio - e non temeva di dichiararlo apertamente - che non andasse sempre incolpata la “società” per la condizione miserevole dei clochard, perché talora, egli vedeva, erano alcuni di questi diseredati ad essersi “autoemarginati” a causa dei loro peccati incancrenitisi in vizi e dipendenze (alcolismo e tossicodipendenza in primis). E Sorella Teresa, la discepola prediletta che ne continua l’opera, racconta dei metodi a volte ruvidi, di certo poco ortodossi, con cui il camilliano sapeva strappare i derelitti dalle strade. I santi talvolta sanno essere duri. Ma è una durezza solo esteriore imposta dalla carità che anima il loro cuore. Come scrive Gustave Thibon, «quando vediamo l’essere amato sul punto di annegare, non esitiamo a conficcargli le unghie nella carne pur di strapparlo ai gorghi!». Ma proprio per questo la durezza del santo, mossa dall’amore, non umilia né ferisce la persona.

Attenzione: Fratel Ettore tutto era fuorché un “buonista”. Nel 1993 stabilì, come regola per tutti i rifugi, di non accogliere i clandestini o persone comunque sprovviste di documenti. Questo non tanto per il timore della legge quanto per prudenza, in maniera da garantire una assistenza ordinata a chi ne aveva realmente bisogno, a dimostrazione che la carità materiale non contrasta col senso della legalità. Chi voleva essere accolto doveva come minimo possedere un documento identificativo. Così la vita dei rifugi di Fratel Ettore non fu mai sconvolta da fatti al limite del penale.

A Fratel Ettore però importava ben più che il pubblico decoro. Cercava di salvare quegli uomini dal fango in cui erano precipitati senza mai dimenticare la sua missione di religioso: far sollevare gli sguardi verso il cielo. Assieme al pane terreno non si stancava di proporre loro il Pane celeste. Le strutture di accoglienza che aveva fondato per lui non erano altro che questo: fabbriche di santi, cantieri della santità.

Così il camilliano diede corpo al paradosso della povertà: seguire Cristo povero e al tempo stesso soccorrere Cristo povero. La povertà come scelta di vita e allo stesso tempo come avversario da combattere, come via obbligata per la salvezza e la santificazione del cristiano.

Fu davvero, la sua, una scelta rivoluzionaria. Come sanno bene gli storici, il disprezzo della povertà è uno dei segni più oscuri della modernità. È nella Francia del grand siècle, in una società all’apogeo della propria potenza politica e economica, che prende forma il progetto della “grande reclusione” dei poveri che ben presto verrà condiviso da tutti gli stati del tempo.

Il mutamento culturale sarà enorme. La povertà non verrà più concepita come una ingiustizia subita a causa dell’egoismo sociale o come una virtù quando è liberamente scelta. La povertà diventa una vergogna, un crimine e un peccato. Per la nuova mentalità il povero è tre volte colpevole: criminale e peccatore, egli è anche un fallito abbandonato da Dio e dagli uomini. Portatore di un contagio sociale, secondo la nuova mentalità il povero è un untore da isolare per evitare la corruzione dell’intera società. La sua presenza pestifera non può più essere tollerata agli angoli delle strade. La povertà è vergognosa e non deve vedersi. Va eclissata.

Invano si leveranno voci come quella del grande vescovo Bossuet in difesa dell’eminente dignità del povero e vite come quella di Benedetto Giuseppe Labre, il “vagabondo di Dio”, il santo patrono dei barboni che visse come un eremita nella Roma papalina. Sempre più ci si ostinerà a combattere la povertà non col contrasto alle sue cause economiche e sociali, ma con la grande reclusione dei poveri in strutture punitive dall’aspetto più penitenziario che assistenziale. Come se facendo scomparire i poveri dalla scena pubblica fosse stata eliminata anche la povertà…

Sbaglia chi pensa a un fenomeno lontano nel tempo, ormai sorpassato. Il reato di accattonaggio (previsto dall’articolo 670 del codice penale) è stato abrogato solo nel 1999 sulla scia di una coraggiosa sentenza della corte costituzionale. E non sono pochi quelli che vorrebbero ripristinare la vecchia norma.

Che abisso tra morale dei benpensanti (quelli veri), tutta preoccupata di conservare la pulizia esteriore, e la morale della carità dei santi, vigorosa ma piena di attenzioni e delicatezze, che si preoccupa prima di tutto di non umiliare la persona concreta…

Qualcuno forse dirà che il vicesindaco di Trieste fa un mestiere diverso e non necessariamente può o deve essere un gigante della carità come Fratel Ettore. Obiezione scontata che però è debole nel suo tentativo di giustificare un partito che sventola vangeli e rosari ogni tre per due, si dichiara “protettore” dei “valori cristiani” e arriva addirittura ad invocare la protezione della Madre di Dio sulla “reazione identitaria”. Un partito che però alla prova dei fatti fa mostra di un tronfio disprezzo per i “minores” della società (i poveri, i deboli, i disadattati, i bisognosi, gli emarginati, ossia i prediletti dalla carità evangelica) additati quali facili capri espiatori utili ad alimentare il malumore collettivo su cui vigoreggia il salvinismo. È il nuovo politicamente corretto, che esalta la durezza di cuore come “virtù” di un’Italia imbruttita, che “se ne frega” e non guarda in faccia a nessuno.

A chi si entusiasma - magari in nome del solito male minore - per la propaganda leghista faccio osservare che un uso puramente decorativo dei simboli religiosi esalta le forme esteriori della fede cristiana almeno quanto ne tradisce lo spirito. Sono i tratti di sempre di quella che Bernanos bollava come la «peste del Farisaismo», una «peste mille volte più spaventosa, se giudichiamo dalle maledizioni del Vangelo, dell’incredulità in buona fede». Pensieri da meditare quelli del grande romanziere, soprattutto se pensiamo alle polemiche sciocchine scoppiate dopo le parole del Papa sull’aridità di cuore di tanti devoti.

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11/01/2019
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