Società

di Emiliano Fumaneri

Uber ed i tassisti

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È da tempo in atto un aspro contenzioso che vede contrapposti Uber e i tassisti. Uber è un nome che ai più forse dirà poco, ma bisogna sapere che stiamo parlando di un autentico colosso del trasporto automobilistico privato. È una multinazionale con sede a San Francisco, dove è stata fondata nel 2009. Si tratta di un gigante del settore dei trasporti, valutato in 69 miliardi di dollari. Un valore, per dare un’idea delle dimensioni, superiore alla valutazione di General Motors e Twitter messi assieme.

Uber lavora attraverso una app (un’applicazione utilizzabile con un qualsiasi telefono cellulare) in grado di mettere in contatto diretto passeggeri e autisti. La multinazionale ha adottato una politica commerciale spregiudicata, avvalendosi del «car sharing» (il servizio col quale si viaggia a pagamento su un’auto prenotata, da prelevare e riportare in un parcheggio) per portare avanti un servizio di trasporto a pagamento.

Come è facile intuire, l’ingresso di Uber sul mercato dei trasporti privati ha mobilitato il fronte delle associazioni dei tassisti, che accusano l’azienda americana di violare le norme nazionali sul trasporto locale (usando anche autisti senza licenza, per dirne una) praticando una concorrenza sleale nei loro confronti. La controversia è finita nei tribunali e perfino davanti alla Corte Europea. Uber, che in Italia opera tramite diverse società, si difende dalle accuse: le attività svolte attraverso la sua applicazione sarebbero solamente dei «servizi digitali» liberalizzati da una direttiva europea del 2000. Le associazioni di categoria chiedono invece il blocco della app. Alla Corte il compito di decidere se Uber è un servizio di taxi o una app.

In Svizzera le denunce a carico di Uber fioccano a centinaia (559 solo a Zurigo e Losanna). Anche gli chaffeurs francesi sono insorti contro la «uberizzazione» e domandano al governo di espellere la multinazionale dal territorio francese. I negoziati con le associazioni di categoria sono a uno stallo. Fino al 20 dicembre Uber-France, già multata di 800 mila euro a giugno, appariva conciliante coi tassisti che reclamavano condizioni almeno “decenti” di lavoro e di remunerazione. Poi da San Francisco devono essere arrivate direttive differenti e Uber ha trattato con freddezza le già timide proposte avanzate dal ministro dei trasporti, il socialista Alain Vidalies che aveva suggerito all’azienda di rinunciare «temporaneamente» ad alzare la commissione Uber dal 20 al 25%. Indignati per non aver trovato ascolto, i tassisti francesi hanno esortato i propri colleghi a «sconnettersi» da Uber, chiedendo al ministro dell’interno di espellerla dalla Francia.

L’«affaire Uber», come sempre accade in questi casi, ha spaccato in due l’opinione pubblica, divisa tra partigiani dello statalismo e promotori del libero mercato.

Il vero nodo, crediamo, non sta tanto nel prendere partito tra corporativismo o deregulation. Ciò che più ci preoccupa, dal nostro punto di vista, è quanto la logica di Uber sia disumanizzante per il lavoro. Si può obiettare che Uber gode di grandi ricavi. È vero, a patto di ricordare che subisce anche grandi perdite. Nel 2016 ha perso circa due miliardi di dollari, dopo che nel 2015 ne aveva persi altri due.

Una delle ragioni di queste perdite colossali sta nelle spese astronomiche sostenute da Uber per investire nella tecnologia delle auto senza pilota. La corporation americana punta infatti su quella che viene considerata la nuova frontiera dell’automobile: la macchina senza conducente umano, guidata da un’intelligenza artificiale. Già sono stati lanciati i primi taxi a guida autonoma che, ironia della sorte, proprio in casa Uber, a San Francisco, hanno collezionato la prima multa. Un taxi col software Uber a bordo infatti è passato col rosso e così, nonostante l’azienda abbia dichiarato che il programma di intelligenza artificiale non ha alcuna colpa per l’infrazione, le autorità californiane hanno deciso di bloccare le sue auto a guida artificiale.

D’accordo, ma che c’entrano le nostre vite con le politiche tecno-avveniristiche di Uber? Al limite sarà un problema dei tassisti… Non è proprio così, se teniamo conto che Travis Kalanick, fondatore di Uber, è stato voluto da Donald Trump come consigliere del “Strategic and Policy Forum”, il team che affiancherà il presidente americano nelle politiche economiche e del lavoro.

E non è finita qui: anche il futuro ministro del lavoro americano sembra essere un convinto supporter della «uberizzazione» dell’economia. Parliamo naturalmente di Andrew Puzder, AD del gigante dei fast-food CKE Restaurants. Nel marzo del 2016 Puzder ha magnificato i benefici derivanti dalla sostituzione dei lavoratori umani coi robot. Lo ha fatto esponendo al giornale on line Business Insider il piano della compagnia: la ristorazione totalmente automatizzata sul modello di Eatsa, una delle prime catene totalmente self-service, dove mangiare è diventato un «processo che richiede zero interazione umana tra clienti e operatori».

Lo scenario evocato da Puzder è quello di «un ristorante incentrato su prodotti completamente naturali e che somiglia a un Eatsa, dove ordini a un terminale, paghi con una carta di credito o un bancomat e il tuo ordine spunta fuori senza vedere mai una persona».

L’interesse per il ristorante «employee-free», confessa Puzder, nasce come conseguenza dell’aumento del salario minimo, e dunque del costo del lavoro: «Col governo che fa salire il costo del lavoro diminuisce il numero dei lavori» e perciò bisogna aspettarsi di «vedere l’automazione non solo negli aeroporti e nei supermercati, ma anche nei ristoranti». Aumentate il salario minimo e ridurrete le opportunità di impiego, obbligando le aziende a investire nell’automazione. Tutti concetti che il nuovo ministro del lavoro a stelle e strisce aveva già espresso sul Wall Street Journal, uno dei fogli simbolo del capitalismo finanziario.

La retorica di Puzder non riesce a dissimulare del tutto la vera ragione di un così grande amore per la tecnologia. La realtà è che nel tardo capitalismo l’automazione della produzione non serve affatto a fronteggiare la crescita esorbitante del costo del lavoro umano. Serve piuttosto a esautorarlo, massimizzando i profitti.

Affidare i ristoranti ai robot si spiega anzitutto col fatto che la tecnologia appare più precisa e affidabile del lavoro umano. Puzder lo fa chiaramente intendere: le macchine, a differenza degli uomini, «sono sempre educate, garantiscono sempre maggiori margini di guadagno («they always upsell»), non vanno mai in vacanza, non arrivano mai in ritardo, non c’è mai un caso di infortunio o un caso di discriminazione per l’età, il sesso o la razza».

È sintomatico che il neoministro abbia impiegato un termine chiave della «new econonomy»: «upsellng». Un vantaggio dei robot, dice, consiste nel fatto che «they always upsell». Bene, l’«upselling» è quella tecnica di vendita con la quale si cerca di indurre il consumatore, già intenzionato a comprare, ad acquistare prodotti migliori. Vale a dire ancora più costosi. È un principio coerente col dogma quasi-religioso del neoliberalismo: la Crescita infinita, un idolo che giustifica appieno l’uso della maiuscola. La macchina del capitale può mantenersi solo a condizione di crescere illimitatamente. Ecco perché occorre promuovere la crescita ad libitum dei consumi (cibo, istruzione, prestazioni mediche, mezzi di trasporto, televisioni, giornali, connessioni internet, telefonia mobile, moda, informazioni, viaggi, ecc.). Per il liberomercatismo bisogna allargare sempre più la massa planetaria dei consumatori. L’automazione integrale che permette il perfezionamento tecnico dei prodotti, presentabili così come «innovativi» rispetto ai precedenti, è funzionale al modello di crescita illimitata del tardo capitalismo.

Il giornalista Patrice de Plunkett segnala un significativo intervento a La Chaîne Info di una certa Sergine Dupuy. Madame Dupuy, intervenuta sulla controversia tra Uber e sindacati dei trasporti, è stata intervistata il 19 dicembre scorso in qualità di «membro del consiglio di amministrazione dell’Osservatorio dell’uberizzazione». Questo «osservatorio» è composto da imprenditori (specializzati in quel settore a mezza via tra l’enigmatico e l’astruso noto come e-learnig) che sostengono e promuovono la uberizzazione, da loro presentata come un eccellente e inesorabile processo di «disruption».

«Disruption» è un’altra parola-talismano della «new economy». È un termine inglese, ovviamente: una di quelle parole che non vogliono dire nulla di preciso, in cui i contorni vaghi sono istintivamente associati a un suono freddo e straniero. Ne consegue che il significato di queste parole è inevitabilmente destinato a sfuggire alla gente comune, sebbene la loro diffusione sia gravida di conseguenze per tutta la società (è una caratteristica significativamente condivisa con altre espressioni più note: come «gender» ad esempio, altro termine usato per aggirare il senso comune).

Coniata nel 1995 da Clayton Christensen, professore di Harvard, la «disruption» sta ad indicare il momento in cui l’innovazione tecnologica soppianta una vecchia attività economica dando vita a un «cambio di paradigma» del business. È importante, avverte James McQuivey, vicepresidente di una compagnia di marketing e tecnologia americana e autore di un libro sull’innovazione digitale, non confondere «disruption» con «destruction», ovvero con «distruzione». «Disruption» infatti vuole avere una valenza positiva, non negativa (che inquieterebbe troppo gli animi dei consumatori).

Di per sé «disruption» in inglese significa disturbare, interrompere, perturbare, creare il caos o scombussolare. La «disruptive innovation» è un’espressione-feticcio che nasconde, una volta ancora, una strategia di mercato. Una innovazione è «disruptive» nella misura in cui è capace di avviare un processo di rottura con gli schemi del passato. A tal scopo bisogna distruggere la cultura e la mentalità precedenti sulla strada di un’evoluzione economica inarrestabile, sempre in movimento, sempre in crescita. Un processo orientato, inutile dirlo, dai «disrupter», i primi cantori dell’«uberizzazione dell’economia».

Converrà a questo punto ritornare a Madame Dupuy. Chi è? Di che si occupa? Ricercando su Google si scopre che la signora è fondatore e amministratore delegato della RedPill sas. Tutto fa apparire questa società, fa osservare de Plunkett, come una delle cellule del «brave new world» della «disruption».

A metterlo nero su bianco è lei stessa, Sergine Dupuy. Bisogna infatti «osare l’auto-disruption», scrive su Les Echos (03/02/2016). Un simile programma si basa sulla «rottura (disruption) dei modelli tradizionali, concetto-chiave della trasformazione digitale & opportunità di collaborazione costruttiva tra imprese e start-up» (altro termine gergale che indica l’avvio di una nuova attività imprenditoriale).

Sui siti collegati a RedPill si sprecano gli inviti, espressi in un linguaggio dai toni vagamente new age e a mezza via tra il ludico e il bizzarro, a «dispiegare il proprio potenziale» per «andare al di là dei propri limiti e dei propri blocchi» attraverso «la danza con la struttura e il caos».

Ecco il vero volto della «disruption»: la «distruzione creativa». Una danza dionisiaca, fredda e ipertecnologica, che tutto travolge nella sua corsa sfrenata: legislazioni nazionali, rapporti lavorativi, tradizionali modelli di vita.

Il liberomercatismo celebra il trionfo di quello che papa Francesco ha battezzato col nome di «paradigma tecnocratico». Secondo questa ideologia la società non riposa più sulla convivenza tra gli esseri umani (che è quanto dire sull’ethos, su una comunità politica che si dà delle leggi) bensì sulla tecnologia. L’algoritmo globale impone la crescita infinita e l’evoluzione rapida.

Non ricorda nulla? Non viene forse alla mente l’insistenza martellante con cui ci viene ripetuto che occorre «destrutturare» gli antichi stereotipi? la necessità di superare costumi retrogradi, di lasciarsi alle spalle schemi mentali e culturali troppo rigidi? Le politiche di genere cos’altro sono se non la «disruption» applicata agli orientamenti individuali? In fin dei conti non si tratta altro che di una distruzione «positiva» delle relazioni primarie della vita: famiglia e affetti, in primo luogo. È la «deregulation» estesa alle relazioni sentimentali e a quelle familiari, che vanno «liquidate» per essere rese compatibili coi meccanismi infinitamente espansivi della macchina capitalistica.

Con l’uberizzazione della società si approssima il tempo in cui a regnare sulle cose umane sarà una intelligenza pura, astratta, senza carne, senza volto? Tutto sembra indicare di sì. Paradossalmente, è il sogno dell’«Homo Deus», l’uomo-Dio, che qui trova la sua realizzazione. Ma è un sogno che somiglia sinistramente a un incubo. L’uomo rischia di diventare un essere inutile nel momento stesso in cui si auto-divinizza lanciando la sfida finale all’ultimo, invalicabile limite: la morte.

In questo secolo, confessa lo storico israeliano Yuval Harari al Venerdì di Repubblica, l’uomo punterà all’immortalità. La nuova tendenza sarà quella di considerare la morte come una banale questione tecnica. È stata questa meta ambiziosa a spingere Google a lanciare nel 2013 la società Calico, la cui «mission» è combattere l’invecchiamento. Calico mira, come dicono i suoi fondatori, nientemeno che a «risolvere la morte».

Un simile traguardo stravolge la natura stessa della medicina. Finora il medico si prefiggeva di guarire il malato. Ora si propone di potenziare l’essere umano attraverso la tecnoscienza (in particolare con la genetica). Ma c’è anche un rovescio della medaglia: gli esseri umani saranno sempre più nelle mani degli algoritmi materializzando così scenari a che fino ad ora avevamo visto realizzarsi solo al cinema in pellicole come «Matrix» o «Terminator».

Non è soltanto Google infatti a lavorare per “guarire” dalla morte. Anche IBM punta nella stessa direzione col supercomputer Watson: una intelligenza artificiale in grado di mettere a disposizione con un solo click tutta la conoscenza medica acquisita nella storia, sempre aggiornata. In teoria Watson dovrebbe permettere di accedere ai dati e alle statistiche ospedaliere di tutto il mondo. L’obiettivo è creare un vero e proprio “medico digitale” aggiornato in tempo reale sulle nostre funzioni vitali e capace di incrociare i dati in diagnosi di impressionante precisione.

Siamo di fronte a un passaggio epocale, avverte Harari. Fino a ieri l’intelligenza si associava sempre alla consapevolezza. Ora però col regno prossimo venturo degli algoritmi l’intelligenza sembra destinata ad affrancarsi dalla coscienza di sé. In passato solo esseri intelligenti e consapevoli come gli umani potevano guidare le auto, curare malattie, giocare a scacchi. Ma gli algoritmi sanno fare tutte queste cose meglio degli umani, rendendoli superflui.

«La rivoluzione dell’intelligenza artificiale», commenta Harari, «sta creando la classe dei superflui: persone disoccupate e inoccupabili». Nel Ventesimo secolo i regimi autoritari hanno investito molto per assicurare alle masse salute e istruzione. Per l’esercito e l’industria servivano infatti soldati e lavoratori in buona salute. Ma quando gli umani non serviranno più – perché dei droni a guida automatica saranno in grado di garantire prestazioni più efficienti delle loro – c’è il rischio concreto che le élite perdano ogni incentivo ad investire nel benessere e nell’istruzione delle masse.

Così si presenta la società del futuro: un mondo dominato da anonimi potentati e da mastodontiche corporation che spadroneggiano grazie a un potere tecnoscientifico immenso sempre a rischio però di sfuggire dalle loro mani di apprendisti stregoni.

C’è stato un momento, amava ricordare Gustave Thibon, in cui la tecnica serviva la vita umana. Gli umili e pazienti attrezzi di un tempo (il carro, l’aratro, il fuso) sostenevano l’uomo nei suoi bisogni vitali. E la natura, così elevata per mezzo della tecnica, poteva schiudersi allo spirito di cui l’uomo era il solo depositario. Ma oggi non è più quel tempo: la tecnica ha smarrito il suo volto fraterno asservendosi al potere arbitrario degli uomini. Non educa più la natura, la violenta.

L’uberizzazione dell’esistenza e il potenziamento dell’uomo, due prodotti del dogma neoliberale della crescita illimitata, si rivelano intimamente legati alla «cultura dello scarto», per dirla sempre con le parole di papa Bergoglio. Il fronte unico di queste due tendenze produce la bagatellizzazione dell’uomo: la persona ridotta a inezia, considerata elemento superfluo di un ingranaggio sociale e perciò scartabile. Ecco dunque avanzare una economia senza l’umano, un lavoro senza l’umano, una medicina senza l’umano. E, per completare il quadro, anche la vita senza l’umano: una vita sempre più trasmessa non biologicamente quanto prodotta artificialmente.

Viene alla mente il geniale romanzo La possibilità di un’isola (2005) nel quale Michel Houellebecq racconta di una setta che aspira a rigenerare l’umanità. A questo scopo la conventicola attrezza un’isola per clonare il DNA di una ristretta cerchia di privilegiati che accederanno così, per via di reincarnazioni successive, a una specie di immortalità. Grazie alla fabbricazione di «neoumani» l’umanità potrà finalmente sbarazzarsi dei «più deboli, coloro che non sono più né produttivi né desiderabili», poiché «nel mondo moderno si può essere scambisti, bisex, trans, zoofili, SM, ma è vietato essere vecchi». La stessa specie umana ora appare superflua. Non senza ironia (amara) Houellebecq si dilunga su un organismo chiamato MEN (Movimento di Eliminazione dei Nani) che «raccomanda la fine della razza umana, irrimediabilmente funesta all’equilibrio della biosfera, e la sua sostituzione con una specie di orsi straordinariamente intelligenti».

I contorni della sfida si profilano in maniera sempre più netta: la posta in gioco è niente altro che l’uomo stesso.

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11/01/2017
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