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di Emiliano Fumaneri
Sugli stregoni della notizia
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E’ davvero inquietante il fronte geopolitico aperto ieri dal bombardamento americano della Sira, con Donald Trump che ha ordinato alla marina il lancio di circa 60 missili Tomahawk contro la base aerea di Ak Sharyat in Siria. E la cosa ci riguarda da molto vicino, dato che l’attacco è partito da due cacciatorpediniere di stanza nel Mediterraneo: la lanciamissili Ross e Potter.
Il fatto ha impresso una brusca sterzata agli entusiasmi, forse prematuri, che l’elezione di Donald Trump aveva suscitato in alcuni ambienti. In meno di tre mesi Trump sembra essere già stato “normalizzato” da quello Stato profondo (Deep State) attorno al quale, secondo diversi commentatori, si coagulano poteri e interssi con cui ogni presidente, repubblicano o democratico che sia, si trova costretto a fare i conti. Sembra indicarlo la cedevolezza con cui The Donald ha dovuto incassare l’estromissione dei suoi strateghi politico-militari più inclini a un appeasement con la Russia (Flynn e Bannon).
E ora arriva l’attacco missilistico alla Siria, con una dinamica causa-effetto vista all’opera già altre volte. Il lancio di missili nasce infatti come reazione a un presunto raid chimico da parte dell’aviazione siriana sulla città di Idlib. Tutti abbiamo visto le immagini terribili in circolazione sulla rete che mostrano decine di bambini morti o agonizzanti per l’effetto (presumibilmente) di gas. Il problema, come ricorda il sito di informazione militare Difesa On Line, è che la fonte delle informazioni è il cosiddetto Osservatorio siriano dei diritti umani, un organismo che dietro l’apparente scopo filantropico nasconde una vera e propria organizzazione politica vicina ai “ribelli moderati” anti-Assad con sede in Gran Bretagna. Da anni, informa Difesa On Line, questo Osservatorio combatte una guerra d’informazione a senso unico diffondendo “fake news” che immancabilmente denunciano stragi di civili perpetrate dall’esercito siriano fedele a Bashar al-Assad. Siamo di fronte a una informazione di parte senza conferme indipendenti sul campo, un fatto che come minimo dovrebbe indurre a prendere con le pinze le notizie provenienti dal fronte siriano.
Non bisogna essere ingenui. È la storia, anche recente, a consigliarci una certa prudenza. Già nel 2013, quando alla Casa Bianca era al potere Barack Obama, gli Usa arrivarono vicini ad attaccare la Siria. Anche allora fu invocato come “casus belli” un attacco con armi chimiche avvenuto a Guta, il sobborgo orientale di Damasco dove l’esercito siriano stava ingaggiando una lotta serrata contro i “ribelli moderati”. Oggi come allora fu Assad a finire sul banco degli imputati, anche se molti sollevarono dubbi: non è suicida impiegare armi chimiche laddove si concentrano le proprie truppe e per giunta alla presenza degli ispettori dell’ONU (che allora si trovavano nel Paese per ispezionare l’armamentario siriano)?
Stesso copione nel 2003, sotto la presidenza di Bush jr. Tutti ricordiamo l’imbarazzante intervento del Segretario di Stato americano Colin Powell al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dove furono presentate le “prove” del possesso di armi chimiche e batteriologiche da parte di Saddam Hussein: la famosa “smoking gun” che sarebbe servita a giustificare la guerra preventiva e la conseguente invasione dell’Iraq.
A fornire le prove sul programma di armamento di Saddam (le “armi di distruzione di massa” di cui anni dopo lo stesso Powell avrebbe ammesso la falsità) fu un organismo misterioso: l’Iraqi National Congress (INC), un’associazione che sulla carta raggruppava decine di organizzazioni arabe e curde nemiche del dittatore di Baghdad. A distanza di anni si sarebbe saputo che l’INC era una creatura del Rendon Group, una società di Pubbliche Relazioni ingaggiata da Washington.
Le origini dell’Iraqi National Congress risalgono agli anni Novanta. Dopo la prima guerra del Golfo, Bush padre incarica la CIA di organizzare una opposizione (fino ad allora inesistente) a Saddam Hussein. E la CIA “subappalta” l’incarico al Gruppo Rendon. Spuntano così dal nulla un anti-rais, nella persona dell’ambiguo uomo d’affari Ahmad Chalabi, e una opposizione interna: il summenzionato “Iraqi National Congress”.
Ma cosa è “The Rendon Group” (TRG)? Di cosa si occupa? A capirlo basta leggere il moto che campeggia sulla home del sito: «L’informazione come elemento del potere». Sono queste le “pubbliche relazioni” di cui si occupa TRG: la guerra dell’informazione, la manipolazione delle news, la creazione di “pseudo eventi”. Il suo scopo è vincere la guerra delle notizie. Un libro del giornalista Marcello Foa (“Gli stregoni della notizia”) documenta l’attività di queste società private di “spin doctor” al servizio dei governi. Lo spin doctor di regola è un personaggio semisconosciuto, che agisce dietro le quinte (“leading from behind”). “Spin” vuol dire “far girare vorticosamente” mentre doctor sta per “specialista”. Lo spin doctor è dunque il tecnico dell’informazione che dà un orientamento particolare alle notize, facendole roteare così “vorticosamente” da ipnotizzare i media, inducendoli ad accogliere una determinata visione della realtà (naturalmente quella più favorevole al proprio cliente). Stiamo parlando di esperti nella manipolazione dell’informazione, né più né meno.
Per le loro attività gli spin doctor vengono pagati profumatamente. Si calcola che tra l’11 settembre 2001 e il luglio 2002 il Rendon Group abbia fatturato al Ministero della Difesa americano almeno 7,5 milioni di dollari, mentre tra il 2000 e il 2004 il gruppo ha ottenuto dal Pentagono 35 contratti per un valore che viene stimato tra i 50 e 100 milioni di dollari.
Cifre astronomiche, che danno un’idea di quanto la propaganda, nella postdemocrazia contemporanea, sia di fondamentale importanza. Sotto questo punto di vista non si registrano differenze di rilievo tra “destra” (repubblicani) e “sinistra” (democratici). Che al potere ci sia un Bush o un Obama, la comunicazione politica resta influenzata dagli spin doctor. Anche la politica estera americana si basa su una combinazione tra uso della forza militare (hard power) e propaganda (soft power). Il soft power serve a diffondere i valori e lo stile di vita americani nel mondo, creando uno stato d’animo favorevole agli Usa e alla loro politica.
Il governo americano, dopo lo scandalo del Watergate e le dimissioni di Nixon, ha imparato che la pressione del sistema massmediatico (allora così forte da far parlare di “mediacrazia”) non va subita. Al contrario, il flusso di informazioni va anticipato per poter essere governato e orientato. È in base a questo principio che, da Ronald Reagan in avanti, le amministrazioni statunitensi hanno cominciato a usufruire dei servizi degli “stregoni della notizia”. La grande sacrificata sull’altare degli stregoni della notizia è la verità, cioè la corrispondenza tra i fatti (cioè che è davvero accaduto) e le parole (ciò che si dice). E la prima a farne le spese è l’informazione, che tradisce la propria vocazione nella misura in cui si trasforma nella voce del potere anziché mettersi al servizio della coscienza critica dei cittadini.