Chiesa

di Emilia Flocchini

Beati Giuseppe Bernardi e Mario Ghibaudo, segni di benedizione e di pace

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Manca ormai poco per la celebrazione della Messa con il Rito della Beatificazione di don Giuseppe Bernardi e don Mario Ghibaudo, rispettivamente parroco-pievano e curato (ossia viceparroco) della parrocchia di San Bartolomeo a Boves, in diocesi di Cuneo. Il cardinal Marcello Semeraro, Prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi, presiederà il rito alle 15 di domani (diretta sul canale YouTube della diocesi di Cuneo e di Fossano), in piazza AVIS Donatori del Sangue a Boves.

Quella cittadina ai piedi del monte Bisalta è stata teatro della prima rappresaglia compiuta dai soldati tedeschi sul territorio italiano. L’autorità della Chiesa ha sancito che la scelta di quei due sacerdoti, rimanere accanto al popolo che avevano sempre servito, li ha resi non vittime collaterali, bensì martiri consapevoli e preparati, come si evince dalle testimonianze dei contemporanei, nonché dagli scritti pubblicati o privati, conservati con cura da chi ha seguito la loro causa.

Don Giuseppe nasce a Caraglio, presso Cuneo, il 25 novembre 1897, in una modesta famiglia. Entra in Seminario a dieci anni, anche se ha qualche problema di salute. Compie la vestizione clericale il 17 ottobre 1915, in pieno tempo di guerra. Viene arruolato due anni più tardi, anche se, nel 1916, era stato dichiarato rivedibile alla leva.

Mondovì, poi alcune località francesi e trentine, infine Cuneo, sono i luoghi dove, seppur addetto ai servizi sedentari, il chierico capisce quanto sia terribile la guerra. È congedato il 5 gennaio 1920, ma, a differenza di molti altri seminaristi, non abbandona la strada che ha scelto: rientra in Seminario il 13 dello stesso mese, impegnandosi nello studio con ottimi risultati.

Il 29 giugno 1923 viene ordinato sacerdote. Il suo primo incarico è ad Aisone, in Valle Stura, mentre dopo due anni è in cattedrale a Cuneo, sempre come viceparroco. Dal marzo 1938 al settembre 1931 è invece Rettore dell’Orfanotrofio per l’Educazione Professionale di Cuneo.

La sua prima esperienza come parroco rimonta al settembre 1932 a Bersezio, sempre in Valle Stura, dove per un anno è stato amministratore parrocchiale. Non lo scoraggiano né l’altitudine del paese – milleseicento metri sul livello del mare – né l’esiguità numerica della popolazione – centosessanta abitanti in tutto – : organizza le solenni Quarantore, promuove le processioni, ma concede anche qualche svago ai suoi chierichetti, a cui abbina il servizio nelle cappelle più lontane.

Il 29 giugno 1938 compie il solenne ingresso a San Bartolomeo di Boves, dopo aver partecipato al concorso canonico per il beneficio di pievano. Coinvolge subito la comunità per rendere più bella e degna la chiesa parrocchiale, rinnovando i banchi, la porta del Tabernacolo, i pilastri della chiesa, il sagrato e alcune vetrate. A tutti propone un impegno esigente, che tiene di pari passo la vita di fede e la formazione umana.

La sua vicinanza speciale è per i poveri del paese, a cui spesso provvede per migliorarne le cure e il vitto, ma anche, dovuta alla sua esperienza, per i soldati che partono per il fronte. Sul bollettino parrocchiale pubblica spesso le sue esortazioni ai fedeli, come quella per la solennità di Pasqua del 1939:

«Risorti per mezzo dei Sacramenti a nuova vita cristiana, procurate di non più ricadere nel male fuggendo le occasioni cattive. Come Dio vi ha perdonato, così siate generosi nel perdonare voi pure. Gesù è risorto per non più morire. Noi pure un giorno risorgeremo dalla tomba per vivere la vera vita per non più morire in eterno».

Il 1° luglio 1943 viene nominato curato di San Bartolomeo un prete novello di appena ventitre anni, don Mario Ghibaudo. Nato a Borgo San Dalmazzo, sempre in provincia di Cuneo, il 19 gennaio 1920, entra in Seminario il 1° ottobre 1929, alunno di quarta elementare. Tre anni prima, ricevendo la Prima Comunione, aveva avuto per la prima volta il pensiero di farsi prete.

Ha ottime doti intellettuali e studia con profitto, ma negli anni del liceo vive una profonda crisi. Riconosce i propri limiti, ma sa anche ricorrere ai mezzi soprannaturali per affrontarli. Scrive il 30 aprile 1937:

«Che la devozione a Maria mi salvi; finché voglio quello che vuole lei, sono salvo; ma sono debole; devo pregare, pregare; quest’oggi ho pensato qualche volta: domani la comunione per impetrare l’aiuto di Gesù e Maria».

Nelle vacanze estive, insieme al compaesano e compagno di studi Francesco Brondello, col quale condividerà l’ordinazione sacerdotale, si cimenta nella scalata ai monti cuneesi e valdostani e al Rocciamelone. Molto spesso, prima di cominciare l’escursione, va a confessarsi. Negli anni seguenti è impegnato nel servizio all’oratorio salesiano, poi come assistente dell’ultima classe del ginnasio. Il suo motto è «Fare tutto con entusiasmo»: se ne rendono conto i ragazzi che gli sono affidati, che incoraggia a compiere al meglio i loro doveri.

Il 19 giugno 1943 viene ordinato sacerdote. Aveva scritto in un tema, in prima Liceo, il 30 maggio 1937:

«Mi parrebbe impossibile il raggiungimento del nobile ideale di essere sacerdote se non fosse stato Iddio a designarmelo. […] Divenire Sacerdote, vivere da Sacerdote, morire da Sacerdote, ecco la sintesi delle speranze più care che concepisco per la mia vita!».

La destinazione a Boves avrebbe dovuto anticipare un periodo di studi a Roma: vi si getta con il consueto entusiasmo, dopo aver vinto l’iniziale smarrimento. Con don Giuseppe entra subito in sintonia, anzi, fa a gara con lui per ricordare più nomi di parrocchiani. Anche lui sente di dover essere d’aiuto ai soldati, sia ai bovesani al fronte, sia a quelli della caserma della Guardia alla Frontiera. Conosce Pierino Mantiero, un sergente vicentino, fratello di don Didimo, il quale ha fondato “La Dieci”, un’associazione, al tempo segreta, i cui membri si donano totalmente a Dio per la santificazione dei giovani, disponendosi anche ad accettare la morte come vittime. Anche lui vi si associa volentieri.

Il 9 luglio, poco dopo la nomina di don Mario a curato di Boves, l’esercito anglo-americano sbarca in Sicilia. A Boves arrivano le notizie della guerra, a cui don Giuseppe risponde a modo suo: in occasione della festa di sant’Antonio di Padova, al quale è dedicato un santuario nella stessa cittadina, indice una “solenne processione di penitenza”. Vorrebbe anche aggiungere, con lo stesso scopo, un pellegrinaggio diocesano per la posa della nuova croce monumentale sulla Bisalta, ma le autorità civili ritirano il permesso, a causa della caduta del governo Mussolini.

Anche don Mario non dimentica i suoi giovani al fronte. A loro scrive una lettera datata 4 settembre, incoraggiandoli a vivere, anche in grigioverde, il trinomio Preghiera, Azione, Sacrificio, caratteristico della Gioventù di Azione Cattolica di quegli anni: per lui è l’unico modo per riuscire vincitori dalle vere battaglie della vita.

Dopo l’armistizio, i soldati della caserma fuggono da Boves, dove, il 12 settembre, si stanziano i reparti delle SS guidati dal maggiore Joachim Peiper, uno dei principali collaboratori di Heinrich Himmler. Subito informato della situazione, comincia a dare la caccia ai “ribelli”, gli stessi per i quali don Mario, con altri sacerdoti collaboratori, prepara una rete d’informazioni, per farli sentire meno disorientati. Pedalando per chilometri in bicicletta, riesce a collegare vari paesi e anche a fare una visita ai suoi familiari: in quel modo, porta avanti la scelta per i più poveri, alla quale si sentiva vincolato, incoraggiando a fare lo stesso anche agli amici preti.

Il 16 settembre, il maggiore Peiper raduna in piazza gli uomini del paese e annuncia: i “ribelli” devono consegnarsi entro le 18 dello stesso giorno e restituire quanto hanno rubato, pena la rappresaglia. Un interprete traduce subito quelle consegne. Don Giuseppe sale a incontrare i fuggiaschi, i quali gli comunicano che non intendono lasciarsi catturare. Procede poi a trasferire il Santissimo Sacramento dalla chiesa parrocchiale alla cappella dell’Orfanotrofio femminile: non ha paura per sé, quanto per i paesani. Per la stessa ragione, rifiuta di partire per la montagna insieme ad altri uomini.

Domenica 19 settembre, dopo alcuni giorni di apparente tranquillità, uno scontro a fuoco tra tedeschi e “ribelli”, gli uni e gli altri venuti in paese a cercare provviste, provoca la morte di un mitragliere tedesco e la cattura di due ostaggi anch’essi tedeschi. La situazione precipita e i due preti ne sono consapevoli: don Mario va a confessarsi al santuario della Madonna dei Boschi, quindi celebra la Messa nella Confraternita di Santa Croce, con un fervore ancora più intenso del solito. Don Giuseppe, dal canto suo, torna dalle Clarisse per affidarsi alle loro preghiere.

Quindi viene convocato dal maresciallo dei Carabinieri e da un soldato tedesco, mandato da Peiper, per fare da ambasciatore e ottenere sia la liberazione dei due ostaggi, sia il cadavere del mitragliere. Insieme a lui parte Antonio Vassallo, un piccolo imprenditore di laterizi, che non si professa credente, ma apprezza l’opera del parroco per il paese. La missione riesce, ma il sacerdote e l’accompagnatore vengono trattenuti al comando tedesco.

Non molte ore dopo, i soldati, che hanno già fatto razzia dei gelati del Bar Bianco, passano agli alcolici. Nel caos che ne consegue, don Giuseppe riesce a parlare con qualche paesano, invitandolo a tornare a casa; benedice anche la salma del mitragliere. Viene poi raggiunto da don Mario, dal quale riceve l’assoluzione sacramentale. Infine, fa ancora in tempo a mandare un ragazzo dalle suore che si occupano delle orfanelle, per chiedere loro di mettersi in salvo. Insieme a Vassallo, viene fatto salire su un’auto blindata, per assistere alla distruzione del paese. Ormai non gli resta altro che aggrapparsi al suo Rosario, mormorare preghiere e benedire voltandosi a destra e a sinistra. I soldati lo malmenano, costringendolo a restare in piedi.

La sera di quella domenica, un mezzo delle SS scarica bidoni di benzina davanti alla porta di corso Trieste 4, vicino a piazza Italia, l’ultimo luogo dove don Giuseppe era stato visto vivo. Dall’androne della casa, alcuni testimoni affermano di aver sentito grida di dolore. Il giorno dopo vengono trovati due cadaveri carbonizzati: Vassallo viene riconosciuto da uno scarpone, mentre il parroco, del quale rimangono solo il tronco e la testa, viene identificato tramite la dentiera che il dottor Andrea Pancotti, dentista del paese, gli ha applicato pochi giorni prima.

Nel frattempo, don Mario non rimane a guardare. Percorre le vie del paese devastato, soccorrendo i feriti e confessando i moribondi. Carica perfino su un carretto un’anziana signora invalida, Maddalena Giubergia: l’affida a un chierico, poi cerca di tornare nel centro del paese, senza esito. Ritrova la signora e il carretto nei pressi di un viottolo, perché l’altro accompagnatore si è dato alla fuga.

Mentre la porta via, s’imbatte nella famiglia Agnese, composta dai nonni, da una zia e da due nipotini, uno dei quali malato di poliomielite. Un soldato aggredisce il bambino, ma dalla sua pistola non parte il colpo. Lo stesso soldato spara quindi al nonno, colpendolo alla nuca. Subito don Mario corre per dargli l’assoluzione, ma una raffica di mitragliatrice interrompe quel suo ultimo gesto. Dal verbale di accertamento del decesso vengono riscontrate altre sevizie e offese al suo cadavere.

Il bilancio finale dell’eccidio è di ventitre morti e circa trecentocinquanta case incendiate. Nei settant’anni seguenti, la comunità cristiana e civile di Boves ha attraversato un sofferto percorso di riconciliazione. Nel 1985 è diventata sede della “Scuola di Pace” per educare soprattutto i giovani.

Nel 2008 la parrocchia di San Bartolomeo ha avviato la raccolta di testimonianze su don Giuseppe e don Mario, guidata da quanto papa Benedetto XVI aveva dichiarato nella solennità dei santi Pietro e Paolo di quell’anno: «Il sangue dei martiri non invoca vendetta, ma riconcilia».

Alla riconciliazione è stato improntato un nuovo gesto: includere tra i nomi dei caduti del 19 settembre, letti durante la Messa, quello di Willy Steimetz, il mitragliere caduto nello scontro a fuoco. Nello stesso anno, la parrocchia di Boves si è gemellata con quella cattolica di Schondorf, presso Monaco di Baviera: in quel cimitero è sepolto il maggiore Peiper, riconosciuto colpevole dell’eccidio nel processo svolto nel 1964. Un altro frutto è l’iniziativa delle Lampade di Pace, nata a ridosso del Giubileo della Misericordia.

Quanto alla causa di beatificazione, l’inchiesta diocesana è stata celebrata dal 31 maggio 2013 al 5 giugno 2014. Essendo una causa antica o storica, poiché erano passati settant’anni dall’eccidio, è passata anche per l’esame dei Consultori Storici, il 3 aprile 2019. Quindi le altre tappe: il parere favorevole dei Consultori Teologi, il 4 maggio 2021, poi la Plenaria dei Cardinali e dei Vescovi dell’allora Congregazione delle Cause dei Santi, il 5 aprile 2022. Quattro giorni dopo, papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto sul martirio.

In molti, da sempre, hanno visto nelle parole con cui don Giuseppe preparava i parrocchiani alla festa del patrono san Bartolomeo, riportate nel bollettino parrocchiale del 18 agosto 1940, una prefigurazione di quel che sarebbe accaduto a lui e al suo vicario. Vale per loro, ma anche per gli autentici martiri di tutti i tempi:

«L’ideale del santo, del martire è questo: amare Dio, glorificare Dio in se stesso e nelle anime dei propri fratelli. […] Coll’esempio e con la parola diffonderà poi l’ardore dell’amore divino che invade il suo cuore. […] Nulla lo arresterà, né la povertà, né il disprezzo dei malvagi, né la prigione, neppure la morte lo tratterrà dal suo compito».

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15/10/2022
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