{if 0 != 1 AND 0 != 7 AND 0 != 8 AND 'n' == 'n'} Aborto no-limits: la ricetta newyorkese fa discutere

Società

di Gabriele Marconi

Aborto no-limits: la ricetta newyorkese fa discutere

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La notizia dell’adozione del Reproductive Health Act nella legislazione dello stato di New York come estensione dell’accesso all’aborto in Italia ha scatenato una vera e propria corsa al debunking o fact-checking, l’attività para-informativa di lotta e confutazione della disinformazione, lo smantellamento delle nostrane bufale, o delle più internazionali fake-news. I guru dell’antibufala si sono prontamente profusi nelle loro peculiari esibizioni di approssimazione, ma nell’epoca in cui la missione del giornalismo è diventata rincorrere la tendenza all’estemporaneo del social-web, alla fanfara si è unito anche il nuovo quotidiano online di Enrico Mentana, Open, dalla firma di Charlotte Matteini. La notizia aveva infatti catturato l’attenzione della nuova testata del maratoneta di La7 per la condivisione della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni del resoconto di Ermes Dovico su La Nuova Bussola Quotidiana e nel mirino era finito anche il contributo di Annalisa Teggi su Aleteia [sic! Matteini e revisori sembrano digiuni di greco, vista l’incapacità di scriverlo correttamente] e uno di Elena Molinari per Avvenire. L’articolo su Open, rilanciato dal direttore Mentana, ha ricevuto corpose contestazioni a mezzo social (tra cui una sopra le righe del sottoscritto) in cui venivano evidenziati i grossolani errori di omissione e mistificazione dell’autrice, nonché l’assurdità di un titolo che smentiva ciò che nel testo veniva confermato, ovvero la possibilità effettiva di accedere a procedure abortive fino al 9° mese di gravidanza, la più lampante delle molte assurdità. Si auspicava il buonsenso necessario alla pubblicazione di una rettifica, ma una replica della stessa Matteini, nuovamente rilanciata direttamente dal direttore nella mattina di domenica, perseverava nello spiegare una serie di inesattezze madornali, condivise dalla galassia di blog e riviste virtuali di debunkers (la Matteini in particolare si rifà ad una testata ben nota in questa pseudo-disciplina, Snopes), che nel loro insieme definirebbero una legge sostanzialmente se non formalmente analoga a quella italiana che regolamenta l’accesso all’aborto, la 194/1978.

Il problema principale di fronte a certi azzardi è l’assenza di cognizione alcuna sia dell’impianto giuridico del common law angloamericano in generale e statunitense in particolare, sia della realtà clinica ginecologica che il RHA va a normare. In questi goffi tentativi si parte per categorie precostituite, quelle relative alla propria comprensione della legge 194/1978 (anch’essa in realtà malintesa) mettendo in scena la più classica petizione di principio: la tesi secondo cui la legge newyorkese sarebbe sovrapponibile alla legge italiana era già contenuta nell’ipotesi comparativa iniziale e non poteva che viziarne il debole tracciato argomentativo. La realtà è che la divaricazione non potrebbe essere più pronunciata.

Cominciamo col vedere cosa introduce il testo di legge. Così recita il RHA approvato nel primo paragrafo relativo all’aborto.

«§ 2599-bb. Abortion. 1. Un operatore sanitario certificato o autorizzato per effetto del titolo 8vo della legge sull’istruzione, agente nell’ambito del proprio esercizio professionale, può praticare un aborto quando, in accordo al proprio giudizio professionale in ragionevole e buona fede basato sulla realtà del caso della paziente, la paziente si trova entro le 24 settimane di gravidanza, o c’è un’assenza di fetal viability, oppure l’aborto è necessario per proteggere la vita o la salute della paziente».

Considerate le condizioni di accesso alle procedure abortive

a. la gravidanza non ha superato le 24 settimane,

b. assenza di fetal viability,

c. necessità di preservare la vita o la salute della gestante,

a) va fatto notare anzitutto che entro le 24 settimane non si richiede nessun’altra condizione, né qui né nel prosieguo del testo. La condizione era identica e pressoché esaustiva prima dell’emendamento apportato dall’approvazione del RHA,

b) Passando alla seconda condizione, il primo enorme errore a far intendere come la comprensione del testo sia sfuggita sta nella traduzione arbitraria di “fetal viability” in “vitalità fetale”. Diversi interventi (compreso quello della Matteini) paiono indicare che s’immagina la viability come la presenza di segni vitali del feto nella vita intrauterina mentre, ovviamente, un feto che non desse segni vitali all’esame ginecologico approfondito non abbisognerebbe di un aborto, essendo già stato abortito spontaneamente. Viability (al contrario della viabilità gestazionale) è un concetto giuridico, in sé stesso estraneo alla medicina prenatale, perinatale e neonatale, affermato nella giurisprudenza federale dalla sentenza Roe v. Wade (di cui si discute compiutamente più avanti) ed indica i termini temporali e le condizioni della capacità di sopravvivenza “autonoma” del feto fuori dall’utero o, in senso meno estensivo, il momento in cui le chance di sopravvivenza fuori dall’utero superano il 50%. Anche la traduzione in “sopravvivenza autonoma” è poco utile alla comprensione del concetto, in quanto la viability (all’epoca della sentenza indicata alle 28 settimane) si misura progressivamente secondo lo stato di avanzamento delle cure che si possono offrire ai nati prematuri: non indica cioè la capacità di sopravvivere da soli. Oggi la Terapia Intensiva Prenatale permette di salvare più di un bambino ogni due nati alla 24esima settimana ed almeno 2 su 5 alla 23esima, perciò la “assenza di fetal viability” come disgiunta dal limite delle 24 settimane sembrerebbe una fattispecie già ampiamente superata. Dunque perché inserirla? L’evoluzione della giurisprudenza federale e di singoli stati ha purtroppo spesso esteso il concetto non solo nei termini di sopravvivenza temporale, ma anche tollerando nella pratica sanitaria l’omissione di rianimazione in condizioni “incompatibili con la vita”, ovvero quelle patologie che, pur arrivando al parto, nascono con terminalità imminente o precoce, come le trisomie 13 o 18, l’anencefalia. Ci torneremo più avanti.

c) L’ultima condizione è la vera svolta dell’impianto normativo abortivo che il RHA introduce. L’impegno profuso dai fact-checkers nel nascondere o nel ricondurre il termine “salute” (“health”) alla “vita” (“life”) della gestante non è passato in secondo piano: il testo le disgiunge chiaramente “vita o salute” (“life or health”), indicando una netta distinzione. Il diritto nello Stato di New York già prevedeva la possibilità di un aborto oltre le 24 settimane nel caso di documentati rischi per la vita della gestante. È perciò evidente che una simile modifica non possa essere un pro-forma. Per capire in che termini si declini il cambiamento è necessario entrare nell’ordine delle idee che nel regime di common law degli Stati Uniti (stare decisis) la legge non è la sola fonte per lo sviluppo del diritto, ma le sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti e delle corti statali, ognuna nella propria competenza e secondo la gerarchia giudiziaria, possono aggiornare l’impianto normativo.

È giustamente stato ricordato in questi giorni che la legge di New York sull’accesso all’aborto (1970) ha preceduto la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti Roe v. Wade (1973) che afferma il “diritto all’aborto” come aspetto del “diritto alla privacy personale” secondo l’interpretazione del 14esimo Emendamento, consentendo così ai singoli stati la legiferazione sull’aborto nel senso di depenalizzazione. Nella Roe v. Wade esiste il riferimento alla “vita o salute” (“life or health”) materna rifacendosi al precedente Abortion Act del 1967, ovvero come “salute fisica e mentale”, a sua volta ricezione della definizione dell’OMS del 1948 secondo cui la salute è “non la semplice assenza di malattia, ma uno stato complessivo di benessere fisico, psichico e sociale”. Dunque il par.1 del RHA effettivamente si allinea alla Roe v. Wade. Ciò che si è dimenticato di ricordare è che nell’allineamento, il RHA non si limita ad esaurirsi testualmente nel contenuto di questa prima sentenza, bensì riferisce alla sua sentenza gemella, elaborata e pronunciata nello stesso giorno dagli stessi giudici: la ben meno nota Doe v. Bolton, che è definitoria di cosa significhi “salute” (“health”).

«Il giudizio medico [sul fatto che l’aborto sia necessario] può essere eseguito alla luce di tutti i fattori – fisici, emotivi, psicologici, familiari e l’età della donna – rilevanti per il benessere del paziente. Tutti questi fattori possono essere connessi alla saluti. Ciò permette al medico curante lo spazio di cui ha bisogno per realizzare il suo miglior giudizio medico. E c’è spazio per agire per il beneficio, non in sfavore della gestante».

La Doe v. Bolton fornisce la disgiunzione di cui la Roe v. Wade aveva bisogno perché la “salute” in questione non sia in vista di concreti e seri rischi per la vita della gestante, ma amplia la definizione ad un generico stato di benessere al cui conseguimento concorrono fattori di vario genere. Non solo le dimensioni di salute della persona verso le quali si possono effettuare analisi e offrire cure codificate in sede clinica, la dimensione fisiologica o psicologica. Le maglie sono allargate al punto da includere situazioni aleatorie e provvisorie come un disagio emotivo, oppure l’opportunità di avere un figlio in un dato momento della propria vita o di aumentare il nucleo familiare.

Come ha giustamente ricordato la Conferenza Episcopale degli Stati Uniti nel 2013, 40esimo anniversario di entrambe le sentenze, è stato il combinato dei due verdetti ad aprire ad una regolamentazione così variegata nei diversi stati, in una decina dei quali oggi non esiste restrizione di tempi o di motivazione alla pratica abortiva, né possibilità di intervenire in sede legislativa con le evidenze scientifiche che smantellano la narrazione dell’aborto a finalità preservative (con buona pace della Matteini, “aborto terapeutico” è un altro concetto sconosciuto alla medicina d’Oltreoceano, dove la dizione è usata non per aborti medi o tardivi, ma al massimo e raramente per quelli precoci). A questa minoranza di stati si è unito New York, superando il solo limite imposto dalle due sentenze, ovvero che alla valutazione fosse deputato un medico laureato. Il Reproductive Health Act supera anche questa condizione, affidando la valutazione “medica” ad un qualsiasi operatore sanitario certificato o autorizzato. È innegabile che l’inserimento della dizione “vita o salute” abbia come scopo l’estensione dell’accesso all’aborto per qualunque motivo e per in qualsiasi momento della gravidanza, fino all’ultimo trimestre, fino al nono mese, fino all’ultimo giorno (ciò è quanto sono costretti ad ammettere, pur con mille riserve contraddittorie, anche i redattori di Snopes),

Le due sentenze a fondamento della normazione dell’aborto definiscono un accesso così incondizionato, difatti insindacabile, a mera discrezione della gestante (o dell’operatore che non tenta di dissuadere, o che addirittura persuade la gestante), che una volta recepite integralmente è del tutto impossibile contrastarne l’applicazione. Le due sentenze del gennaio 1973 hanno ridefinito l’interpretazione di un diritto costituzionale, dunque nessun organo legislativo o giudiziario può limitarne gli effetti, meno la stessa Corte Suprema. Quarant’anni di storia giudiziaria americana hanno messo in chiaro che anche i provvedimenti presidenziali possono arginare solo relativamente e temporaneamente il processo. Solo rovesciandole con una nuova decisione della Corte Suprema si può invertire la rotta. Ed è precisamente per questo motivo che il governatore Andrew Cuomo ha dato il via libera al Congresso di New York, Senato e Assemblea, per recepire nell’anniversario della Roe v. Wade e della Doe v. Bolton un atto legislativo che era stato respinto diverse volte negli ultimi 5 anni, nel senso più estensivo possibile. Come gesto di opposizione politica all’amministrazione Trump, che ha ribaltato la maggioranza della Corte Suprema verso istanze giusnaturalistiche 5 a 4 e con la possibilità di andare sul 6 a 3 nel prossimo mandato, perciò orientandola alla destituzione delle due sentenze e di quante altre le han prese a precedenti. Un gesto di opposizione sulla pelle dei bambini non-nati in faccia alla Marcia per la Vita svoltasi due giorni prima. Ma c’è di più.

Si può parlare in assoluto di “aborto necessario” se eseguito nell’ultimo trimestre?

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29/01/2019
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