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Palermo al voto - Ciro Lomonte, candidato del PDF

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Quando cominciò a frequentare il liceo scientifico Stanislao Cannizzaro erano tempi di rivolta, tempi di violenza. «Capitava che la polizia in strada sparasse», rievoca. E in occasione di una delle ripetute proteste anche lui venne sospeso per 15 giorni di fila da un preside impaurito. A 18 anni ha trovato le risposte che cercava. Ed è diventato un numerario dell’Opus Dei. Impegno e dedizione per il Signore, celibato, castità, sostegno per chi è più debole. La facoltà di Architettura la frequenta due anni in città e due anni a Milano. Nella città meneghina, però, l’aria è pesante. L’università è una pentola a pressione. «Il professore di analisi matematica un giorno arrivò e ci disse, “bene, ora vi insegneremo la dialettica marxista attraverso i numeri”. Qua sono tutti matti, mi sono detto, e tornai a Palermo».

Piccolo ritratto di Ciro Lomonte, uno dei sei candidati a sindaco, uno che anche cinque anni fa ci aveva provato e che questa volta lo fa con maggiore consapevolezza, portando la bandiera del movimento «Popolo della famiglia».
Architetto, figlio di un dirigente delle Poste e di una madre casalinga, lui non si definisce un single. «Io sono un uomo felice, un uomo innamorato di Dio. È un errore pensare a uno come me come a uno che passa le giornate da solo, tristemente. Ho fatto una scelta di fedeltà e la perseguo. Anche io devo fare attenzione perché anche io sono attratto dalle donne».


Ha riccioli e barba bianca, sembra un profeta di quella identità siciliana che difende a spada tratta. Parla dell’Isola come di una colonia: «Purtroppo è così - spiega -. Dei 25 miliardi di gettito siamo costretti a stornarne 10 a Roma. Lo statuto dell’autonomia è tradito, osteggiato, negletto».

Ritiene la letteratura siciliana degli ultimi duecento anni «pericolosa» perché «intrisa di un pessimismo senza speranza». Anche se riconosce la «stupefacente intelligenza di Sciascia e la sua capacità di analisi» come un punto di riferimento. Ama leggere Dostoevskj e ascoltare Sting nel tempo che gli rimane dopo gli impegni che si è assunto.


È senza dubbio un personaggio controcorrente. Sulla storia dell’arte, la sua materia, è netto: «Quante bugie sullo stile arabo normanno che non esiste, esiste l’arte siciliana. Le architetture di Palermo non si trovano in altri luoghi proprio perché realizzate da artisti locali». Ce l’ha con una certa idea che si trasmette della Sicilia, triste e senza futuro. Se la prende anche con l’ultimo video di Jovanotti: «È girato a Palermo fra rovine, vie sporche, straccioni…un modo falso di rappresentarci. Perché il messaggio deve essere sempre lo stesso: i siciliani non valgono nulla».


Era, negli anni della fatica sui libri, un secchione. Prende 60 alla maturità, 110 alla laurea. Comincia l’attività libero professionale e accanto prosegue con la dedizione alla causa della Compagnia. Quella che spesso sin chiama la «massoneria bianca». Ride, Lomonte. «Macché, non c’è l’Opus dietro la mia candidatura e nessuno mi sta aiutando - spiega -. E questo perché siamo liberi di pensare, di agire, di scegliere. La Dc ha creato molti guasti perché ha inventato le truppe cammellate».


La politica per lui è un fatto recente. Sino ai miei 56 anni non ne ho mai voluto sapere nulla, i partiti mi hanno sempre dato l’idea che trasmettessero qualcosa di falso». Poi ha acquisito il bisogno espresso da molti amici «che serve una ribellione con facce non compromesse». Spiega lo stato di subalternità dei siciliani con alcuni esempi: «Sui nostri mercati ci sono i limoni provenienti dall’Argentina. Ci rendiamo conto? Questo è esattamente la maniera in cui ci vedono: un mercato da sfruttare». Il nemico più grande? «Lo Stato centrale che non garantisce a questa terra i suoi diritti».

Lomonte ha un sogno nel cassetto: «Che i siciliano siano felici». E se gli si chiede se la sua battaglia al giorno d’oggi rischia di assumere un tratto velleitario lui risponde: «No, assolutamente no. Le nostre idee pian piano si vanno radicando».

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07/06/2022
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