Storie
di Elisabetta Cipriani
HAPPY HOUR, L’EPIDEMIA DISTOPICA DI FERRUCCIO PARAZZOLI
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È l’ora di rileggere Manzoni, è l’ora di rileggere Camus. E per quanto riguarda la narrativa contemporanea, è l’ora di leggere coloro che di quei grandi intuiscono la sempiterna portata profetica: è l’ora di Ferruccio Parazzoli.
Ci si sveglia un giorno a caso in una qualunque periferia dell’Occidente medicalizzato, l’Occidente iperconnesso del XXI secolo, e di colpo la bolla patinata d’onnipotenza transumanista è svanita: basta un ridicolo microrganismo, un miasma invisibile a seminare un panico atavico, a ricordare che siamo fragili e mortali. Nell’attesa che i virologi facciano il loro prezioso lavoro, noi torniamo all’antidoto della letteratura. A Manzoni che ci mostra i danni dell’irresponsabilità, della fatuità insita in certe autorità politiche, come in certa élite intellettuale (Ferrer che lascia passare i lanzichenecchi appellandosi sacrilegamente alla provvidenza, quasi che i guasti della nostra inettitudine fossero colpa di Dio; don Ferrante che non crede alla peste, che ne dimostra in astratto l’inesistenza per morirne sbigottito). A Manzoni che nella Colonna infame ammonisce sui rischi sempre risorgenti della ricerca di un capro espiatorio. A Camus, che porge la solidarietà umana, il caparbio altruismo di Rieux, come vero rimedio agli opposti inganni dell’isteria e della distrazione edonista. E Parazzoli? Parazzoli certo non ne prescinde, ma aggiunge una sua parola originale, come può e deve chiunque si assuma l’onere di scrivere.
Nei giorni della quarantena della città cinese di Wuhan, dei primi casi di coronavirus in Italia e proprio nella sua Lombardia, Parazzoli se ne esce immaginando un’altra quarantena: quella di una Milano disperatamente opulenta in cui si diffonda una pandemia suicida. ” È sabato oggi a Milano, una tiepida giornata di settembre. È sabato pomeriggio in corso Buenos Aires, è impossibile camminare a passo rapido sui marciapiedi. Paninerie e gelaterie amministrano selvaggiamente la calca, impossibile trovare una sedia ai tavolini dei bar ammassati su metà del marciapiede. I contenitori di spazzatura rigurgitano carta oleata, focaccia masticata, bottiglie infrante, barattoli schiacciati, plastiche accartocciate. È corso Buenos Aires, la Grande Via della prosperità. Non c’è povertà su corso Buenos Aires, anche gli accattoni fanno parte della sua abbondanza”.
Una prosperità fine a se stessa, più esibita che goduta realmente, una peste che si propaga nel vuoto spirituale quasi il vuoto fosse un liquido organico, un fiato di cui tutti sono gonfi. Non ci sono topi, in questa peste, benché ci sia l’epidemia e ci sia la rivolta: non ci sono topi o meglio stavolta sono troppo antropomorfi per distinguerli dalla folla anonima che scorre accanto sul marciapiede: “...ancora topi, professore, ma questa volta non sono quelli di Orano, sono i topi di Milano, suicidi per malefico incantesimo che ha svuotato di senso il bene come il male, che ha creato il terrore per una vita sobria, che ha riempito le solitudini con altre solitudini, che ha trasformato i corpi in ombre. (...)Giovani che sanno di stare studiando inutilmente per l’oggi e per il domani, i ragazzi delle biciclette che corrono per la città con lo scatolone in spalla, i commessi stagionali, i servi delle catene alimentari, le cassiere dei grandi magazzini, le ragazze che portano i vassoi ai tavolini sul marciapiede, i giovani che non fanno nulla perché credono che non ci sia più nulla che valga la pena fare.”
La gente si uccide, senza un perché: si uccide proprio per assenza di perché. Le autorità, brancolando nel buio, propendono per attribuirne le cause alle polveri sottili che ostacolerebbero l’ossigenazione del cervello: in ogni caso la città è isolata e pervasa da un sottile fremito di insurrezione.
C’è molto Camus qui dentro, indubbiamente: la peste, la rivolta, ma mediate con il saggio distacco di un’ironia inquieta, perché tutto - lo si è visto già mille volte - può essere rivoltato come un calzino e tuttavia non cambiare. C’è un professore della Cattolica più scettico di Pirrone, il cui sguardo disincantato delinea lo scenario. Ci sono una vecchia con le stigmate e un pizzaiolo egiziano, due puri idioti, due giusti su cui forse l’intera città poggia le fondamenta. C’è soprattutto la consapevolezza - mai declamata - che la rivoluzione sia sempre e comunque un sussulto della coscienza, un moto interiore della gioia, dello spirito di comunione, che spezzano l’inerzia della morte e della rassegnazione.
“Happy hour” di Parazzoli sembra essere proprio questo: un inno alla gioia, ma senza nessuna enfasi o esuberanza. Un allegretto che prende avvio dalla desolazione e si fa via via più mosso, più vivace, ma non s’incendia perché non intende cedere a illusioni palingenetiche: non ci sono salvatori mondani, il morbo non è mai vinto una volta per tutte e le ultime, acide battute dell’epilogo escludono persino il lieto fine propriamente inteso. Lo stile resta sempre terso, senza sbavature retoriche, effetto di una poetica improntata al disvelamento del reale e a una moralità non ideologica.
Che c’entra tutto questo con la peste concreta dei nostri giorni, il coronavirus covid-19? In apparenza niente, senonché un virus riporta sempre, che sia della mente o del corpo, la tracotanza umana alla sua misura naturale: la misura della fragilità e dell’impermanenza. A nessun virus, mai, si reagisce se non si ha un perché per farlo: i perché sono i nostri anticorpi. Non preservano da sorella morte, dalla quale nullu òmo vivente pò scappare, ma evitano che si muoia prima di morire. E verrebbe da tornare a Pascal: “L’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna che pensa. Non serve che l’universo intero si armi per schiacciarlo; un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe comunque più nobile di ciò che l’uccide perché sa di morire e conosce il potere che l’universo ha su di lui, mentre l’universo non ne sa nulla.
Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero”.
Ecco, il libro di Parazzoli richiama il lettore contemporaneo alla sua dignità, lo costringe a scuotersi e pensare. È dunque proprio un vero antivirus.
Ferruccio Parazzoli, Happy hour, Rizzoli 2020.