Politica
di Elisabetta Cipriani
Demetrio Paolin ci regala un Geremia genuinamente pasquale
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Io credo nella risurrezione della carne. Questo mi fa credere in Dio. So che quando affermo il mio credo, la gente sorride e mi prende in giro (...) Eppure la fede è questo scandalo, questo salto non logico che il lettore, credente o meno, deve permettermi di fare, e che deve in qualche modo seguire: credere in Dio non rende la vita meno tragica, non rende l’esistenza meno complessa. Credere in Dio significa assumere in sé tutta la tragedia dell’umano e arrivare al limite del nulla, del nonsenso, arrivare al limite più estremo del nichilismo e affermare che alla fine la fragilità avrà vinto sulla forza. L’essere, che è debole, vincerà sul non-essere, e la carne rivestirà i corpi che amiamo.
Questa non è che una semplice nota di “Anatomia di un profeta”, un assaggio non casuale di una pietanza che è commistione sapiente di molte cose. Paolin doveva essersi messo in testa di scrivere un libro anticonsolatorio. E potete giurare che c’è riuscito. Un libro che ibrida saggio e narrazione, récit autobiografico ed esegesi biblica, la pulsione suicidiaria di una generazione cresciuta col grunge anni ‘90 e la missione profetica di Geremia. In questo libro non troverete una sola riga che vi aiuti a dormire sonni tranquilli. E, fatto ancor più sbalorditivo per un ‘romanzo’ del XXI secolo, non c’è una sola goccia d’ironia. No, il Geremia di Paolin segna il ritorno del tragico, per questo è il libro più adatto a interpretare il nostro tempo sospeso, questo limbo non risparmiato dal dolore. Se fino a ieri sembrava che su tutto si potesse ghignare un algido sarcasmo, la realtà s’è incaricata di riportare sulla scena la morte, squadernando gli happy hour di molte finte vite. Paolin poi irrompe piazzando un carico da undici, con un libro che in fondo parla dei novissimi, ma con la voce rauca e luttuosa di un coltissimo Kurt Cobain delle Langhe. Come ogni autore degno di questo nome, parte da ossessioni sue per palesarci la condizione umana. Un ragazzino misteriosamente si uccise al suo paese, molti anni or sono, un ragazzino che aveva nome Patrick. Così il suicidio diventa la sua ferita non chiusa, la disarmonia irriducibile di tutte le cose. Pavese, Levi, Cobain, Foster Wallace sono pietre miliari dello stesso viatico, conferme di quanto già il piccolo Patrick svelava: se i morti non risorgono, non solo vana è la fede, ma vana è la stessa vita. E Geremia? La seconda ossessione. Geremia è il profeta cui Dio ha parlato, colui che deve annunciare la catastrofe e non essere creduto. Chiaramente è il simbolo di ciò che uno scrittore dovrebbe essere per Paolin: il testimone di verità sgradevoli che nessuno vuole sentire. Ma solo da questa asprezza, da questo sconcerto, sorge una speranza non illusoria. La salvezza passa dalla disperazione e dall’ignominia. Come Geremia prostrato e sconfitto è risollevato da Dio, così anche le ossa del suicida Patrick, le ossa di tutti i suicidi germoglieranno salvezza. Perché, o anche il dolore assoluto del suicida trova riscatto, o non c’è riscatto per nessuno. Ma ecco, le teofanie di Dio sono spiazzanti e abrasive. Egli si manifesta in ciò che più sembra abietto. A tratti Paolin lo dice in un modo fin troppo scopertamente paradossale, eppure proprio in ciò c’è da esser grati a questo libro stravagante. Il cinismo vero è altrove, non sta di casa qui. Il cinismo programmatico dei nichilisti d’accatto contro cui si ergeva Todorov in “La letteratura in pericolo”. “Eppure è troppo facile, è semplice dirsi: fa tutto schifo, è tutto orrendo e senza senso. Io voglio che la vita di Patrick e delle persone che amo e che sono morte abbia un senso e non venga derubricata a questo è il mondo”. Qui è la fede, qui è tutto. La scommessa di Pascal è più abissale del buon senso euclideo di Ivan Karamazov. Troppo facile restituire il biglietto davanti al dolore degli innocenti. Un uomo vero - e un vero scrittore - non scappa, ma va fino in fondo “con una dose infinita di abbandono”.
Non è un libro per pie donne questo: è un libro volutamente disturbante. Vi son fin troppi libri simili in giro - ce ne sono di quelli che giocano a fare i provocatori, provocando solo sbadigli - ma tutti poi si dividono in due categorie: quelli per cui vale e quelli per cui non vale prendersi il disturbo.
“Anatomia di un profeta” appartiene decisamente alla prima. È un libro “esorbitante, che colpisce per la sua fantomatica illeggibilità” - come il Geremia biblico, per l’appunto. È un’alba livida su macerie, quando “l’attesa della ricostruzione è tutto ciò che ci rimane”. C’è forse qualcosa di più scandalosamente pasquale, di più inattuale e perciò adatto a questo tempo?
Demetrio Paolin, “Anatomia di un profeta”, Roma, Voland 2020.