Chiesa
di Tommaso Ciccotti
Mafia, 30 anni fa l’anatema di Papa Wojtyla
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« Quel che disse il Papa ebbe un effetto deflagrante e io sono convinto che la mafia con gli attentati a San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro volle vendicarsi delle parole pronunciate dal Pontefice nella Valle dei Templi». A 30 anni dall’anatema contro i mafiosi lanciato da ad Agrigento, monsignor Carmelo Ferraro, che il 9 maggio del 1993 era vescovo della città
Intanto perché sceglieste la Valle dei Templi? «Pensammo a lungo a dove organizzare l’incontro dei fedeli col Papa. Io lo avevo già ospitato a Tindari: prima di andare ad Agrigento sono stato per 10 anni vescovo di Patti. Era venuto al santuario della Madonna durante una visita a Messina. Dunque avevo già una esperienza di eventi simili e scelsi la Valle dei Templi per la meraviglia che suscita la sua bellezza. E poi i greci erano religiosi e i templi per loro rappresentavano non solo un luogo di culto, ma anche di aggregazione. Insomma c’erano una serie di elementi, primo la suggestione del luogo, che ci indusse a optare per quella location. Ricordo che volevamo ci fosse l’erba, ma siccome perdemmo tre mesi, perché la Soprintendenza ci fece attendere per i permessi e la burocrazia, quando finalmente arrivò il 9 maggio l’erba non c’era più».
Lei era stato messo al corrente delle durissime parole che il Papa avrebbe rivolto agli uomini della mafia? Di quel «nel nome di Cristo convertitevi, una volta verrà il giudizio di Dio»? «Certamente avevamo discusso con il Pontefice della terribile situazione che la Sicilia, e in particolare la città di Agrigento, viveva in quel periodo. Parliamo di anni in cui contavamo i morti ammazzati, arrivammo a 300. Ogni settimana c’era un omicidio. Durante gli incontri che allora ogni vescovo aveva periodicamente con il Santo Padre si era discusso di quel tumore maligno che è la mafia».
Quindi lei contesta l’immagine di una Chiesa inerte e in qualche modo preparaste la strada al Papa. «Assolutamente. Forse all’epoca a essere inerte era lo Stato che in qualche modo si era arreso». Però, nonostante voi aveste lavorato con i fedeli, le parole di Giovanni Paolo II ebbero una forza innegabile. «Certo. E poi il Papa non ha mai commesso l’errore di generalizzare e ha saputo distinguere tra il popolo siciliano e la mafia. Disse: “ Il popolo siciliano che ama la vita non può vivere sotto la pressione di una civiltà della morte. Ci vuole la civiltà della vita nel nome di Cristo che è via verità e vita”. Cioè seppe capire che da una parte c’erano i mafiosi, dall’altra i siciliani che specie in quegli anni erano impauriti, temevano le ritorsioni, le vendette della mafia e chiedere loro di denunciare, di uscire allo scoperto voleva dire non capire il clima di terrore che stavano vivendo. E devo dire che non usò parole oltraggiose nemmeno verso i mafiosi. Cioè fu fermo, ma mai offensivo». Quale momento ricorda con più emozione di quella giornata? «Certamente quando disse “Dio ci ha dato il comandamento di non uccidere e nessuno può calpestare il diritto di Dio” e invitò i mafiosi a pentirsi perché ci sarebbe stato per loro il giudizio di Dio. Un riferimento quasi manzoniano, detto con una intensità che suscitò un applauso di 15 minuti». Durante la sua attività pastorale negli anni tragici della guerra di mafia si è mai sentito isolato? «Mai. Lavoravo alla formazione dei sacerdoti, cercavo di agire sul fronte dell’educazione e della comprensione perché se non si comprende pienamente, certi fenomeni non si combattono. Ad esempio se non si capisce che in certi ambienti il mafioso veniva visto come colui che risolveva problemi che lo Stato non riusciva a risolvere non si può capire il consenso di cui la mafia godeva. Specie nei paesi». Poco dopo il discorso del Papa la mafia uccise don Puglisi e ci furono gli attentati del ’93. Lei pensa che ci posa essere un nesso? «Sicuramente le bombe a San Giovanni e a San Giorgio al Velabro furono una risposta al discorso del Pontefice. La mafia vive di vendetta. L’omicidio di padre Puglisi fu poi una risposta chiara al suo operato: don Pino praticava la cultura della vita e cercava di far crescere i ragazzi del quartiere come figli di Dio e i boss non potevano accettare che un sacerdote attirasse a sé e allontanasse da loro i giovani». Lei è mai stato minacciato per le posizioni prese contro la mafia? «Posso dirle che non ho mai avuto paura. Delle minacce non è mia abitudine parlare».
Quindi l’anatema contro gli uomini del disonore non la sorprese… «Per amore della verità vorrei precisare una cosa. L’intervento di Giovanni Paolo II fu preceduto da un gran lavoro che dalla fine degli anni 70’ fecero i vescovi siciliani. Io mi sento di smentire l’immagine di una Chiesa che prima del discorso della Valle dei Templi era sorda, muta e cieca. Nella mia diocesi io ho cominciato a scrivere testi per la catechesi e a organizzare incontri con i fedeli ribadendo principi come “ama il prossimo tuo come te stesso”, che sono assolutamente incompatibili con i disvalori mafiosi. L’intento era una sorta di rieducazione della popolazione. Ricordo che pubblicammo un libricino sul tema, che spesso convocavamo la comunità per affrontare problemi che certo non si potevano tacere. Parliamo di centinaia di morti ammazzati. Ricordo che mi rivolsi direttamente ai mafiosi e scrissi: “per amore di Dio fermatevi, non posso dirvelo guardandovi negli occhi perché vi nascondete, ma fermatevi».