Chiesa
di Emilia Flocchini
È beato padre Giuseppe Ambrosoli, il “grande medico” dell’Uganda
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La gente di Kalongo, nel nord dell’Uganda, ha aspettato oltre due anni prima di vedere la beatificazione di colui che chiamava “Doctor Ladit”, “grande medico”, ovvero padre Giuseppe Ambrosoli. Lo stesso vale per la diocesi di Como, che gli ha dato i natali, e per i Missionari Comboniani, l’istituto religioso di cui fece parte.
La celebrazione è infatti stata rinviata due volte a causa della pandemia da coronavirus, fino ad arrivare a domani, domenica 20 novembre. A presiederla a Kalongo è monsignor Luigi Bianco, Nunzio apostolico in Uganda, mentre Il Settimanale della Diocesi di Como seguirà la diretta in streaming sul proprio canale YouTube a partire dalle 10.30.
Giuseppe Ambrosoli nacque a Ronago, in provincia e diocesi di Como, il 25 luglio 1923, settimo degli otto figli di Giovanni Battista Ambrosoli e Palmira Valli. Il padre aveva trasformato lo stabilimento di famiglia, inizialmente basato sulla coltura dei bachi da seta, in una fabbrica, poi un’azienda, specializzata nella produzione di miele e caramelle. Anche la madre era di famiglia benestante: in più, suo padre era soprannominato “il medico dei poveri”.
Giuseppe frequentò le elementari in paese, a partire dai sei anni. Vivace e piuttosto intelligente, era però cagionevole di salute. Alle medie, frequentate a Como, le sue lacune scolastiche parvero così gravi da farlo inviare all’Istituto Calasanzio di Genova-Cornigliano, retto dai padri Scolopi. Vi frequentò il ginnasio, recuperando specialmente nelle materie scientifiche.
Divenne poi allievo del liceo ginnasio Volta di Como. Non brillava particolarmente tra i suoi compagni: i suoi principali interessi (tolto il tifo per l’Inter, o meglio, per l’Ambrosiana, come si chiamava all’epoca) erano quelli religiosi, cementati dall’adesione all’Azione Cattolica. Concluse gli studi nel 1942, senza un regolare esame di maturità: a causa della seconda guerra mondiale, infatti, non era stata inviata la commissione esaminatrice.
Non fu però la prima volta in cui la guerra fece irruzione nella sua vita. Riuscì a iscriversi alla facoltà di Medicina dell’Università degli Studi di Milano perché aveva già due fratelli al fronte, evitando il servizio militare, ma quando seppe che molti perseguitati politici, anche ebrei, cercavano di mettersi in salvo fuggendo in Svizzera, si adoperò per aiutarli; il confine, in effetti, distava pochi chilometri da casa sua.
Quando la Repubblica Sociale di Salò rese obbligatoria la leva anche per coloro che ne erano stati esentati, pena la morte, lui stesso cercò di espatriare. Secondo quanto ha raccontato il fratello minore Alessandro alla figlia Giovanna, la motivazione reale di quella fuga era perché i tedeschi sapevano che lui aiutava gli ebrei.
Rientrò in Italia quando seppe che la sua famiglia era stata minacciata di ritorsioni: fu però arrestato tra Ponte Tresa e Luino, insieme a un suo amico, Mattiroli. Quest’ultimo riuscì a inviare un biglietto per avvisare la famiglia di Giuseppe del pericolo: a differenza sua, partì per il campo di smistamento di Fossoli e non fece più ritorno.
Giuseppe, grazie all’intervento del fratello Carlo, riuscì ad aver salva la vita, ma a una condizione: essere arruolato nei servizi di sanità delle truppe repubblichine. Dopo un mese all’ospedale militare di Baggio, partì dunque per l’addestramento vero e proprio.
Nel periodo trascorso in Germania, precisamente a Heuberg-Stetten, consolidò la propria vocazione e la riferì ai commilitoni: laurearsi, specializzarsi in malattie tropicali e diventare sacerdote missionario. Alla fine della guerra, riuscì a tornare a Como con mezzi di fortuna. Riprese l’università e si laureò in Medicina il 18 luglio 1949.
All’incirca nello stesso periodo, bussò per la prima volta alla porta dei Comboniani di Rebbio. Aveva pensato, in effetti, di entrare nella Compagnia di Gesù: i Figli del Cuore di Gesù, come si chiamavano in quegli anni, offrivano però maggiori possibilità per l’invio immediato in missione.
Nel suo discernimento ebbe grande parte l’adesione al Cenacolo, un’associazione interna all’Azione Cattolica di Como, fondata da don Silvio Riva. Almeno una ventina di giovani uomini soci, nel giro di due anni, partirono per il Seminario diocesano o per la formazione religiosa.
Per un breve periodo, Giuseppe ebbe anche l’incarico di vicesindaco di Ronago, nelle file della Democrazia Cristiana. Suo padre era stato sindaco negli anni della sua infanzia; un fratello, Valentino, l’avrebbe accolto in quella veste il giorno della Prima Messa in paese. L’ideale che lo muoveva era il medesimo che lo conduceva nell’apostolato in Azione Cattolica. Scrisse infatti durante gli Esercizi Spirituali del 1947:
«Devo comprendere che l’apostolato non è solo quando vado in propaganda, ma in tutti i momenti posso fare apostolato. […] Non basta che gli altri mi dicano democristiano; devono sentire l’influenza del Gesù che porto con me; devono sentire che in me c’è una vita soprannaturale espansiva ed irradiantesi per sua natura».
Nel 1951, dunque, iniziò la formazione nell’allora noviziato di Gozzano. Per i tempi, la sua era una vocazione adulta: faticava ad adattarsi alla vita austera della comunità, a differenza dei compagni più giovani che venivano dalla Scuola Apostolica e dal Seminario minore.
Nella Messa di mezzanotte del 25 dicembre 1951 compì la vestizione. Negli anni seguenti continuò ad allenarsi nell’obbedienza, nella disciplina e nell’accettare la correzione da confratelli e superiori. Fu anche incaricato dell’infermeria, compito che svolse con delicatezza e cogliendo ogni occasione per imparare tecniche nuove.
Il 9 settembre 1953 emise la professione religiosa; il giorno dopo la prima professione, fratel Giuseppe intraprese gli studi teologici nella comunità comboniana di Venegono Superiore (in provincia di Varese e in diocesi di Milano). Di pari passo, iniziò anche la pratica chirurgica nel vicino ospedale di Tradate.
Le tappe verso il sacerdozio ebbero invece luogo quasi tutte nel Duomo di Milano, celebrate dagli arcivescovi o dai loro ausiliari. Infine, fu il cardinale arcivescovo Giovanni Battista Montini a ordinarlo diacono il 6 novembre 1955 e sacerdote il 17 dicembre seguente, sempre nel Duomo di Milano. Il novello sacerdote era stato richiesto per la missione di Kalongo quando non aveva ancora finito gli studi: li avrebbe conclusi una volta giunto a destinazione.
Padre Giuseppe arrivò in Uganda sul finire di febbraio 1956. Dovette occuparsi di costruire da zero il nuovo ospedale di Kalongo, sia dal punto di vista amministrativo, sia delle strutture. I Comboniani avevano infatti aperto un dispensario nel 1943, a cui si era affiancato, nove anni dopo, un reparto di maternità.
Dovette anche seguire un corso di un mese all’ospedale di Mulago, a Kampala, per vedersi riconosciuta la laurea conseguita in Italia. In quel modo, poté ottenere l’apertura della «St. Mary Midwifery training school», ovvero della scuola di formazione per ostetriche, avvenuta nel 1956. Alla fine del 1959, l’ospedale di Kalongo poteva essere definito a buon diritto il primo ospedale cattolico del nord Uganda.
Le persone del popolo Acholi e Karimojong, stanziate appunto nel nord dell’Uganda, furono il principale oggetto delle cure di padre Giuseppe. All’ospedale erano trattate malattie di ogni genere, con soluzioni spesso all’avanguardia per quelle zone. In particolare, padre Giuseppe dava grande importanza alla medicina interna, anche se doveva frequentemente ricorrere alle operazioni chirurgiche.
Cercava di essere molto delicato soprattutto con le donne, intervenendo per aiutarle ad avere figli, nel rispetto della mentalità locale che dava grande spazio alla fertilità femminile. Non sempre i suoi interventi riuscivano perfettamente: ne soffriva, ma cercava di non farsi vedere mentre piangeva.
Aprì il suo raggio di azione anche ai lebbrosi, con operazioni che li aiutassero a riguadagnare un po’ della dignità perduta. Nel 1972 l’Amministrazione sanitaria dell’Uganda affidò alle sue cure il “Leprosy Control”, un servizio a cui erano iscritti circa ottomila lebbrosi di cinque regioni.
A quanti si offrivano di venire a Kalongo ad aiutarlo, ma anche ai colleghi e agli infermieri locali, chiedeva alcuni requisiti essenziali:
«Volontà decisa di lavorare per la diffusione del regno di Dio, non ricercando che lui solo e in croce; spirito di sacrificio; buona preparazione tecnica».
Anche il fondatore del suo istituto, san Daniele Comboni (all’epoca ancora Servo di Dio), aveva voluto che i suoi religiosi fossero al tempo stesso santi e capaci.
Nel giro di pochi anni, la gente cominciò a chiamarlo “Ajwaka Madid” (“lo stregone bianco”), oltre che “Doctor Ladit”. Lui, però, rifuggiva gli onori, gli elogi, le onorificenze ed essere messo in risalto. Questa umiltà si accompagnava a un carattere gioviale, che cedeva il posto alla serietà solo quando le cose volgevano davvero al peggio.
Riconosceva i propri limiti e s’impegnava a riflettere su come migliorarsi nel rapporto con i pazienti. Ad esempio annotò, il 3 settembre 1957, durante gli Esercizi spirituali presso il Seminario di Gulu:
«È importante che io faccia un proposito sulla carità verso gli africani nella mia funzione di medico: io non li tratto con quella carità che loro desidererebbero e si aspettano da me, medico e missionario. Più pazienza, più comprensione. Farò questo, oggetto dell’esame particolare, per qualche tempo. Devo cercare di impersonare in me il Maestro quando curava i malati che venivano a lui».
Inoltre, riusciva a conciliare l’impegno da medico con il ministero sacerdotale. Quando celebrava la Messa, secondo molti testimoni, sembrava quasi estasiato. Era felice di andare a celebrare anche fuori Kalongo e, nei limiti del possibile, riusciva anche a confessare molti fedeli. Non parlava molto bene la lingua Acholi, ma riusciva ugualmente a farsi capire: la gente lo ascoltava con rispetto e attenzione, forse più di quanto faceva con altri predicatori.
Aveva una predilezione per la preghiera del Rosario: a un amico scrisse che recitarlo la sera, sotto il cielo africano, era un’esperienza indescrivibile. Al Rosario si aggrapperà anche più tardi, quando la malattia e altre prove verranno a rovinare, ma non a distruggere, quanto aveva cercato di costruire.
Tornò più volte in Italia, ma più che nelle vacanze, quei giorni per lui erano spesi in aggiornamenti, visite nelle sale operatorie, incontri con i benefattori dell’ospedale. A fine 1973, tuttavia, il suo rientro fu per ragioni di salute: subì un intervento per lombosciatalgia sacrale, all’ospedale Sant’Anna di Como.
Dieci anni circa più tardi, ovvero nel 1982, fu di nuovo costretto a rientrare: il collega Piero Corti, del Lacor Hospital di Gulu, gli aveva indicato di non trascurare più i continui malanni di cui soffriva. La ragione profonda di quei malesseri era legata a una pielonefrite acuta, come emerse durante il suo ricovero a Tradate: un rene non funzionava più, mentre l’altro aveva una funzionalità pari al trenta per cento. Padre Giuseppe cercò di trovare il lato positivo: avrebbe potuto pregare con calma anche durante il giorno.
Ai problemi di salute si aggiungevano, col passare degli anni, quelli dovuti ai vari regimi militari che avevano il potere in Uganda. L’opera dei missionari veniva più volte ostacolata, anche in riferimento al passato colonialista degli occidentali, italiani compresi. Si succedevano continui scontri tra le milizie ribelli e l’esercito regolare, anche a Kalongo.
Dal canto suo, padre Giuseppe resistette fino al 1986, che per sua stessa ammissione fu l’anno più difficile della sua vita. In una lettera circolare risalente a quell’anno, riassunse quello che sentiva essere il compito suo e dei missionari rimasti:
«A noi resta di stare qui ad aiutare tutti quelli che possiamo, pregando il Signore che illumini gli animi e i cuori».
L’atto finale dell’opera comboniana a Kalongo avvenne il 30 gennaio 1987, con l’ordine di evacuazione emanato dalle autorità militari. L’ospedale fu sgombrato del tutto, per evitare che i ribelli si appropriassero soprattutto di cibo e medicine. Due settimane dopo, il 13 febbraio, un convoglio composto principalmente da camion militari si mosse, in direzione Lira.
Padre Giuseppe fu realmente addolorato della partenza. Aveva cercato fino all’ultimo di mettere in salvo il personale medico occidentale e, una volta arrivato a Lira, si adoperò perché la scuola per ostetriche trovasse una nuova sistemazione nel West Nile. Era sempre più grave, ma ottenne di poter rinviare ancora quello che, ne era certo, sarebbe stato il suo rientro definitivo in Italia.
Il 20 marzo, durante la Messa presso lo studentato comboniano di Kampala, si sentì male. Poco prima, aveva parlato di quanto era accaduto come di un «amato fallimento», riecheggiando Charles de Foucauld. Si sentiva particolarmente affine alla sua spiritualità: dopo averla scoperta nel 1980 leggendo i testi di René Voillaume, si sentiva come convertito. In realtà, viveva già gli insegnamenti di quel Santo, specie attraverso la ricerca dell’ultimo posto, l’impegno nel lavoro, il sacerdozio visto come mezzo per far arrivare Gesù sulla terra anche tra i popoli più abbandonati.
Il 22 marzo celebrò l’ultima Messa, quindi si mise a letto per non rialzarsi più. Ricevette gli ultimi Sacramenti, passando da momenti di apparente ripresa ad altri di amara consapevolezza circa la propria imminente fine. Eppure veniva udito mormorare parole come:
«Accetto tutto…».
Probabilmente citava la “Preghiera dell’abbandono” di san Charles de Foucauld, che teneva nel suo Breviario e, soprattutto, che aveva fatto davvero propria.
Poco dopo le 13 del 27 marzo ebbe il collasso definitivo. Padre Mario Marchetti, che gli aveva portato la Comunione, lo sentì pronunciare distintamente:
«Signore, sia fatta la tua volontà»,
poi, con voce quasi impercettibile:
«…fosse anche cento volte».
Cinquanta minuti dopo, esalò l’ultimo respiro. Fu sepolto a Lira, accanto ad altri confratelli, ma sette anni dopo venne traslato nel cimitero di Kalongo, con una celebrazione dai toni festosi, quasi come se fosse davvero tornato a casa.
Nel frattempo, nel 1989, i Comboniani erano tornati a Kalongo, scoprendo, con meraviglia, che l’ospedale non era andato distrutto. Il 16 marzo 1990 ridiedero vita anche alla scuola di Ostetricia. Oggi la loro opera è sostenuta dalla Fondazione Dr Ambrosoli Memorial Hospital, che ha sede a Milano e della quale è presidente Giovanna, la figlia del fratello Alessandro.
La causa si è svolta, nella fase diocesana, a Gulu, dopo aver ottenuto il trasferimento di competenza dal Tribunale ecclesiastico della diocesi di Lira. Si è resa necessaria anche un’inchiesta rogatoria a Como, per quanto riguardava gli anni della sua giovinezza. Il decreto sull’eroicità delle virtù è stato promulgato da papa Francesco il 17 dicembre 2015.
Il miracolo scelto dalla Postulazione e convalidato col relativo decreto riflette la protezione che il “Doctor Ladit” continua a dare, anche se in modo diverso rispetto a quando era in vita, specialmente alle donne in attesa di un figlio.
Lucia Lomokol, di Irriir, è stata infatti dichiarata guarita da shock settico secondario da corioamnionite purulenta putrefattiva, tromboflebite pelvica e tromboflebite profonda della grande safena dell’arto inferiore sinistro con dermatite gangrenosa della metà inferiore della gamba. La sanazione è avvenuta dopo che il medico che l’aveva in cura aveva posto, dopo averle chiesto il permesso, un santino di padre Giuseppe sulla testiera del suo letto.
Sulla tomba che ha ospitato i resti mortali del nuovo Beato, oltre alla sua triplice qualifica di missionario, sacerdote e medico, era stata posta una frase (in inglese) che lui spesso ripeteva e che costituisce ancora oggi la migliore sintesi del suo operato:
«Dio è amore e io sono il suo servo per la gente che soffre».