Chiesa
di Tommaso Ciccotti
Papa Francesco incontra i migranti prima di salutare Cipro
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Da Cipro Papa Francesco si congeda con la preghiera ecumenica nella Chiesa parrocchiale di Santa Croce, collocata al limite della linea blu che traccia il confine tra le “due” Nicosia. Dentro alla Chiesa è presente una nutrita rappresentanza di quelle centinaia di migliaia di profughi, triplicatisi nell’isola negli ultimi anni, in attesa di raggiungere l’Europa.
È significativo, infatti, l’augurio che il Papa esprime per il Paese: “Possa quest’isola, segnata da una dolorosa divisione, diventare con la grazia di Dio laboratorio di fraternità”
E la fraternità si realizza e matura percorrendo due strade: “La prima è l’effettivo riconoscimento della dignità di ogni persona umana: questo è il fondamento etico, un fondamento universale che è anche al centro della dottrina sociale cristiana. La seconda condizione è l’apertura fiduciosa a Dio Padre di tutti; e questo è il ‘lievito’ che siamo chiamati a portare come credenti”
Papa Francesco fa sue le parole di questi uomini e donne li chiama per nome e dai loro racconti trae spunto per il suo discorso. “Le vostre testimonianze le avevo ricevute in anticipo circa un mese fa e mi avevano colpito tanto, e anche oggi mi hanno commosso. Ma non è solo emozione, è molto di più: è la commozione che viene dalla bellezza della verità”, esordisce il Pontefice. “Le vostre testimonianze sono come uno ‘specchio’ per noi, comunità cristiane”, aggiunge citando Thamara, venuta dallo Sri Lanka, che poco prima affermava: “Spesso mi viene chiesto chi sono”. Anche a noi a volte viene posta questa domanda: “Chi sei tu?”, osserva il Papa. ”La brutalità della migrazione mette in gioco la propria identità” e “purtroppo spesso si intende dire: ‘Da che parte stai? A quale gruppo appartieni?’. Ma come ci hai detto tu, non siamo numeri, individui da catalogare; siamo fratelli, amici, credenti, prossimi gli uni degli altri”. Ma quando gli interessi di gruppo o gli interesi politici, anche delle nazioni, spingono, tanti di noi rimangono da una parte, senza volerlo, schiavi. Perché l’interesse sempre schiavizza, sempre crea schiavi. L’amore che è largo, che è contrario all’odio, l’amore ci fa liberi. “E quando tu, Maccolins - prosegue il Papa rivolgendosi a un giovane del Camerun - dici che nel corso della tua vita sei stato ‘ferito dall’odio’, parli di questo: delle ferite degli interessi. E ci ricordi che l’odio ha inquinato anche le nostre relazioni tra cristiani”. Questo “lascia il segno, un segno profondo, che dura a lungo”. È un veleno da cui è difficile disintossicarsi. L’odio è una mentalità distorta, che invece di farci riconoscere fratelli, ci fa vedere come avversari, come rivali, come un oggetto da vendere e sfruttare.
“Non devono farci paura le differenze tra noi, ma piuttosto le nostre chiusure e i nostri pregiudizi, che ci impediscono di incontrarci veramente e di camminare insieme”, aggiunge il Papa.
Gesù stesso, assicura, “ci viene incontro con il volto del fratello emarginato e scartato. Con il volto del migrante disprezzato, respinto, ingabbiato… Ma anche del migrante che è in viaggio verso qualcosa, verso una speranza, verso una convivenza più umana”. E così Dio “chiama anche noi a non rassegnarci a un mondo diviso, a comunità cristiane divise, ma a camminare nella storia attratti dal sogno di Dio: un’umanità senza muri di separazione, liberata dall’inimicizia, senza più stranieri ma solo concittadini”.
Papa Francesco ringrazia tutti coloro che lavorano per realizzare questo “sogno”, ma al contempo afferma: “Pensare che questa isola è generosa ma non può fare tutto, no? Perché il numero di gente che arriva è superiore alle proprie possibilità di inserire, di integrare, di accompagnare, di promuovere… La sua vicinanza geografica facilita questo, ma non è facile. Dobbiamo capire i limiti i governanti di quest’isola sono attaccati”.
Poi conclude: “Lo dico perché è responsabilità mia aiutare ad aprire gli occhi”, afferma. La sua critica è contro trafficanti e torturatori ma, al contempo, contro un mondo che si è “abituato” a queste tragedie. “Voi siete arrivati qui, ma quanti delle vostre fratelli e delle vostre sorelle sono rimasti per strada? Quanti disperati iniziano il cammino in condizioni molto difficili, anche precarie, e non hanno potuto arrivare… Possiamo parlare di questo mare che è diventato un cimitero. Guardando voi, guardo le sofferenze del cammino, tante che sono stati rapiti, venduti, sfruttati, ancora sono in cammino… È la storia di una schiavitù, una schiavitù universale”.
“Il peggio - accusa il Papa - è che ci stiamo abituando a questo: ‘Ah oggi, sì, è affondato un barcone, tanti dispersi’. Ma guarda che questo abituarsi è una malattia grave e non c’è antibiotico contro questa malattia. Dobbiamo andare contro questo vizio di abituarci alle tragedie che leggiamo nei telegiornali e altri media. Guardando voi, penso a tanti che sono dovuti tornare indietro, perché respinti e sono finiti nei lager, veri lager, dove le donne sono vendute, gli uomini schiavizzati torturati”. Spesso, osserva ci domandiamo come sia stato possibile che fossero stati costruiti i lager del secolo scorso, ma lo stesso - afferma - “succede oggi nelle coste vicine…”.
Un’ultima parola il Papa dice di non poterla tacere: “I fili spinati… Qui lo vedo uno. Questa è una guerra dell’odio che vive un Paese. I fili spinati in altre parti si fanno per non lasciare entrare il rifugiato. Quello che viene a chiedere libertà, pane, aiuto, fratellanza, gioia, che sta fuggendo dall’odio, trova davanti a un odio che si chiama filo spinato. Che il Signore ci svegli la coscienza di tutti noi davanti a queste cose. E scusatemi - conclude - se ho detto le cose come sono, ma non possiamo tacere”. “La migrazione forzata non è un’abitudine quasi turistica, per favore! Il peccato che abbiamo dentro ci spinge a pensare questo: ‘Povera gente, povera gente’. Col ‘povera gente’, cancelliamo tutto. È la sofferenza di fratelli e sorelle che non possiamo tacere. Coloro che hanno dato tutto quello che avevano per salire su un barcone di notte, senza sapere se arriveranno. E poi tanti finiti nei lager, posti di confinamento e di schiavitù. Questa è la storia di questa civiltà sviluppata che noi chiamiamo Occidente” conclude il pontefice.