Chiesa

di Emilia Flocchini

Beata suor Maria Carola Cecchin, la “Madre Grande” dei poveri del Kenya

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Dopo i Beati Francesco Paleari e Luigi Bordino, è la terza candidata agli altari della grande famiglia fondata da san Giuseppe Benedetto Cottolengo a ottenere la beatificazione. È suor Maria Carola Cecchin, religiosa appunto delle Suore Vincenzine del Cottolengo, che visse impegnata nelle più umili incombenze, ma con lo sguardo rivolto alle realtà eterne.

Il Kinoru Stadium di Meru, in Kenya, è il luogo dove verrà celebrata alle 8 di domani ora italiana (diretta streaming sul sito della Piccola Casa della Divina Provvidenza - Cottolengo) la Messa presieduta dal cardinal Antoine Kambanda, Arcivescovo di Kigali, come delegato del Santo Padre.

Suor Maria Carola, al Battesimo, avvenuto due giorni dopo la sua nascita, si chiamava Fiorina. Era venuta alla luce, settima di dieci figli, a Cittadella, in provincia e diocesi di Padova, il 3 aprile 1877. Buona e laboriosa, aiutava in casa e nei campi, tanto che i genitori, Francesco Cecchin e Antonia Geremia, la indicavano come modello per gli altri suoi fratelli e sorelle. Frequentava la scuola e aveva molte amiche, con le quali trascorreva il tempo libero. Molto spesso, però, cercava la solitudine e la quiete nella sua chiesa parrocchiale: nel silenzio cercava di ascoltare la voce di Dio.

Diciassettenne e ormai in età da marito, partecipò a un corso di Esercizi Spirituali presso la casa di Cittadella delle Suore Dorotee di Vicenza. Una volta tornata e aver raccontato le sue conclusioni al parroco, confidò ai genitori di volersi consacrare al Signore. Da parte loro, pur provando un certo dispiacere, accettarono: in effetti loro stessi, specialmente la madre, le avevano sempre insegnato a seguire la volontà divina.

Fiorina, dunque, si presentò alla superiora generale delle Dorotee di Vicenza. Tuttavia, durante il colloquio, le sfuggì un colpo di tosse: fu frainteso come un segnale di salute debole, causando quindi il rifiuto a iniziare il cammino tra quelle religiose. La ragazza era dispiaciuta, ma sapeva che Dio avrebbe pensato a lei.

L’aiuto venne e non tardò, nella persona del suo direttore spirituale. Fu lui a suggerirle di presentarsi alla casa più vicina delle Suore Vincenzine del Cottolengo, situata a Bigolino, frazione di Valdobbiadene. Lì la prova andò bene: Fiorina sembrava tutto tranne che una ragazza fragile nel corpo e nello spirito, quindi parve una candidata adatta a quel genere di vita.

Il 27 agosto 1896, con quattro compagne, Fiorina arrivò alla Piccola Casa della Divina Provvidenza di Torino, la casa madre dell’opera del Cottolengo. S’impegnò immediatamente nello studio e nell’apprendere i servizi di carità tipici di quel ramo di religiose. Il 2 ottobre 1897, con la vestizione religiosa, cambiò nome in suor Maria Carola. Il 6 gennaio 1899, invece, professò i voti.

Secondo una testimone, in quel momento, pensando al cero che teneva nella mano destra, la neoprofessa ripeté a bassa voce una preghiera che le era molto cara: in essa chiedeva che il suo corpo si estinguesse completamente senza lasciare traccia e che la sua anima, emanando luce e calore, attraesse tante persone a far conoscere Dio.

Il suo primo incarico fu a Giaveno, come cuoca nel collegio affidato agli Oblati di Maria Vergine, ma non durò molto: fu subito richiamata in casa madre e assegnata alla cucina centrale. Proprio quelle cure materiali per la preparazione dei cibi furono il suo primo banco di prova: era attenta, precisa, pronta a intervenire se necessario. Quando poi portava il pranzo ai malati, trasmetteva loro la gioia che lei stessa provava. Cercava inoltre di soddisfare ogni esigenza delle consorelle che, per ragioni mediche, dovevano tornare a Torino.

Solo davanti al Tabernacolo, come quand’era ragazza, riusciva a recuperare le forze. Dalla Messa quotidiana trovava rinnovato stimolo a portare la carità di Cristo, secondo quell’espressione di san Paolo nella seconda lettera ai Corinzi che san Giuseppe Benedetto Cottolengo aveva assunto come motto della Piccola Casa e delle sue congregazioni.

Nei primi anni del Novecento, i Missionari della Consolata, fondati dal canonico Giuseppe Allamano, attualmente Beato, avvertirono l’esigenza di personale femminile per le loro missioni in Africa (al tempo non erano ancora state fondate le Suore Missionarie della Consolata). Chiesero quindi alla madre generale delle suore del Cottolengo di fornire loro alcune sorelle, scelte «tra le più casalinghe e buone massaie».

Suor Maria Carola rientrava decisamente in quella descrizione. Per questo la sua domanda, inoltrata il 19 marzo 1904 al superiore della Piccola Casa, fu accolta immediatamente. Scrisse tra l’altro:

«Ho sempre nutrito un grande desiderio di sacrificarmi per i poveri e sarei lieta se questi poveri fossero i neri dell’Africa. [...] Non ho mancato di pregare il Signore ad illuminarmi, ma sento aumentare in me il desiderio di essere missionaria! Il pensiero che potrò in qualche modo concorrere a far dilatare il Regno di Gesù mi riempie di riconoscenza verso di Lei e verso il Signore. Si degni notificarmi la volontà di Dio ed eccomi pronta a salpare il mare!».

Partirono in sei, il 28 gennaio 1905, dopo aver ricevuto il Crocifisso dal cardinal Agostino Richelmy, arcivescovo di Torino. Salpate da Trieste, giunsero a Mombasa, sulle coste meridionali del Kenya, dopo un mese di navigazione in piroscafo. Qualche giorno di riposo, poi partirono in treno per Limuru, a nord di Nairobi, la capitale.

Gli abitanti del posto osservavano con curiosità mista a stupore le nuove arrivate, con quegli abiti singolari e la carnagione bianca. Suor Maria Carola, invece, era di carnagione olivastra e di statura alta: per guardarla in viso dovevano quasi allungare il collo.

La casa delle suore era piccola e molto povera. Suor Maria Carola, per fare coraggio a se stessa e alle consorelle, proruppe nell’esclamazione che sarebbe diventata il ritornello della sua vita missionaria:

«Na bônamort a pagràtut»; «Una buona morte pagherà tutto»,

tradotto letteralmente dal piemontese.

Le suore dovevano occuparsi soprattutto delle visite ai villaggi: un’attività estenuante, da compiere ogni giorno e con ogni condizione meteorologica, con abiti che a volte s’inzuppavano d’acqua o di pioggia. In media incontravano una sessantina di persone al giorno, conoscendo a stento la loro lingua.

Dopo un mese trascorso così, suor Maria Carola, altre suore e alcuni missionari partirono per una nuova destinazione: la stazione missionaria di Tuthu, in un’impervia zona ai margini di una foresta. Per quattro anni operò come infermiera, cuoca e catechista. Provvedeva anche a cucinare per gli operai della segheria idraulica accanto al fiume Massoia, i quali aiutavano i Missionari della Consolata a produrre il materiale per arredare le casette in legno destinate alle stazioni missionarie. Il superiore della segheria, padre Francesco Cagliero, lasciò un ritratto di suor Maria Carola in questi termini:

«Noi abbiamo una Suora in cucina che è una vera madre. S’ingegna in tutti i modi a far uscire roba da tutti gli angoli. Siamo provvisti di tutto; si lavora volentieri, c’è la pace, speriamo che il Superiore non ce la rubi tanto presto!».

Nel 1909, però, suor Maria Carola ebbe l’incarico di superiora a Iciagaki. Di nuovo costretta a ricominciare da zero, rese più bella e vivibile la casetta delle suore. Nel governo della comunità, rivelò doti di buon senso e un alto e religioso senso del dovere.

Un anno dopo, eccola pronta a ripartire: destinazione Mogoiri, a circa settanta chilometri a nord di Nairobi. Anche lì, mostrò le sue migliori qualità, sia in cucina che nell’evangelizzazione, camminando per chilometri pur di visitare i malati e i poveri nei villaggi. Trovava comunque il tempo per restare da sola con Dio, per ripensare alle ragioni che l’avevano condotta lì:

«Perché, o Gesù, m’hai chiamata a essere Missionaria? Perché mi strappasti dalla diletta Piccola Casa? Perché fossi santa? Ebbene, santa voglio farmi, e a qualunque costo, perché se tale non sarò, vana sarebbe la mia vocazione».

Nel 1914 dovette di nuovo cambiare missione: raggiunse quindi Wambogo, proprio all’inizio della prima guerra mondiale. Gli uomini dei villaggi erano impiegati come carriers (“portatori”), per cui rimanevano solo le donne e i bambini, privi di ogni risorsa. A questo si aggiungeva l’influenza “spagnola”, che accumulava morti su morti.

Il suo ultimo campo di missione fu Tigania nel Meru, a nord-est di Nairobi, accompagnata dal suo costante ritornello, spesso canticchiato. La morte, in effetti, si avvicinava anche per lei: nel 1923 fu colpita da enterocolite sanguinante, dalla quale non si ristabilì del tutto.

Oltre ai problemi di salute, suor Maria Carola era preoccupata per le tensioni tra Missionari della Consolata e Suore Cottolenghine. Le prime suore erano rientrate in Italia nel 1919, ma lei intendeva rimanere finché le fosse possibile. Alla fine, però, obbedì all’ordine di rientro.

Nel corso del viaggio sul piroscafo Porto Alessandretta, suor Maria Carola si ammalò di nuovo in forma grave. Suor Crescentina, la consorella che era in viaggio con lei, consultò più volte il medico di bordo nel tentativo di salvarla, inutilmente. La invitò anche a pregare almeno perché potesse morire una volta toccato il suolo italiano, ma lei replicò:

«No, preghiamo che il Regno di Dio si estenda nei cuori nostri e nel cuore di tutti i fratelli. Se questo è nella gloria del Signore, ch’io non riveda la mia Piccola Casa, morirò in mare contenta».

Il 13 novembre (data nella quale è stata fissata la sua memoria liturgica) 1925, quindi, suor Maria Carola si spense come il cero della sua professione. Per ragioni igieniche, il suo corpo ebbe sepoltura in mare, tra Porto Sudan e Suez, ma non per questo fu trattato con tutti gli onori possibili: venne composto in un lenzuolo, avvolto nel materasso del suo letto, chiuso ai lati e sigillato con una stuoia; solo allora venne deposto tra le onde del Mar Rosso.

I Missionari della Consolata che avevano condiviso la sua missione furono addolorati dalla notizia della sua morte, ma allo stesso tempo erano sicuri che lei avesse portato a termine il volere di Dio. Gli abitanti dei villaggi che aveva visitato, invece, rimasero ignari della sua sorte, continuando però a ricordarla come “Mwari Mwega”, “Madre Buona”, o “Mwari Muraja”, “Madre Grande”, appellativo che si riferiva sia alla sua statura fisica, sia alla grandezza del suo cuore di missionaria.

A oltre novant’anni dalla sua fine, la vita di suor Maria Carola e le virtù da lei vissute furono esaminate nel corso del processo diocesano, svolto a Torino (ottenuto il trasferimento del Tribunale di competenza, che avrebbe dovuto essere quello della diocesi del Meru) dal 24 aprile al 7 ottobre 2014. Papa Francesco autorizzò la promulgazione del decreto sulle virtù il 23 novembre 2020.

Una delle fotografie di suor Maria Carola la ritrae con due neonati tenuti uno nella mano sinistra, l’altro nella destra. Proprio la nascita di un bambino in condizioni estremamente rischiose – su una Land Rover, durante un temporale, in assenza di particolari strumentazioni mediche – è il miracolo preso in esame per la beatificazione. Oggi Msafiri Hilary Kiama (quest’ultimo nome significa “miracolato”), che era nato morto, è invece vivo e in salute.

Suor Antonietta Bosetti, Suora del Cottolengo, ha tratteggiato il profilo della sua consorella nel libro Beata Suor Maria Carola Cecchin – Missionaria Cottolenghina in Kenya, uscito lo scorso aprile per l’editrice Velar.

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04/11/2022
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