Storie
di Fabio Annovazzi
CON INNI E DOLCI CANTI RISUONI SOAVE IL NOSTRO CORO
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Sono oramai trascorsi ventisei anni del cammin di nostra vita da quell’uggioso ottobre 1996 in cui bighellonavo nelle varie bettole vallari trascinando la vita nella ricerca impetuosa di darle un senso. Se sono riuscito a costruire uno straccio di avvenire alla mia esistenza lo devo soprattutto ai vari puntelli che, mano a mano, mi hanno aiutato a sorreggere le impalcature di un edificio altrimenti parecchio scricchiolante. Le radici si sono avvinghiate alla roccia di una scala musicale in chiave di basso, e da lì la piantina è cominciata a crescere pian piano portando anche frutto. Non sarà un bel fusto da vedere, ne un cedro del Libano alto e impetuoso, ma comunque, tra una siccità pesante e una piena improvvisa, il cocciuto albero cerca di resistere alle intemperie dell’esistenza. Oddio, ripensandoci, in quel lontano autunno la mia idea di musica era differente, virava proprio su un'altra scala, le armonie che prediligevo distavano anni luce da gregoriano e salti di ottava. Se vi è stato un cambiamento non è stato certo repentino ma graduale, fino a farmi assaporare melodie celestiali che sono state di gran conforto nelle amarezze giornaliere e stimolo nel non gettare la spugna. Dicono che cantare sia come pregare alla seconda. Sbagliano, certe armonie sono un vero e proprio anticipo di paradiso, e se è vero che senza api la terra avrebbe poca durata, senza musica saremmo già da tempo divenuti una propaggine orrenda dell’inferno in cui l’unico suono è un gracchiare reiterato di immondizie acustiche. Il problema vero è che, come asseriva a suo tempo il grandioso scrittore inglese K.G. Chesterton, in mezzo a tante meraviglie (del pentagramma) non sappiamo più provare meraviglia. Offuscati da una mediocrità disarmante, assordati da suoni striduli, il nostro udito sta perdendo un incanto a sette note tramandato da secoli, che ha allietato, ed allieta, l’uomo nella sua breve esistenza. Vi è una grande differenza tra vivere e vivacchiare, tra cantare e canticchiare, e come per divenire uomini veri (e non omuncoli) bisogna passare attraverso il crogiuolo spesso arduo del quotidiano, così per poter usare la voce in modo armonioso e intonato occorre sciropparsi un settimanale allenamento fatto di prove assai ostiche, con sbavature e cantonate che sono all’ordine del giorno. Cantare è come vivere la vita, non si ha mai finito di imparare. Chi si sente arrivato non fa i conti con l’oste e le ricadute poi sono fragorose e dolorose; l’umiltà dovrebbe essere buona consigliera nel non fare gli spocchiosi, special modo quando si è dei semplici amatori di bemolli e diesis. In questo avvicinarsi al Santo Natale sono migliaia i coristi che stanno preparando con circospezione le ugole per dare un caloroso e decente benvenuto al Dio che si fa carne; tantissimi i maestri impegnati a dare le giuste direttive, le indicazioni corrette, gli attacchi puntuali, gli sproni necessari. In 25 anni di attività corale ho avuto la grazia di essere diretto da due maestri che portano lo stesso nome di battesimo, Fabrizio. Più che insegnanti di musica sono stati dei veri e propri rivoluzionari, nel senso che hanno
sconquassato in meglio la mia vita, portando luce nelle tenebre e fede in un ateismo serpeggiante,
non finirò mai di ringraziarli ed essergli riconoscente. Questo mondo canoro che frequento da
decenni porta in sé un qualcosa di sublime, una ricerca del bello e del buono in un’epoca appiattita
nel più bieco conformismo tenebroso dove pseudo musicanti da strapazzo, che non sanno
nemmeno dove sia sito il LA sulla tastiera, impartiscono lezioni erigendosi a professori di
conservatorio. Stonano e gracidano di brutto, ma il loro fare da pifferai magici li rende attraenti, e
una pletora di giovani e giovanissimi li adula in maniera disarmante. Se sapessero cosa portano
realmente nel cuore fuggirebbero inorriditi per il disgusto e il lezzo emanato, le maschere che
abilmente indossano infatti non coprono un animo tetro e infingardo. Cattivi maestri da cui
scappare a gambe levate. Ma lasciamoli nel loro brodo maleodorante e guardiamo alla Luce vera
che viene a illuminare ogni uomo, senza lasciarci distrarre dall’oscurità. Occorre dare
un’accoglienza coi fiocchi al Bambinello in arrivo. Ora come non mai serve un cuore aperto alla gratitudine per la sua Santa Famiglia. Per cui scaldiamo la voce, facciamo dei noiosi ma necessari solfeggi (anche se ogni tanto viene proprio voglia di mandarlo al diavolo questo solfeggio…), teniamo saldo in mano lo spartito, o meglio ancora cantiamo a memoria, e lasciamoci guidare da emozioni musicali uniche di chiara ispirazione divina. Le corde vocali vibrino delicatamente per un’ode di ringraziamento dolce e soave; già lo musicava mirabilmente Georg Friedrich Handel nel suo capolavoro del Messiah: “FOR UNTO AS A CHILD IS BORN!!!”
Buon Natale al mio coro Polifonici Gogìs, buon Natale alla moltitudine di cori del mondo, buon Natale a tutti!