Politica
di Christian Cinti
Omofobia in Umbria: si fa presto a dire “legge”
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Se l’Umbria applicasse tutte le norme di cui si è dotata nel corso degli anni, sarebbe una regione in cui l’inquinamento atmosferico è stato abbattuto, dove non esiste lo spreco di acqua potabile, senza liste d’attesa negli asili nido e dove il tema della sterilità di coppia è stato definitivamente risolto. Il problema è che le leggi si possono anche fare. Ma poi bisogna saperle utilizzare.
L’ultima polemica
È per questo che il destino della norma antiomofobia approvato l’altro giorno dal consiglio regionale rischia di essere già drammaticamente segnato. Ed al netto di considerazioni tecniche o morali (appare singolare creare un ghetto e poi imporre per legge che questo non venga discriminato, un po’ come dire che è vietato essere razzisti coi negri…) e di tutta la coda di polemiche che hanno accompagnato il passaggio in aula di questo documento, la possibilità che il testo normativo abbia vita breve è abbastanza concreta. Vista anche la fine che hanno fatto altri provvedimenti, nonostante qualificati come rivoluzionari o prioritari e pur essendo stati molto meno contestati. Eccoli.
Basta smog
Il 17 dicembre 2013, l’esecutivo di Palazzo Donini ha dato il via libera (delibera 296) al “Piano regionale per la qualità dell’aria”, ossia “la risposta ai continui sforamenti del livello di polveri sottili che da tempo interessano alcune zone del territorio regionale”, spiega il sito della Regione. Il piano fissa obiettivi importanti come la riduzione graduale del traffico urbano e la chiusura progressiva al traffico pesante nelle aree urbane di Perugia, Terni, Foligno e Corciano o il passaggio a nuovi sistemi di riscaldamento ad alta efficienza al posto di caminetti e stufe tradizionali alimentate a legna. Oltre alla promozione di mobilità sostenibile e trasporto pubblico. A febbraio 2016 viene stilata una prima analisi sugli effetti del piano. Con risultati che non sono però così brillanti. Ad eccezione di quanto accaduto a Perugia (“…nel 2015, rispetto ai dati 2013 – spiega il dossier - c’è stata una riduzione di oltre il 5% del traffico e, considerando la tendenza in atto, si dovrebbe raggiungere il 6% entro il 2016”) le altre città dell’Umbria non hanno fatto un granché. “Il Comune di Terni sottolinea il permanere di una situazione di criticità per le concentrazioni di PM10 rilevate in ambito urbano, dove non si registrano sostanziali miglioramenti”. Si evidenzia inoltre la “limitata efficacia del sistema di blocco del traffico a targhe alterne che è stato utilizzato negli anni passati”. Nel Comune di Corciano si è avuto qualche beneficio per la zona di Ellera, ma si attendono i dati dell’impatto sul traffico del nuovo polo commerciale. Nulla si è fatto nell’ambito del riscaldamento domestico – il piano prevedeva incentivi per chi avesse sostituito gli impianti obsoleti – e la mobilità alternativa va avanti col freno a mano tirato: ci sono sì 77 colonnine per la ricarica delle auto elettriche che però in Umbria, fra pubblico e privato, sono 133. Almeno non fanno la fila.
Oro blu
“La promozione e l’incentivazione ad un consumo consapevole dell’acqua è una priorità imprescindibile”. E infatti, il regolamento regionale approvato a marzo del 2011 (in attuazione di una legge che risale al febbraio 2006) non se lo è filato nessuno. In Umbria ogni cittadino consuma in media 200 litri di acqua al giorno, “di questi, solo una parte minima è destinata a uso alimentare, mentre tutto il resto è utilizzata per altre attività”. Per ciò si rendeva necessario introdurre una serie di azioni che avessero favorito il contenimento del “consumo da parte dei cittadini”. Come ad esempio “l’applicazione di erogatori o acceleratori di flusso ai rubinetti di lavelli e docce; l’installazione di miscelatori e di fotocellule o pulsanti per l’apertura e chiusura dei rubinetti; l’installazione di cassette per il water a doppio scomparto o con tasto di stop; l’impiego di elettrodomestici a basso consumo idrico; l’eliminazione di perdite interne da rubinetti e water; l’installazione d’impianti a goccia per ridurre i consumi d’irrigazione delle piante da vaso e giardini; il recupero di acqua piovana mediante apposite cisterne per giardinaggio, lavaggio auto”. Tutto questo, sarebbe dovuto procedere con l’introduzione di un “sistema tariffario per incentivare le utenze private ad applicare le misure individuate per il risparmio idrico”. “Nel 2015, una famiglia italiana ha speso in media 376 euro (erano 355 nel 2014) per il servizio idrico integrato – dice il Dossier acqua 2016 di Cittadinanzattiva - A livello regionale, le tariffe più elevate si riscontrano nell’ordine a Toscana, Marche, Umbria, Emilia Romagna e Puglia”. C’è di più, perché quello stesso regolamento prevedeva che i gestori del servizio idrico integrato avrebbero dovuto cominciare a mettere mano alla dispersione idrica. Mediamente, in Italia un terzo dell’acqua immessa nelle tubature va sprecata: in Umbria questa quota raggiunge e supera – a volte – anche la soglia del 40%. L’articolo 3 imponeva di raggiungere un bilancio idrico (rapporto tra acqua immessa e acqua consegnata all’utenza) pari all’80%, aggiungendo che gli Ambiti territoriali (prima creati, poi soppressi ma questa è un’altra storia) avrebbero dovuto applicare una “penale fino al 30% del costo del volume di acqua non fatturata eccedente la soglia di efficienza del bilancio” a quei gestori che non avessero raggiunto “entro tre anni dall’entrata in vigore del presente regolamento” o che non avessero mantenuto “negli anni successivi l’efficienza del bilancio idrico pari al 70%” e non avessero raggiunto “entro sei anni dall’entrata in vigore del presente regolamento” o che non avessero mantenuto “negli anni successivi l’efficienza del bilancio idrico pari all’80%”. Lo diceva ormai sei anni fa un regolamento perfettamente ignorato.
Figli e figliastri
“L’Umbria risponde ad un bisogno fondamentale di salute per quanti sono affetti da infertilità”. Era il 15 settembre 2014 quando la presidente della Regione, Catiuscia Marini, consegnava all’agenzia Ansa questa dichiarazione. Anticipando di oltre due anni quello che sarebbe successo a livello nazionale, l’Umbria introduceva la possibilità di accedere alla fecondazione eterologa in maniera gratuita o comunque dietro il pagamento di un ticket. In questo caso non si trattava di una legge, ma più semplicemente di un atto di indirizzo da assumere in seguito alla sentenza della Corte costituzionale che garantiva la possibilità di questo tipo di percorso assistenziale nelle strutture sanitarie pubbliche. La governatrice commetteva però due errori. Uno di forma, in quanto l’infertilità non è una patologia dalla quale si è affetti, quanto piuttosto di una condizione. Ma tant’è. La seconda è una questione più corposa. Nei giorni immediatamente successivi alla notizia, il centralino dell’ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia (individuato come centro regionale per la PMA) si infuocò per le chiamate delle coppie in cerca di informazioni e indicazioni. Oggi, tre anni e mezzo dopo, non chiama (quasi) più nessuno: l’eterologa in Umbria non si fa. Anche se in questo caso c’è un concorso di colpa con il governo centrale che ha licenziato una riforma senza pensare alle conseguenze. Mancano donatori e donatrici. L’aspetto positivo? I soldi degli umbri – almeno – non alimentano il mercato degli ovuli come stanno invece facendo regioni come Trentino ed Emilia Romagna. Anche se sembra che questa strada verrà presto battuta.
Tutti a scuola
“I nidi familiari rappresentano una realtà consolidata nei Paesi dell’Europa del Nord, dove la ‘tagesmutter’ o ‘mamma di giorno’ è diventata una vera e propria professione, in quanto consente alle donne e, soprattutto alle mamme, di fare della propria casa e della propria maternità un punto di riferimento per il territorio e una fonte di guadagno per la propria famiglia”. Parola di Carla Casciari, ex vicepresidente della Regione ed assessore alle politiche sociali, che il 27 marzo 2012 tagliava il nastro della sperimentazione dei nidi familiari. La rete dei tagesmutter in salsa umbra avrebbe dovuto coinvolgere 19 comuni e 40 operatrici per altrettante strutture e ospitare così circa 160 bambini. Contribuendo – seppure di poco – a sostenere tutte quelle famiglie che non trovano posto oppure non possono permettersi le rette degli asili nido, pubblici e privati, che accolgono circa il 30% dei bambini umbri tra 0 e 36 mesi. In realtà, la norma che istituiva anche in Umbria i nidi familiari partì col passo giusto: corsi di formazione, entusiasmo e interesse da parte delle famiglie. Ma poi il progetto si è sgonfiato. Oggi le strutture sono una decina, concentrate su una manciata di comuni. Ennesimo esempio di come la legge possa essere un inganno.