Storie
di Lucia Scozzoli
Sana Chema ed i tanti come lei
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Sana Cheema aveva 25 anni. Era nata in Pakistan ma era cresciuta in provincia di Brescia, tra i paesaggi di Verolanuova nella bassa pianura e la città capoluogo, dove alloggiava nel quartiere Fiumicello. Qui aveva studiato, lavorava (gestiva un’agenzia di pratiche automobilistiche soprattutto per connazionali), aveva una relazione con un ragazzo. Da settembre scorso, aveva la cittadinanza italiana e una vita davanti da trascorrere nella sua nuova patria che amava.
Invece è morta nel distretto di Gujarat, non distante dal confine con l’India, sgozzata dal padre Mustafa e dal fratello, perché Sana si era rifiutata di sposare un connazionale scelto dalla famiglia. Il viaggio, organizzato a febbraio, per andare a trovare i parenti pakistani, era una trappola per stroncare ogni sua velleità di costruirsi da sola la propria vita. Gli amici bresciani poi avevano scoperto ad aprile il video del funerale di Sana, in rete, e avevano dato l’allarme. La versione ufficiale in un primo momento parlava di malore in casa, ma le indagini avviate dal clamore partito dall’Italia misero subito in luce la vera causa della morte: strangolamento.
Il referto dell’autopsia del Punjab forensic laboratory è chiaro «Osso ioide (tra laringe e mandibola, ndr) fuori asse». Rotto, dunque. Niente infarto. Il padre Mustafa Ghulam, messo alle strette, aveva pure confessato: «Ho perso la testa, ho fatto tutto io. Abbiamo litigato. Lei mi ha insultato. Gli altri non c’entrano», aveva dichiarato, provando a scagionare i parenti in stato di fermo dal 24 aprile. Coinvolti il fratello Adnan e lo zio Mazhar Cheema, come coautori materiali del delitto, un cugino, per il ruolo da autista per il cadavere, sepolto dopo 12 ore dal delitto nel cimitero di Kot Fath, lontano dalla città di residenza. E un medico, autore di un certificato di morte falso.
Ora sono tutti liberi, tutti scagionati.
Dopo tre mesi di processo, ieri il giudice Amir Mukhtar Gondal, del tribunale di Gujrat, nel Punjab, ha ordinato il rilascio degli imputati per mancanza di prove. Gli indagati avevano prontamente ritrattato le ammissioni di responsabilità fatte all’atto dell’arresto. Si sarà strangolata da sola, evidentemente.
Ora non è che la notizia generi nell’opinione pubblica pakistana ed italiana un grande scalpore: di come funziona la giustizia laggiù ci siamo già fatti una vaga idea seguendo la travagliatissima vicenda di Asia Bibi, di cui, per altro, non si sa più nulla da settimane.
Però questo caso è diverso e, in un certo senso, più emblematico: infatti Sana non è stata perseguitata per le sue convinzioni religiose, come è avvenuto per Asia Bibi, ma per il banale desiderio di una libertà minimale, scontata, come il diritto a scegliere con chi sposarsi. Mentre i delitti su base religiosa da noi sembra non provochino grande sdegno, forse per l’incomprensibilità ormai manifesta delle motivazioni di fondo che ne guidano le dinamiche, sia nelle vittime che nei carnefici, siamo invece assai sensibili ai delitti passionali. Il diritto a inseguire il sentimento è ormai dato per assodato.
Dio è morto nel cuore dell’uomo, ma l’amore no. Vanno bene tutte le schiavitù moderne (al lavoro, alla droga, al sesso, al denaro, al successo), ogni perdita di libertà, per quanto misera, ha una sua contropartita che la giustifica, nella filosofia egoista della nostra società, fatta di individui sempre più soli che si fanno solo i fatti propri. Eccetto questa: non possiamo accettare l’idea di non amare chi vogliamo. Anche quando è partner di qualcun altro, anche quando non ci vuole, anche quando non si può pretendere una relazione esclusiva.
Sana era italiana soprattutto in questo: non avrebbe rinunciato alla libertà di amare chi voleva.
Salvini ha subito mostrato interesse per la vicenda di Sana, come testimoniato dal tweet: «Che vergogna!!! Se questa è “giustizia islamica”, c’è da aver paura. Una preghiera per Sana», anche se come presupposto per un’azione diplomatica, volta a fare giustizia sul delitto di una ragazza a tutti gli effetti italiana, non pare un granché. Dubito assai che i tribunali pakistani gradiscano le invettive di Salvini contro la giustizia islamica, tout court.
Probabilmente, però, la giustizia non interessa nemmeno a Salvini: è solo l’ennesimo pretesto per cavalcare un generico malumore contro gli stranieri, contro le culture estranee, contro gli islamici. La fede, nella sentenza pakistana, infatti, non è proprio a tema: il tribunale non ha assolto gli imputati riconoscendo loro il diritto di uccidere la giovane riottosa a seguire tradizioni culturali (non religiose) della famiglia, ma per mancanza di elementi probanti, segno che il retrogrado Pakistan non ha comunque la libertà di affermare a norma di legge il diritto d’onore, ma solo la possibilità di camuffare gli elementi, invalidare prove, alzare un po’ di fumo per far sgattaiolare dal retro i colpevoli che stanno troppo simpatici per essere condannati.
Asia, ricordo, è stata pienamente assolta da ogni accusa, non fatta fuggire di nascosto. C’è una bella differenza. La vigliaccheria di affermare un principio in teoria e disattenderlo nei fatti è stata usata per giudicare l’omicidio di una giovane ragazza musulmana e rifiutata per la scomoda cristiana, segno che gli occhi puntati addosso della comunità internazionale e le pressioni, silenziose ma perentorie, del mondo cristiano, hanno ottenuto una giustizia che il mondo musulmano non è ancora capace di pretendere, nonostante la situazione estremamente sfavorevole per i cristiani in Pakistan.
Non credo che la giustizia per Sana passi dalla nostra indignazione, figlia, tra l’altro, dell’idea che nella dicotomia mondo occidentale fantastico e libero – orribile Pakistan retrogrado e islamico Sana avesse scelto l’opzione uno: la giovane, infatti, viveva pienamente inserita nella comunità d’origine, lavorando proprio come punto di connessione tra italiani e pakistani, abile nel gestire le pratiche burocratiche e nell’insegnare ai suoi connazionali a districarsi qua da noi. Non aveva affatto rifiutato la sua cultura e le sue origini, era anche italiana, ma non solo.
Ora il problema è del Pakistan, ma anche nostro: una famiglia di assassini si aggira per le loro strade, assolti dall’opinione pubblica prima che dal tribunale. Una cultura che uccide (anche materialmente) i propri figli è destinata a perdere. Noi siamo soliti uccidere i nostri figli quando sono più piccoli, per questo siamo più “civili”.