Società
di Rachele Sagramoso
News sulla Violenza Ostetrica: parla la Relatrice Speciale delle Nazioni Unite (parte prima)
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Il 29 novembre scorso, «L’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica Italia, insieme alle associazioni La Goccia Magica e CiaoLapo, hanno presentato la traduzione in italiano del Rapporto della Relatrice Speciale delle Nazioni Unite Dubravka Šimonović sul tema del maltrattamento e della violenza ostetrica contro le donne nei servizi di salute riproduttiva e nel parto». Inizia così l’articolo della Redazione della AssocareNews, articolo denso di molti contenuti che andremo a disaminare tentando di farlo diventare più chiaro e commentandolo. ‘Violenza Ostetrica’ - i miei pazienti lettori assidui lo sanno - non è che l’insieme di azioni che vengono svolte sul corpo della donna durante l’assistenza ospedaliera: che la violenza sia sulla madre e, di conseguenza, sul bambino, o che sia la violenza solo sulla donna che si trova in degenza per qualsiasi intervento o cura ginecologica, è secondario. La ‘Violenza Ostetrica’ si attua in qualsiasi circostanza e in qualsiasi modo, sia in modo ‘fisico’ (azioni), sia in modo ‘psicologico’ (comunicazione); oppure mettendo in atto gesti che potrebbero essere tranquillamente eseguiti con il dovuto tatto, sia deliberatamente non mettendo in opera comportamenti che potrebbero migliorare l’assistenza percepita dal paziente.
Dubravka Šimonović scrive: “Nel mio rapporto affronto le cause all’origine del maltrattamento e della violenza in cui le donne diventano vittime dei sistemi sanitari scadenti, provati dalla mancanza di tempo e di risorse, come dalle condizioni di lavoro del personale sanitario”. Cosa c’è ai primordi dei maltrattamenti verso le donne? Le donne rivestono solo il ruolo di vittime?
Il motivo principale presupposto dei maltrattamenti è la diseducazione dilagante generale. Se ognuno di noi si recasse in diversi reparti di diversi nosocomi pubblici - e anche privati - di modo tale da poter osservare, come potrebbe fare una mosca, il trattamento che viene riservato a ogni singolo paziente durante le ore del giorno e della notte e in diverse circostanze, non rimarrebbe stupito nel constatare che in ogni turno, composto da diversi operatori sanitari (medici, infermieri, ostetriche, ausiliari) vi è chi possiede tatto - e quindi comunica in una certa maniera sia coi colleghi e i sottoposti, sia coi pazienti - e chi pare proprio mostri una condotta sbagliata - con colleghi, sottoposti e/o pazienti -. Basta sostare in una qualsiasi sala d’aspetto di qualsiasi ambulatorio ospedaliero, per compiere la seguente valutazione: sono molti gli operatori sanitari che se dovessero guadagnare mensilmente a seconda del trattamento che riservano ai pazienti, non porterebbero a casa un soldo. In sostanza, per dirla sinteticamente: la condotta della professione assistenziale - sia essa quella del medico, sia essa quella dell’ausiliare, altrimenti chiamato ‘barelliere’ - dipende esclusivamente dalla personale capacità che il singolo possiede nel trattare/comunicare con il prossimo - che spesso è in situazione di disagio più o meno grave -. È solo di recente (forse nell’ultimo quinquennio) che, a macchia di leopardo e stimolati da tutta quell’enorme macchina nebulosa delle cause Medico-Legali, ci si sta muovendo per insegnare a tutti gli operatori sanitari delle strategie comunicative che possano rimuovere gli ostacoli che potrebbero essere spesso la causa di grosse problematiche anche Medico Legali. Facciamo un esempio nell’ambito ostetrico: ci sono diverse situazioni mediche durante le quali si manifesta di agire con molta urgenza per salvare la vita della donna e del bambino: se l’operatore sanitario presente - che fa parte sempre di un team - dedica 17 secondi (contati in diverse circostanze dalla sottoscritta) a spiegare con calma e chiarezza cosa sta accadendo alla donna che in quel momento è terrorizzata, non sta perdendo tempo, ma lo sta guadagnando per la donna stessa che è spaventata ma collaborativa; per sé che rimane essere un punto di riferimento per la paziente che gli sarà sempre grata; per tutto il team che riceverà comunque appagamento morale dal fatto di essere riusciti a gestire bene una situazione molto critica; per l’ospedale che magari riceverà un encomio per aver salvato due vite. Se, al contrario, la donna - che già magari ha 20 ore di travaglio sulle spalle (e le donne che mi leggono sanno bene di cosa parlo) - spaventata dal fatto di morire o di perdere il proprio unico figlio, si vede sballottata senza garbo né cortesia in una sala operatoria freddissima con gente che strepita, infila tubi, aghi, che le intima di stare calma, che la minaccia dicendo che se non si calma suo figlio muore, subìsce un taglio cesareo e sta senza vedere suo figlio le 24 ore successive (accaduto alla sottoscritta, per cui non lontano dalla realtà), ecco, vi è la possibilità che poi - se l’intervento mostra esiti post-operatori complessi o anche solo intoppi - la donna e la sua famiglia possano mostrare livelli di disappunto più o meno legali, i sanitari coinvolti abbiano di fronte a loro stessi ore di commissioni d’indagine, l’ospedale si trovi sbattuto in prima pagina e via via. Quindi chiariamo subito il primo punto: all’origine dei maltrattamenti verso le donne, vi è una dilagante e totale mancanza di formazione completa di ambiti comunicativi o, purtroppo talvolta anche solo di buone maniere ‘da scuola materna’ (“grazie”, “per favore”, “cortesemente”, “buongiorno”, “mi chiamo infermiera Rossi e le praticherò una puntura”, “sono il dottor Bianchi e la visiterò: mi dica se le faccio male” eccetera), che in ogni settore sanitario risulta essere presente. Non ci sono solo angherie e vessazioni contro le donne, ma ci sono vessazioni verso le persone, tutte e di qualsiasi età (ricordo un piccolo bambino al 5°mese di gravidanza, partorito perché malformato e cacciato in malo modo in una scatola, avvolto da un telo verde: “Bleah, che schifo!” esclamò una dottoressa che passava di lì e scoprì il telo dentro la scatoletta abbandonata in un angolo della sala operatoria).
Seconda questione: le donne rivestono solo il ruolo di vittime? No. Vorrei saperlo dire in modo più acconcio, ma risulterei solo sgradevole: moltissime donne insultate, mortificate, offese, umiliate durante il loro soggiorno in reparti di Ostetricia e Ginecologia - o presso Consultori - hanno vissuto sulla loro pelle gesti compiuti da donne. Ci sono medici, infermieri, ausiliari uomini aggressivi? Sì ed è inutile negarlo. Ma affermare il fatto che solo costoro siano imputabili di gravi maltrattamenti, è mentire sapendo di farlo. Basterebbe citare, nella mia modesta esperienza, il fatto che fu un’ostetrica che in mia presenza promise alla specializzanda (medico in fase di specializzazione) di eseguire episiotomie (l’episiotomia è il taglio chirurgico del meato vaginale per consentire la nascita veloce del neonato, da eseguirsi solo in caso di emergenza effettiva) perché questi imparasse a ricucire i diversi strati del perineo vaginale. Un po’ scarna, come motivazione medica. Tra l’altro la donna che poi vive mortificata da ogni azione - da quella ascrivibile come semplice maleducazione, a quella ben più grave - si trova ad affrontare una realtà sconcertante: la solidarietà femminile non esiste. Da un medico uomo che tratta la partoriente come un’idiota o la dileggia, sarebbe quasi più disposta ad accettarlo (il che, comunque, è sbagliatissimo: sia il comportamento del medico/infermiere, sia la passiva accettazione della paziente), ma da una donna, come si fa a ritenerlo corretto o anche solo a concepirlo? Eppure svariati racconti che proprio le associazioni succitate hanno raccolto attraverso la campagna su facebook #bastatacere, sono chiari: sono spesso le ostetriche che si macchiano di gesti inspiegabili, e motivare che sono obbligate a compierli poiché è il medico che decide quali azioni debbano essere attuate sulla donna, è nascondere la testa sotto la sabbia: l’ostetrica è una professionista autonoma e se ci sono situazioni patologiche (ma solo queste, poiché la fisiologia le compete completamente da Profilo Professionale) ella deve adempiere alle indicazioni del medico, ma può farlo in modo tale che la donna non viva il proprio parto come uno stupro della sua femminilità. Mi si potrebbe rispondere che spesso però l’ostetrica stessa subìsce mobbing da colleghe o medici, se non si adegua alle abitudini del posto di lavoro. Quindi si torna al problema esposto in precedenza: tutti gli operatori sanitari (maschi e femmine) sono impreparati in ambito comunicativo, nessuno escluso. E tutti gli operatori sono colpevoli di prepotenze contro la donna, nessuna esclusa.
Ecco perché tutti gli operatori sanitari capaci (dal primario sino all’ausiliario) andrebbero premiati in modo pubblico e riconoscendone economicamente la valenza: solo in questo modo ci si potrebbe rendere conto che è necessario un cambiamento. Anche perché sarebbe meglio spendere soldi pubblici per premiare chi si comporta bene e in modo professionale anche quando sbaglia (Errare humanum est, perseverare autem diabolicum), piuttosto che continuare a spendere soldi pubblici in Cause che spesso nascono solo ed esclusivamente per problematiche di comunicazione. Troverei molto azzeccato riformare i corsi universitari aggiungendo la comunicazione come materia di studio obbligatoria, anziché sperare che chi già lavora ed è obbligato a spendere soldi per la costosa formazione, opti in coscienza per tale preparazione.
Se proseguiamo il rapporto della Šimonović, leggiamo: «Leggi discriminatorie e stereotipi di genere pericolosi sul ruolo naturale delle donne nella società e nella maternità giocano un ruolo anche nel parto e contribuiscono a limitare l’autonomia e l’agire delle donne. Questi stereotipi nocivi sono ulteriormente giustificati dalla convinzione che il parto sia un evento che richiede sofferenza da parte delle donne, il che porta alla “normalizzazione” dell’abuso». Gli stereotipi di genere sono dappertutto: da quelli nei racconti (Cenerentola, ad esempio, è oramai un testo da Carboneria) a quelli espressi dai libri scolastici (“La mamma stira” è una frase capace di mettere all’indice anche la più capace autrice) e sono quelli che identificano la donna come sottomessa fisicamente e gerarchicamente per il fatto che le caratteristiche cucitele addosso al suo genere, sono ascrivibili a un determinato elenco e fanno di lei una vittima del patriarcato. I problemi relativi alla dicitura “stereotipi” sta nel fatto che talvolta, e con allarmante frequenza, nella descrizione di questi, si celi tatticamente di riconoscere che non sono modelli prestampati, ma archetipi ben definiti dalla biologia. Un esempio: che la donna possegga il progesterone e questo ormone sia la causa della melanconia che precede di una diecina di giorni la mestruazione, è un fatto endocrino, non uno stereotipo. Che con l’avvicinarsi delle mestruazioni anche la dopamina e l’acido γ-amminobutirrico (anche conosciuto come GABA) siano bassi e che questo possa causare una percezione di solitudine o irritabilità, è un fatto endocrino, non uno stereotipo. Che la produzione di ossitocina renda la donna - in quanto il suo corpo produce estrogeni - più incline a essere accogliente ed empatica, è un fatto endocrino, non uno stereotipo. Ci sono donne che dimostrano essere coraggiose quasi quanto un uomo? Ovvio: si pensi a Santa Chiara che si fece suora senza il consenso dei genitori oppure a Santa Gianna Beretta Molla che rinunciò alla propria vita per salvare quella del figlio in grembo … O alla Vergine Maria che accettò di portare in grembo il Figlio di Dio: non mi pare che la Storia manchi di donne coraggiose: questo non vuol dire che possedevano più testosterone, ma - se andiamo a vedere le loro vite e i motivi che le hanno mosse verso la fermezza nelle loro decisioni - c’è sempre un carattere di dono verso l’altro, di accoglienza verso il più debole o di servizio a Dio (ossia verso la Redenzione dell’Umanità): caratteristiche che non fanno parte di una descrizione stereotipata, ma di una biologia chiara e inequivocabile che fa dell’espressione psicologica e fisica di tali peculiarità, degli archetipi. E noi donne lo sappiamo bene: si potesse provare a far partorire un uomo, sappiamo perfettamente che la generazione non si riprodurrebbe. Per non parlare di problematiche di allattamento o anche solo della propensione all’accudimento verso un neonato affetto da coliche serali ripetute ogni giorno per i primi tre mesi di vita: un uomo qualunque, foss’anche Reinhold Messner, potrebbe implodere su se stesso. Affermato ciò - ovvero elencate una serie di ovvietà assolute - facciamo un collegamento: e se fosse proprio questo non corrispondere a delle caratteristiche che ogni donna sa di possedere e spera di trovare nell’altra donna, ciò che rende terribile una violenza psicologica e/o fisica? E se fossero l’aggressività, la cattiveria e la bruttezza che alcune donne mostrano nell’esercizio della loro professione, un’“immagine rigida” (significato etimologico del termine ‘stereotipo’) del comportamento che mostrano perché - molto semplicemente - è mancata loro una formazione adeguata, quella professione le ha consumate e deturpate e la disorganizzazione sanitaria le ha rese sterili nei sentimenti e perché, purtroppo, l’ideologia le ha fatte rinunciare del tutto a una morale? Allora ecco che alcune personali considerazioni: le vere femministe, quelle che lavorano instancabilmente per la donna, non è un caso che vogliano per lei il meglio. E volere il meglio per la donna significa desiderare per lei e battersi (spesso con le unghie e con i denti, dato che il femminismo è accerchiato attualmente tra la teoria della fluidità di genere e le cosiddette “pro-choice”) perché ella possa vivere la propria espressione biologica più fisiologica, nel modo migliore: pretendere il meglio per le donne, significa dare loro la bellezza della maternità. Si pensi ai racconti di come venivano assistite le partorienti e le puerpere cent’anni fa (in alcune zone anche più di recente): mai sole, sempre accolte con dolcezza, accompagnate, assecondate, guidate con affetto da altre donne, fatte riposare dopo il parto per almeno quaranta giorni (il cosiddetto puerperio). Si paragoni a come vive la donna che ha appena partorito oggidì: sola, consigliata male, con parti stancanti sulle spalle ma dimessa velocemente per lasciare il letto dell’ospedale libero, magari con problematiche di allattamento… non c’è paragone, nevvero?
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Cosa cambia nelle varie modalità di assistenza? Forse la mentalità dell’operatore sanitario uomo? No: l’uomo è azione e contenimento del problema, spesso modo di agire assolutistico. “Responsabilità mia, decido io!!”. “Sofferenza fetale? Cesareo!”. “Il neonato cresce poco? Formula lattea artificiale!”. “La donna è agitata? Si seda con l’anestesia!”.
Sono cambiate le donne. Gli ambiti formativi, l’incompetenza fornita dall’ideologia, l’assoluta mancanza di riconoscenza professionale che sarebbe dovuta a chi lavora bene… se ci mettiamo tutti questi ingredienti, ne viene fuori la figura disegnata da alcuni racconti dell’orrore che molte donne fanno dell’assistenza ricevuta. Sto dicendo forse che l’uomo non avrebbe la possibilità di decidere di trattare in modo professionale una donna? Certo che ce l’avrebbe e, come ho già scritto, ho visto medici esprimere gentilezza, preparazione e compassione parimenti al professor Jérôme Lejeune o, al contrario, assomigliare pericolosamente al dottor Mengele, per cui la mia visione è inequivocabilmente equa. Quello in cui desidero essere parimenti chiara è che, con la scusa degli stereotipi di genere, si trasmetta il messaggio che non ci si può aspettare - a questo punto - di essere accolti da parte di una donna perché non è detto che la donna corrisponda alle caratteristiche che di solito corrispondono alla figura femminile: male per la donna che spera in accoglimento ed empatia.
Il parto è doloroso - dice la Šimonović - e questo giustifica i maltrattamenti e “normalizzano” l’abuso. In realtà dovremmo andare a studiare cosa causi il dolore fisico e psicologico in chiunque, e lo facciamo semplicemente con la considerazione che ognuno di noi compie quando si trova di fronte a chi propone l’eutanasia come soluzione: quando chi vive nella sofferenza è abbandonato e tormentato, l’opzione liberatrice per eccellenza, è la morte. Quando chi vive nella sofferenza è accolto e accompagnato (anche ma non solo dalla Terapia del Dolore), il suo desiderio di morire è inferiore se non assente. Il dolore del parto c’è da sempre e da millenni: le ostetriche e i ginecologi di tutto il mondo lo hanno studiato e ristudiato: vi è un motivo per il quale la natura predispone che il corpo della donna provi lancinanti spasmi, quando dà la vita al proprio bambino, e chiunque ha presenziato a una nascita, lo ha potuto constatare di persona: il legame che crea il dolore della nascita (che, non scordiamocelo, è della donna, ma anche del bambino) deve avere il suo svolgimento, possiede una sua ragion d’essere. Mi trovo d’accordo con la Šimonović nella considerazione che compie in questo frangente, poiché sono stata presente ad assistenze al parto brutte e scandalosamente aberranti verso la donna e il bambino (anche spesso motivate dal razzismo). Anche in questo caso ho constatato più volte come non vi sia una particolare differenza tra uomo e donna: battute volgari, dileggiamenti, modi freddi e sgraziati, ma - al contrario - anche la cortesia e l’accompagnamento sono ‘unisex’. La differenza, in quest’ultimo caso, tra assistenza al maschile e assistenza al femminile sta nelle modalità d’espressione: laddove un’ostetrica (donna) mostra una pazienza smisurata per ore e ore in modo instancabile e materno (non saprei come meglio definirlo) e riesce a far abbandonare mentalmente e fisicamente la donna al suo dolore (meccanismo di ‘spegnimento’ della neocorteccia cerebrale che contribuisce a un rilascio di ossitocina endogena - ossia prodotta dalla donna stessa - a livelli molto alti); un uomo - spesso il medico - reagisce con compassione maschile (anche qui non trovo altra descrizione) al dolore della donna, magari proponendo un analgesico. Non vi è nulla di male al fornire un aiuto in tal senso, al contrario (io ho amato profondamente sia le ostetriche che mi hanno assistito, sia gli anestesisti che mi hanno aiutato), tuttavia è un modo di superare il problema in modo molto automatico: se c’è il dolore, lo si abbatte. La questione non è solo che il dolore fisiologico del parto spinga alcuni operatori sanitari - che dovrebbero cambiare mestiere - a essere sgradevoli, la questione è che il dolore umano non desti più compassione, ma talvolta ribrezzo.
Per decenni anche io mi sono battuta per l’umanizzazione della nascita (il “Restiamo Umani” delle ostetriche), ma poi mi sono resa conto che nei confronti del mistero della nascita di qualsiasi essere umano non ci si può accedere umanamente (quindi con tutti i difetti che l’essere umano porta in sé), ma in modo divino. Nel momento in cui nasce una persona, l’operatore è al cospetto di un miracolo. Solo il rispetto profondo e quasi religioso verso quel dolore mostruoso che la donna sta provando in virtù del proprio figlio, può far capovolgere completamente la visione dell’assistenza alla nascita. E quando un operatore - donna o uomo: ognuno con le proprie caratteristiche insite nel proprio sesso - s’inchina mentalmente e fisicamente alla donna che sta dando la vita per una persona, lì sta la considerazione che stia lavorando bene. E andrebbe ricompensato e premiato: cosa che non viene fatta assolutamente in tante realtà ospedaliere italiane.
La Šimonović prosegue:«In aggiunta, nel mio Rapporto, affronto lo sbilanciamento dei poteri nella relazione tra i professionisti sanitari e i pazienti come ulteriore causa alla radice del maltrattamento e della violenza, incluso l’abuso della dottrina delle necessità medica che spesso viene usata per giustificare il maltrattamento e l’abuso durante il parto». Anche qui io accolgo il pensiero della Šimonović, ma non credo solo nel senso ch’ella esprime. Basta leggere i racconti delle donne - spesso molto giovani - che si recano talvolta da operatori sanitari in ambito ostetrico-ginecologico: la pillola è la soluzione, il preservativo è il consiglio gettonato. Fornire tale modalità di vivere la sessualità, non solo è una strumentalizzazione del corpo della donna (lo stesso corpo che le Associazioni da me citate all’inizio vorrebbero difendere) e la banalizzazione dell’atto sessuale (una genitalità che abbrutisce e rende l’altro un mero mezzo di godimento), ma è un mezzo per giustificare la violenza sulla donna. Come provo tale mia considerazione? Siamo tutti scandalizzati dal fatto che l’8 novembre passato, l’Osservatorio Nazionale Adolescenza abbia portato alla luce una ricerca che ci fa rimanere attoniti (1 ragazza su 10 è stata aggredita verbalmente dal ragazzo, 1 su 20 è stata picchiata) ed è necessario chiedersi il motivo di tali raccapriccianti risultati. Basta però fare una considerazione molto semplice: dal 2013 al 2016 i reati sessuali su minori perpetrati da altri minori, è salito dell’80% (qui si approfondisca la lettura) e questo risultato è causato principalmente dalla pornografia. E cosa c’entra il suggerire l’uso di pillola e preservativo, con la pornografia? C’entra perché l’uso del corpo - specialmente quello della donna - a solo scopo di godimento e benessere personale, fa del corpo femminile un oggetto. Come la pornogafia, del resto, e la prostituzione. La mancanza di presenza genitoriale (specialmente paterna e in modo autorevole sia per il ragazzo, sia per la ragazza, ma anche materno: il distacco forzato con la madre porta l’uomo all’esplicitazione della pretesa di non essere abbandonato, spesso in modo brutale) porta le giovani generazioni a riporre la loro fiducia in operatori sanitari che - applicando ideologia e non scienza (se l’applicassero scoprirebbero che il preservativo non protegge né da HIV né da HPV e la pillola può far male) - non vogliono il bene della persona che hanno di fronte, ma vogliono spesso solo evitare problemi di natura sanitaria (non riuscendoci per nulla se pensiamo che nei Paesi europei dove l’educazione sessuale c’è da più tempo ed è più radicata, la diffusione di malattie sessuali è alle stelle e gli aborti tra le donne sono a percentuali vergognose). Se esistono operatori sanitari che, per fare prima, prescrivono pillole e preservativi come Zigulì non stando sull’educazione affettiva della persona e del riguardo che ogni persona deve ricevere, come si può pretendere che, al momento del parto, la donna venga rispettata? Se non c’è rispetto verso la persona in modo particolare nei momenti di vulnerabilità (adolescenza e parto, ad esempio, ma anche durante la fase di sviluppo nell’utero materno), non potrà mai esserci in alcun momento. Medesima considerazione si potrebbe fare nei riguardi dell’aborto: pur sapendo che per molte donne è causa di sofferenza per tutta la vita, non si aiuta la donna a preservare la vita che c’è in lei accompagnandola nel percorso verso la consapevolezza e la responsabilità, ma le si dà una soluzione rapida. La medesima modalità di chi prescrive pillole anticoncezionali. La medesima modalità di chi porta verso le tecniche di Procreazione Medicalmente Assistita. La medesima modalità di chi non trasmette una cultura della nascita e della fisiologia dell’accudimento del neonato, ma abbandona la donna in gravidanza verso l’ignoto. Donna, quest’ultima, che vive la gravidanza e la nascita del proprio figlio come le è stato insegnato: delegando l’operatore sanitario. Donna, quindi, che non comprende affatto ciò che le accade nei momenti che vive nella sala parto e che non pretende un trattamento migliore o una relazione alla pari con l’operatore che la sta assistendo. Operatore che si sente in diritto di trattarla a seconda di come si alza dal letto. Non a caso la Šimonović rileva che «la seguente definizione di violenza contro le donne, sancita dall’articolo 1 della Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne delle Nazioni Unite, è applicabile a tutte le forme di maltrattamento e violenza nei servizi di salute riproduttiva e nel parto: “Ogni atto di violenza fondata sul genere che abbia come risultato, o che possa probabilmente avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata”». E che cosa sono la prescrizione della pillola senza insegnare a comprendere il proprio ciclo uterino, o la prescrizione delle pillole del giorno dopo o direttamente il suggerimento di abortire, se non atti di violenza sulla donna che possano probabilmente avere come risultato un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica? Certo che non è un atto di violenza diretto prescrivere la pillola o caldeggiare l’uso del preservativo, ma sappiamo che facendolo, la giovane donna sarà sfruttata come mezzo di godimento e si depaupererà moralmente. Certo che non è un atto di violenza diretto - sulla donna - suggerire di abortire magari compiendo affermazioni scientificamente sorpassate da decenni (il famoso “grumo di cellule”) o dando informazioni reticenti (il famosissimo e attualissimo “gli studi ci confermano che le donne non soffrono dopo aver abortito”), ma è certamente la privazione arbitraria della libertà personale, applicata - tra l’altro - in modo subdolo e attraverso la propria posizione di superiorità che la stessa Šimonović definisce come «lo sbilanciamento dei poteri nella relazione tra i professionisti sanitari e i pazienti [...] causa alla radice del maltrattamento e della violenza, incluso l’abuso della dottrina delle necessità medica». Cosa sfruttano gli operatori sanitari che prescrivono la pillola anticoncezionale alle giovani e meno giovani, donne senza far loro comprendere la bellezza di ogni fase del loro ciclo? Cosa sfruttano gli operatori sanitari che spingono in modo poco velato la donna ad abortire mentendo sui dati scientifici della depressione post-aborto? Cosa sfruttano gli operatori sanitari che suggeriscono il ricorso a tecniche di Procreazione Medicalmente Assistita come se questa non avesse effetti negativi? Cosa sfruttano gli operatori sanitari che non mettono in condizione la donna gravida di compiere scelte informate per sé e il proprio bambino e durante il parto la maltrattano fisicamente e/o verbalmente? Cosa sfruttano i pediatri che non sostengono l’allattamento materno e forniscono indicazioni pedagogiche sbagliate nei confronti del sonno infantile? Cosa sfruttano, se non lo sbilanciamento dei poteri nella relazione tra loro e le pazienti?
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Due parole sul termine ‘salute riproduttiva’: nonostante il termine positivo (“Con il termine salute si intende comunemente una condizione di efficienza del proprio organismo corporeo che viene vissuta individualmente, a seconda dell’età, come uno stato di relativo benessere fisico e psichico caratterizzato dall’assenza di gravi patologie invalidanti. Questa situazione di salute psicofisica, per i progressi della medicina, viene oggi indicata come il conseguimento della migliore qualità e durata della vita ottenibili preservando e ripristinando lo stato di benessere anche spirituale” troviamo scritto su wikipedia) l’unione di tale termine con la parola ‘riproduttiva’ sta a significare il raggiungimento mondiale dell’accesso ai metodi anticoncezionali e all’aborto, che non sono per nulla positivi (dati scientifici alla mano). Inoltre, oltre che essere una terminologia vaga e ideologicamente mutagena, ‘salute riproduttiva’ ricorda drammaticamente gli standard per l’educazione sessuale in Europa, editi dall’OMS: una raccolta indecifrabile e confusionaria di considerazioni e indicazioni antiscientifiche e ideologiche che il professor Cantelmi e il dottor Lambiase hanno disaminato e confutato punto per punto in “Nati per essere liberi” (2015, Ed. Paoline). Per quanto attiene il mio personale parere, la salute riproduttiva sta - brevissimamente - nell’applicazione dell’empowerment, ovvero nel rendere edotte le persone e, soprattutto, le nuove generazioni: sulla fisiologia femminile e maschile; sulla consapevolezza che ogni gesto che si compie per se stessi attraverso il proprio corpo sia espressione di un’intera persona composta di varie parti (mente, cuore e spirito); che ogni gesto che la persona compie sia espressione di libertà e responsabilità enormi; che la propria vita sessuale sia frutto di vari fattori tra i quali una vita affettiva infantile vissuta essendo amati e rispettati, e che l’unione di maschile e femminile sia procreare persone che vanno curate, amate, educate al rispetto, con rispetto.