Il film più visto dell’anno e certamente il più esaltato dai commentatori è quello di Paola Cortellesi. Si intitola C’è ancora domani. Parla di una donna nel 1946 vessata violentemente dal marito, interpretata dalla stessa autrice, ma anche dal suocero in quella che viene rappresentata come la famiglia tipo del secondo dopoguerra. Il marito è interpretato da Valerio Mastandrea che restituisce con grande capacità attoriale il ritratto di un maschio odioso e aggressivo, facendo attenzione che nulla possa mai risultare anche solo minimamente giùstificabile o “simpatico”, nel senso etimologico del termine. È l’intenzione esplicitamente dichiarata dalla regista, quel marito deve essere odiato dallo spettatore, che deve empatizzare solo con la Cortellesi, con la figlia, con la donna già emancipata (una bravissima Emanuela Fanelli). Obiettivo pienamente riuscito. Si esce dalla visione del film pensando che l’Italia era patriarcale, violenta verso le donne, discriminatrice e che in fondo lo è tuttora (leggere su Repubblica l’inevitabile commento di Concita De Gregorio: “Il film della Cortellesi riguarda tutte noi, qui ed ora”).
La Cortellesi gira questo film in bianco e nero ma già si era esercitata sul tema in pellicole a colori dallo stesso tenore con altri registi. Per il compianto Mattia Torre aveva interpretato lo stesso ruolo di moglie di Valerio Mastandrea in Figli, film di cui scrissi quando uscì che provava a raccontare quanto tragica fosse la nascita di un secondo figlio in una coppia del ventunesimo secolo, in cui il maschio è sempre narrato come vessatorio perché poco collaborativo. Prima di essere regista la Cortellesi è stata diretta dal marito regista Riccardo Milani in altri film in cui il marito è un violento avanzo di galera (Claudio Amendola in due pellicole della saga Come un gatto in tangenziale) o un mezzo idiota nell’iter di una separazione (Mamma o papà?). Non c’era bisogno insomma di ascoltare Paola Cortellesi dichiarare che “bisognerebbe fare lunghe feste per un traguardo individuale raggiunto, non per un matrimonio, per il matrimonio dovrebbe bastare un rapido brindisi” per capire che la weltanschauung dell’autrice di C’è ancora domani è intrisa di antifamilismo. Persino nel registro della commedia più decisamente comica, penso a Un boss in salotto, il marito è descritto come una sorta di scemo vessato da datori di lavoro e ipocrisie di varia natura.
Mentre guardavo C’è ancora domani mi convincevo della bravura dell’attrice e anche dell’autrice. Il brainwashing aveva effetto persino su di me, volevo uscire dal cinema e dichiararmi femminista ieri, oggi e per sempre. Poi mi sono ricordato di Mario Adinolfi. Voglio parlarvene un attimo. Non ho la potenza di fuoco di Paola Cortellesi, non ho tutte le tv pronte ad ospitarmi per illustrare la mia idea, non ho tutti i giornali pronti a pubblicare interviste in ginocchio e commenti alla Concita, ma ho queste poche righe da dedicare non a me stesso, avete capito male. A mio nonno, Mario Adinolfi, nato a Salerno l’11.11.11, maschio e bianco e pure meridionale, bambino nella prima guerra mondiale, poi soldato nella guerra d’Africa e nella Seconda guerra mondiale, inevitabilmente fascista, ma senza entusiasmo o furore ideologico. Così, perché erano tutti fascisti a vent’anni negli Anni Trenta.
Sono coetaneo di Paola Cortellesi, che compie cinquant’anni a giorni (auguri) e dice di essersi ispirata ai ricordi di nonna. Dev’essere vero, mi sono ritrovato in molte frasi, nella gelosia (bella la scena della cioccolata donata dagli americani che scatena la reazione del marito) e in quell’accenno di giustificazione (“ha fatto due guerre”) che è l’unica pallidissima attenuante offerta al personaggio odioso di Mastandrea. Mario Adinolfi ha combattuto in due guerre, ha visto cose insopportabili e per noi semplicemente impensabili. Non ne voleva parlare, aveva introiettato il pudore di Eduardo De Filippo, a cui somigliava in movenze e accento. Sapeva che c’era qualcosa di dolorosamente incomparabile tra la quiete attuale e quel che aveva vissuto, lo lasciava nel non detto e nell’incomunicabile. Pretendeva ordine in famiglia, sì. Aveva avuto cinque figli, doloroso perdere il primogenito sotto i bombardamenti, nacquero poi mio padre e le sue tre sorelle. Mia madre è del 1946, viene invece dall’Australia, si imbarca su una nave a Sydney e si innamora del modello di famiglia meridionale incarnata da mio nonno, mia nonna e i suoi figli, in Australia non torna più perché il dolore per i suoi genitori divorziati lo trova lenito dalla famiglia unita di mio padre che diventa suo marito.
Dovessi girare io il mio film sui racconti di Mario Adinolfi, dovrei raccontare di un nonno che era stato sottufficiale dell’esercito, poi impiegato delle Poste, che aveva moglie e figli, ma soprattutto figlie, che teneva in ordine l’equilibrio familiare anche con severità, sì me lo ricordo anche in momenti di durezza. Era un capofamiglia nato all’inizio del ventesimo secolo, con quello scherzo dell’undicinovembremillenovecentoundici come data di nascita e tatuaggio del destino, d’altronde a mio padre toccò nascere il 1 aprile e voi capite che sembrava accanimento. Ricordo tante risate, tanta simpatia. Ricordo nonna che continuamente lo rimbrottava, portandogli però amore e rispetto. Nonna obbediva a nonno, è vero. Questo è il patriarcato? Se lo è restituitemi quell’armonia, i due non erano infiammati di passione, ma si volevano sinceramente bene, anche se non passava giorno senza una litigata e alla fine del bisticcio la spuntava nonna e nonno Mario prendeva una pillola e mi guardava con quel lampo di intelligenza che gli spuntava negli occhi dicendo: “Chest’ è a pillul’ da’a strafuttenza”. La pillola per fregarsene delle piccole discussioni e degli esiti che sempre volgevano a favore di mia nonna.
Ah, a proposito. Mia nonna Ielma Adinolfi (io mi chiamo come mio nonno, mia sorella che poi si sarebbe suicidata aveva il nome di mia nonna) nel 1946 lavorava, era impiegata alle poste pure lei, come il marito. Mario Adinolfi dopo la guerra arrivò fiacco, privo di qualsiasi ambizione. Attese il minimo di contributi per potersi pensionare e lo fece, mia nonna fece in tempo a diventare il suo superiore e fece pure una piccola carriera impiegatizia nell’ufficio di Salerno. Anche le donne del sud nel 1946 sapevano emanciparsi, non c’era bisogno di attendere il diritto di voto del 2 giugno. C’è ancora domani lo disse anche mia nonna, andò a votare come il personaggio della Cortellesi il 3 giugno perché i postelegrafonici il 2 giugno 1946 erano tutti ai posti di lavoro per permettere l’avvio corretto delle procedure elettorali per la Costituente e per il referendum monarchia-Repubblica. Mario Adinolfi votò per la monarchia, mia nonna pure, il meridione d’Italia era prevalentemente monarchico.
Mia madre lasciò il suo lavoro, sul modello certamente imperfetto della famiglia meridionale di Mario e Ielma Adinolfi fondò da australiana sessantottina che aveva preso una nave dall’altra parte del mondo a ventun’anni, una famiglia “all’italiana”. Che per lei, emancipata negli Anni Sessanta molto più di Concita nel 2023 tanto da girarsi il mondo su una nave con pochi spiccioli e un’amica, significava mettere su una famiglia unita “finché morte non ci separi”. C’è riuscita. Non ha mai più lavorato, ha cresciuto i figli in un contesto per questo “patriarcale”? No, come nonno Mario e nonna Ielma mia madre e mio padre discutevano perennemente, litigavano anche, papà era geloso, lo era pure a settant’anni poco prima di morire. E io ho sempre trovato la sua gelosia tenerissima.
Oggi sono geloso io, dico sempre a mia madre che non si sognasse di trovare un nuovo compagno. Sono patriarcale? No, proteggo i miei ricordi. Il ricordo di quello che mise su Mario Adinolfi, bambino nella prima guerra mondiale, soldato in due guerre, marito e padre secondo lo schema per alcuni insopportabile della famiglia che veniva prima di tutto e andava guidata oltre che salvaguardata, principalmente con l’esempio nonostante il dolore sordo derivante dalle esperienze terribili fatte nella sua vita. Per nonno Mario essere capofamiglia significava assunzione di piena responsabilità e significava non cedere mai pure se devi mantenere cinque figli e non hai da mangiare, pure se un figlio ti muore sotto le bombe (altro che coppia in crisi se nasce a Testaccio un secondo bambino e vai a fare l’apericena a piazza delle Tartarughe), pure se la guerra ti lascia vuoto e privo di ambizioni, pure se ogni tanto sfoghi la rabbia prima di prendere la pillola della strafottenza.
Potessi girare un film sulle famiglie del 1946, insomma, girerei tutt’altro film. Paola Cortellesi ha girato una film allo stesso tempo figlio e complice del brainwashing, ha voluto applicare lo schema ideologico antifamilista e della contrapposizione femminista al presunto patriarcato ai suoi ricordi e così li ha traditi. Il racconto delle famiglie d’allora è più bello e complesso, ma quale emancipazione del voto del 1946, quelle donne e quegli uomini rimisero in piedi un’Italia disastrata e lo fecero insieme, tenendo unito il tessuto sociale perché tennero unite le famiglie.
Questa è la grande lezione di Mario e Ielma Adinolfi, a cui nessuno renderà omaggio perché ora bisogna per forza costruire la contrapposizione per essere alla moda. La grande lezione è che lo fecero insieme, uomini e donne. Alcune donne, come mia nonna lavorando anche esternamente alla famiglia più e meglio di mio nonno, altre donne come mia madre australiana sessantottina certamente non subalterna scegliendo la famiglia italiana unita come modello.
Ma la parola chiave è: insieme. La narrazione della contrapposizione femminista al patriarcato è moneta farlocca anche se venduta dal film più acclamato della stagione.