Società

di Emiliano Fumaneri

Hadjadj: non scegliete il male minore

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«Tutto è connesso», scrive papa Francesco nella «Laudato si’», invitando così i cattolici e gli uomini di buona volontà a sottrarsi al gioco perverso dei tanti dualismi che rendono inefficace l’azione politica. È anche la lezione del grande vescovo Bossuet: «Dio se la ride di quegli uomini che deplorano gli effetti di cui amano le cause». Impossibile non vedere come la deriva antropologica in atto sia legata a doppio filo all’ascesa di quella che Augusto Del Noce aveva chiamato la «società economica pura»: una società che non ha più un mercato perché si è fatta essa stessa mercato.

In Francia come in Italia i cattolici ripongono spesso le loro speranze in una destra liberalconservatrice che Bossuet avrebbe biasimato, visto che deplora le derive antropologiche (ultime in ordine di tempo la legge Taubira sul matrimonio gay e l’avanzata del gender) senza però combatterne le cause (il mercatismo che combatte la cultura del dono, perno di ogni comunità).

Così nelle primarie del centro-destra francese, è notizia di questi giorni, si scontreranno Alain Juppé e François Fillon. Una scelta che ha lo stesso gusto amaro di quella che toccherebbe a chi dovesse scegliere di che morte morire. Juppé dice di ispirarsi a papa Francesco e giudica «retrograde» le manifestazioni anti-Taubira della Manif pour tous. Dal canto suo, il programma sociale ed economico di Fillon non pare compatibile con la «Laudato si’» e sui temi di famiglia e vita supera di poco quello di Juppé.

Di fronte a una simile alternativa, tanto sconfortante perché tale solo sulla carta, come deve comportarsi l’elettore cattolico? È così dunque? In politica occorre rassegnarsi alla blanda prospettiva del «male minore»?

È quanto ha chiesto a Fabrice Hadjadj il settimanale «Famille chrétienne». Certo, rammenta Hadjadj, tutti abbiamo presente il vecchio adagio romano: tra due mali bisogna scegliere il minore. «Tuttavia è sempre male scegliere il male in quanto tale, seppur piccolo. Ciò che è concesso è di tollerare un male proveniente da un altro e in particolare, nel contesto che ci interessa, quando la nostra scelta di restringe a un piccolo numero di candidati cooptati attraverso un gioco di partiti tra i quali nessuno rappresenta la totalità e nemmeno l’integrità del bene». Sembra un invito alla rassegnazione. Tutto è dunque perduto? No, insiste il filosofo franco-algerino, «non si tratta di rassegnazione, ma di un impegno coraggioso, storico, drammatico». Si tratta di «tracciare un sentiero nel mezzo di Mordor». Camminare nelle terre del nulla, come piccoli e coraggiosi hobbit guidati dalla speranza. In questo, oggi, consiste la sfida della politica per un cristiano.

Ma attenzione: la rassegnazione ha molti volti. Uno di questi è il clericalismo sferzato in ottobre sempre da papa Francesco. È così che «alcuni cattolici potrebbero sognare di vedere il papa al potere: è qui che si troverebbe la rassegnazione, in questa confusione di spirituale e di temporale che senza dubbio è peggio della loro completa separazione; essa consiste infatti in un rifiuto della sfera politica nella sua autonomia relativa e, cosa più grave ancora, in un mimetismo della teocrazia islamica. Altri per contro potrebbero sostenere che possiamo infischiarcene, che lo Stato non è il Regno dei cieli, e che va lasciato in preda al mondo e al demonio fino al giudizio ultimo. Una volta ancora, questo vorrebbe dire rassegnarsi, non essere sufficientemente forti per discernere e inventare delle vie difficili, sinuose, anche pericolose, ma necessarie, tra il Cielo e la nostra terra».

Resta pur sempre un interrogativo: come possiamo incarnare i princìpi astratti predicati dalla dottrina sociale nella concretezza quasi “fisica” di un voto? Il rischio è di fluttuare nell’angelismo, annaspando nel sentimentalismo dolciastro delle «buone intenzioni».

Effettivamente, osserva Hadjadj, alcuni che «potrebbero credersi cattolicissimi» non sono in realtà che «degli ideologi o degli utopisti». Questi teorici del cattolicesimo «impugnano i princìpi della dottrina sociale della Chiesa, seguono dei corsi di formazione a questo proposito, e sulla base degli appunti del corso giudicano il malgoverno del mondo contemporaneo senza però mai passare all’azione. Come direbbe Péguy, hanno le mani pure perché non hanno mani. Così il loro ideale, in ultima istanza, ne fa dei conformisti per via di una tale separazione tra le loro belle astrazioni e la realtà concreta. Il peggior regalo che potremmo fare loro sarebbe di concedergli il potere che credono di sperare: molto seccati del fatto di dover governare sul serio rischierebbero fortemente, per voler applicare i princìpi astratti così come sono, di diventare dei burocrati se non addirittura dei tiranni totalitari della peggior specie».

Questa consapevolezza reca con sé almeno due osservazioni. La prima consiste in questo: «che l’azione esige un passaggio dalla verità nell’ordine speculativo alla verità nell’ordine pratico, dall’astratto al concreto, dall’universale al particolare, e che questo passaggio si opera per mezzo della prudenza, attraverso la quale i princìpi vengono adattati a determinate situazioni storiche. Ad esempio: non bisogna mentire, ma che dire se sotto l’occupazione nazista nascondiamo dei bambini ebrei? Spingiamoci un poco oltre: dal punto di vista cristiano, bisogna ammetterlo, questo dato storico, per quanto terribile, è soggetto anche alla parola di Dio: l’eterno ci ha situati in un tempo particolare, ed è in questo tempo, con le sue ombre e le sue luci, coi suoi pasticcioni e i suoi tipi loschi, che dobbiamo svolgere la nostra missione di esserci facendo il bene».

Seconda osservazione, che riguarda il gusto tutto contemporaneo per la polemica astratta, cioè quell’inclinazione alla critica sterile, da tavolino, che oggi prolifera ovunque. Hadjadj lo chiama il «giochino della critica passiva». Anche questo è un prodotto della società dello spettacolo: «questa società fa uno spettacolo della propria critica: i suoi buffoni di corte irridono senza sosta i politici, ma fanno anch’essi parte del sistema provocando la paralisi di ogni vera azione. Direi anche che questa maniera di denigrare in nome di una purezza ideale è un’eredità del Terrore rivoluzionario: il nostro maligno piacere consiste nel mettere degli uomini al potere per poi accusarli, dire che non sono all’altezza e vederne infine cadere le teste… e che importa del vero bene comune».

Ma in che consiste esattamente questo fantomatico «bene comune»? E come tradurlo in pratica, vale a dire in una comunità storica precisa? «Il bene comune», ci dice Hadjadj, «non è altro che il bene della comunità presente. Questa comunità infatti è figlia di quella che l’ha preceduta e madre di quella che la seguirà. Bisogna perciò considerare il bene comune nella sua dimensione profondamente storica, e non come il risultato di algoritmo atemporale o istantaneo. Se siamo veramente democratici, non possiamo non accogliere una tradizione. Occorre piuttosto riconoscere che il «popolo» è costituito da eredi che hanno un dovere d’onore e di gratitudine nei confronti di coloro che in mancanza dei quali non sarebbero qui, senza i quali nemmeno potrebbero prendere coscienza di se stessi parlando la lingua francese, fosse pure per dichiarare di essere solo «individui» che non hanno nulla a che fare con la Francia».

È il senso di quella che G.K. Chesterton ha chiamato «democrazia dei morti», una particolare forma di governo sulla quale lo scrittore britannico insisteva senza posa: «La democrazia ci insegna di non trascurare l’opinione di un saggio, anche se è il nostro servitore, la tradizione ci chiede di non trascurare l’opinione di un saggio, anche se è nostro padre. Io non posso, comunque, separare, le due idee di tradizione e di democrazia: mi sembra evidente che sono una medesima idea. Avremo i morti nei nostri consigli. I Greci antichi votavano con le pietre, essi voteranno con le pietre tombali. Ciò è perfettamente regolare e ufficiale: la maggior parte delle pietre tombali, come delle schede elettorali, sono segnate da una croce».

Per questo la politica non può considerarsi una semplice ricetta «tecnica», asetticamente applicabile in ogni tempo e spazio alla medesima maniera. La tecnocrazia è la peggiore delle fandonie: «Se un uomo politico non ci parla che di sicurezza, di crescita e di competitività, può presentarsi bene in Colombia quanto in Qatar. La domanda che si pone è di sapere come può essere un buon rappresentante dei francesi in quanto francese, distinguendosi dunque dagli americani o dai sauditi».

Non si tratta per questo di cadere nell’identitarismo più becero. Hadjadj non parla tanto dei «francesi di stirpe», quanto dei «francesi per cultura». Ciò risponde alla vocazione storica della Francia, che è «terra d’accoglienza». Ma anche qui entra gioco un’economia della gratitudine che deve portare «i discendenti di immigrati, di cui io faccio parte», a riconoscere di «avere un dovere di riconoscenza nei riguardi di questa ospitalità; se parlano una lingua nata da Molière e da Bossuet hanno il compito di coltivarla con amore. Certo, se su certi punti la storia della loro madre adottiva lascia a desiderare essa rimane nondimeno loro madre… Aggiungerei anche questo: ciò che ci spinge a impegnarci per il bene comune è un sentimento di appartenenza e la convinzione di proseguire un grande racconto storico, per non dire nazionale».

E qui ritornano in gioco i piccoli fieri e valorosi hobbit di Tolkien: «accade così agli eroi del Signore degli Anelli: ciò che li fa continuare anche quando l’impero delle tenebre sembra trionfare è il prolungamento di un’avventura che è stata cantata nei tempi passati e che potrà essere cantata, con un nuovo capitolo, nei tempi a venire. Senza un rapporto carnale ed epico con un paese si diventa dei gestori: il bene comune si disincarna, si trasforma in giro d’affari, in performance tecnologica, senza più interessare gli uomini, bensì degli esperti… ».

Anche in Francia si pone il problema della diaspora del voto cattolico, disperso lungo mille rivoli inconcludenti. Una questione che Oltralpe assume connotati particolari per precise ragioni storiche. È questo, osserva Hadjadj, «uno dei grandi problemi a partire da quello che chiamiamo il «ralliement». I cattolici si presentano in ordine molto sparso, così che, sebbene come cattolici siano numerosi, in quanto cittadini si rivelano meno influenti di lobby assai minoritarie. Conosco dei movimenti in Italia – come Comunione e Liberazione – che danno indicazioni di voto ai propri membri. Di conseguenza i politici italiani sono obbligati a considerarli, come pure di cercare di andare loro a genio, soprattutto in occasione del grande Meeting di Rimini organizzato in estate da questo movimento, che attira quasi 800.000 visitatori. Ma questa idea di dare indicazioni politiche appare quasi un scandalo in Francia, non soltanto perché sembra distruggere la distinzione tra lo spirituale e il temporale, ma anche perché la nostra condizione è quella di separazione tra la Chiesa e lo Stato, nonché di un laicismo per il quale menzionare la propria fede nello spazio pubblico è pressoché proibito. Bisogna notare che il criterio della scelta elettorale per Comunione e Liberazione è la Libertas Ecclesiae: quale uomo politico, di destra o di sinistra, lascia più spazio alla Chiesa per esercitare in maniera indipendente il suo ministero di misericordia e di evangelizzazione?».

La libertà religiosa infatti è molto. È fondamentale. Ma non è tutto: «bisogna tuttavia notare che la situazione storica senza precedenti nella quale ci troviamo, vale a dire di fronte all’islamismo e al transumanismo, ma anche davanti alla possibilità di una distruzione totale della biosfera da parte dell’industria tecnoliberale, questa situazione sposta le antiche linee e permette ai cattolici di superare la frattura «cattolici di sinistra»/«destra del Padre», e anche di trovare degli alleati tra i nemici di ieri: sempre più gli umanisti di ieri saranno obbligati a vedere nella Chiesa colei che difende l’umano nel suo dato naturale e culturale».

Quale deve essere allora il criterio principale per determinare la scelta di un candidato alle elezioni? Cosa? La «Libertas Ecclesiae» oppure i famosi «princìpi non negoziabili»?

«Per definizione», replica Hadjadj, «non si negozia su quel che non è negoziabile. Ma in questo caso la sola scelta sarebbe quella dell’astensione? Dopo le primarie, che propongono ancora un poco di diversità, infine dopo il secondo turno che ci ridurrà a una visione binaria, quale dei candidati sarà pienamente rappresentativo delle mie aspirazioni a una politica sensibile alla «Caritas in veritate» e alla «Laudato si’»? L’ho detto, comunque: non siamo più al giochino destra/sinistra né ad una messa in questione del patto repubblicano: tutto ciò ai miei occhi sembra appartenere a un modo lontano quasi quanto quello dei dinosauri. E giustamente, visto che oggi andiamo verso una possibile estinzione dell’umano, per distruzione o per mutazione, per lo schiacciamento fondamentalista o per l’«incremento» tecnocapitaliste (essendo i due del resto legati dal petrolio)».

Il paradosso è che «al momento la classe politica sembra ancora presa da battaglie di retroguardia, soprattutto quella ossessionata dagli aspetti dell’innovazione (nulla è più antiquato dell’ossessione per l’innovazione, nel momento in cui si tratta semplicemente di concedere a tutti di poter vivere come uomini e donne capaci di coltivare la terra e di trasmettere un’avventura eterna ai propri figli). Per concludere, non dobbiamo dimenticare che è una malattia tutta francese quella di credere che tutto debba discendere da un potere centralizzatore. Più di ogni altro, un cattolico deve sapere che la provvidenza in principio non viene dallo Stato, e che l’elezione del presidente a suffragio universale tende a non essere altro che la parodia mille volte ripetuta di una monarchia in cui si designa un re solo per decapitarlo in seguito. Un tale spettacolo non deve ipnotizzarci».

Qui appare un altro principio basilare della dottrina sociale: il principio di sussidiarietà, il quale «ci insegna che la politica comincia a livello locale, a partire dalla famiglia, dal vicinato, con delle iniziative ci si riverberano di prossimo in prossimo, con una riconquista della strada e dell’impresa, con un reinvestimento nell’educazione e nella cultura (non parlo solo dell’artistico, ma anche dell’agricolo), anche con una preghiera e una evangelizzazione che sole possono riaprire l’orizzonte di una speranza grande a sufficienza per rilanciare l’avventura umana e nazionale. Non manchiamo di mezzi, ma abbiamo l’incresciosa tendenza di attenerci a mezzi che non sono i nostri. Che mezzi aveva la Saggezza incarnata? Mezzi poveri, ma per questo più diretti, più carnali, più docili alla forza dello Spirito. Non dipende che da noi metterci in marcia, con la nostra stessa vita».

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25/11/2016
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