Politica
di Emiliano Fumaneri
Una candidatura simbolica per rifondare l’ europeismo
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È altamente simbolica la candidatura di Mario Adinolfi a sindaco di Ventonte, dove il commissario prefettizio ha varato un provvedimento amministrativo (un bonus per le madri di 160 euro per 36 mesi) coerente con lo spirito del “reddito di maternità” proposto dal Popolo della Famiglia. Ma Ventotene è emblema anche di qualcos’altro: di «un’Europa che non ci piace», scrive Adinolfi nell’editorialino di mercoledì. E non piace perché «ha dimenticato completamente le proprie radici cristiane e ed è diventata l’Europa dei banchieri e dei burocrati».
Nell’isola di Ventotene vide infatti la luce, nel 1941, il Manifesto intitolato “Per un’Europa libera e unita”, la magna charta dell’europeismo su base federale.
Suo grande promotore fu il romano Altiero Spinelli (1907-1986). Avvicinatosi al marxismo in gioventù (nel 1924 si iscrive al Partito Comunista), nel 1927 Spinelli viene incarcerato dai fascisti. Sconta circa dieci anni di carcere e poi, quando aspetta di essere rilasciato, viene confinato dapprima a Ponza (dal 1937 al 1939) e successivamente sull’isola di Ventotene, tra Lazio e Campania.
Altiero Spinelli non è soltanto un convinto militante. Giurista di formazione, è anche il raffinato intellettuale che in carcere legge Marx e Hegel, che per leggere i classici della letteratura in lingua originale impara il russo, l’inglese, lo spagnolo, il greco antico. Sempre nel periodo del carcere matura un approccio antistalinista che con grande travaglio lo porterà a distaccarsi dal PCI, dal quale viene espulso nel 1937 con l’accusa – la più infamante per l’epoca – di essere «piccolo borghese» e «trotzkista».
Nel periodo del confino Spinelli si avvicina a Sandro Pertini e soprattutto all’azionista (poi radicale) Ernesto Rossi e al socialista Eugenio Colorni. Assieme a loro diventerà uno dei massimi profeti dell’unità federale europea. È proprio grazie alla collaborazione di Rossi e Colorni che nel giugno 1941 Spinelli scrive il Manifesto per un’Europa Libera e Unita, meglio noto come il Manifesto di Ventotene.
Per il Manifesto di Ventotene il nemico è lo stato nazionale e sovrano. La causa delle guerre, della povertà e delle ingiustizie, vi si legge, «è l’esistenza di Stati sovrani, geograficamente, economicamente, militarmente individuati, consideranti gli altri Stati come concorrenti e potenziali nemici, viventi gli uni rispetto agli altri in una situazione di perpetuo bellum omnium contra omnes».
Lo stato nazionale, causa di ogni male, va dunque superato. Il Manifesto rifiuta tanto la soluzione democratica (internazionalizzazione dal basso per creare una coscienza unitaria dei popoli europei, preludio dell’unità politico-economica) quanto l’internazionalismo dei partiti socialcomunisti, per i quali occorrerebbe prima instaurare in ogni stato una dittatura del proletariato, condizione necessaria – a loro dire – di uno stato internazionale collettivista.
La soluzione di Ventotene è diversa. Per i tre ispiratori del Manifesto bisogna propiziare la creazione di un ordinamento unitario degli stati europei su base federale. Nel concreto, questa unione federale dovrebbe articolarsi secondo alcuni punti principali:
a. esercito unico federale
b. unità monetaria
c. abolizione delle barriere doganali e delle limitazioni all’emigrazione interna tra agli stati federati
d. rappresentanza diretta dei cittadini ai consessi federali
e. politica estera unica
Gli ideatori del Manifesto non guardano a un partito politico particolare né vogliono crearne uno nuovo. Ciò che hanno in mente è piuttosto un movimento trasversale che influenzi dall’interno le forze politiche. Oggi diremmo che pensano a una attività di lobbying.
Il Manifesto di Ventotene critica a fondo l’ideologia nazionalista che ha trasformato lo stato nazionale in un corpo collettivo aggressivo e bellicista. Nato per tutelare le libertà e la convivenza dei cittadini, lo stato nazionale col tempo si è tramutato in un idolo assoluto. Lo stato è diventato così un’entità divina e autosufficiente affamata di “spazio vitale”, padrona dei suoi cittadini, considerati come semplici parti-ingranaggi di un meccanismo da potenziare sempre di più, in un processo che sarebbe culminato nell’esperienza nefasta degli stati totalitari.
È una descrizione che non manca di verità. Quello che manca, nel Manifesto per un’Europa Libera e Unita, sono i contenuti del federalismo internazionalista, che appaiono semplicemente presupposti. SI tratta, possiamo dire, di un internazionalismo postulatorio, impolitico. L’unico progresso possibile, ci ripetono i tre ispiratori, è «la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani».
Sta bene, ma la soppressione degli stati sovrani non era anche l’obiettivo delle ideologie novecentesche? Per il marxismo Io stato - con il suo apparato burocratico e poliziesco - non è altro che lo strumento con cui le classi sfruttatrici asserviscono quelle degli sfruttati. Ma una volta scomparso lo sfruttamento di classe, grazie all’avvento della società comunista, lo stato non avrà più ragione d’esistere e dovrà scomparire. È la fine della politica. L’utopia marxista realizzata si vuole radicalmente “impolitica”. Anche la comunità di «sangue» del Reich nazista spingeva ad un’espansione cieca, senza una chiara delimitazione territoriale.
Si fatica a capire su quali basi ideali poggi l’unità federale annunciata a Ventotene. Un vago umanesimo, una certa idea di libertà, un certo federalismo kantiano. Ma l’internazionalismo, da solo, non è garanzia di pace e libertà, né il federalismo. Di ispirazione kantiana sembra anche l’idea che con il giusto assetto istituzionale si possano garantire a tutti pace, giustizia, libertà e prosperità (Kant, si ricordi, era convinto che la sola meccanica del diritto, se ben calibrata, avrebbe potuto mantenere l’ordine anche in una società di demoni).
In altre parole, nel Manifesto europeista di Ventotene c’è forse un vago progetto istituzionale. Ma manca un progetto di identità culturale e valoriale. Lo stato, ricorda José Ortega y Gasset nella “Ribellione delle masse”, non è il frutto di una convivenza spontanea come quella tra consanguinei, tra membri della stessa famiglia. Lo stato inizia quando gruppi umani in origine separati e distinti si obbligano a convivere. E «questo obbligo», fa osservare Ortega, «non è nuda violenza, ma suppone un progetto, un’impresa comune che si propone ai gruppi dispersi. Prima di tutto lo Stato è un progetto d’azione e un programma di collaborazione. Si chiamano le persone e i gruppi perché nell’unione realizzino un’impresa».
Papa Bergoglio, attento osservatore delle dinamiche europee, aggiunge che l’impresa di far nascere un popolo richiede una origine (memoria), oltre a un progetto. Il progetto, per fruttificare, ha bisogno di radici, radici di cui non si vede traccia nel progetto europeista di Spinelli e dei suoi.
Un progetto di ingegneria istituzionale non è sufficiente. Cosa impedisce infatti a un’ideologia di sostituirsi a un’altra? Le ideologie totalitarie disprezzavano il formalismo giuridico e istituzionale, aggirandolo sistematicamente. Oggi in Europa regnano, in nome dell’impoliticità, altre ideologie che si chiamano pensiero politicamente corretto, dittatura del relativismo, umanismo (cioè l’umanesimo senza l’umano). Sempre più il nuovo ordine europeo assomiglia – paurosamente – a quel regime che Tocqueville nella “Democrazia in America” aveva battezzato come «dispotismo democratico»: una tirannide confidenziale, ludica, che lascia che la massa del popolo si trastulli con «piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri». I cittadini così diventano degli individui isolati, estranei gli uni agli altri, degli apolidi senza patria.
E così, intorpiditi dalla ricerca egoistica del piacere, lasciano che sopra di loro, prosegue Tocqueville, si elevi «un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente nell’infanzia, ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi. Lavora volentieri al loro benessere, ma vuole esserne l’unico agente e regolatore; provvede alla loro sicurezza e ad assicurare i loro bisogni, facilita i loro piaceri, tratta i loro principali affari, dirige le loro industrie, regola le loro successioni, divide le loro eredità; non potrebbe esso togliere interamente loro la fatica di pensare e la pena di vivere?».
Pensiamo solo alla maniacale regolamentazione delle norme europee, preoccupate di standardizzare tutti i prodotti, anche quelli della terra (come le mele). Al tempo stesso l’Europa è il centro propulsore di quelle “libertà trasgressive” che identificano il desiderio individuale con la misura del diritto. Non sono queste “libertà” (aborto e eutanasia) ad affrancare dalle pena di vivere? Quanto all’esonero dalla fatica del pensiero, ci stiamo arrivando. La Ue ovviamente è in prima linea contro le “fake news” e ha già provveduto ad avvertire Facebook.
È forte e diffusa la sensazione che a comandare davvero in Europa siano funzionari irresponsabili e anonimi tecnocrati (cioè gli “impolitici” per definizione). Come forte è la sensazione che Altiero Spinelli sia soltanto passato da una fede cieca all’altra: dal comunismo all’europeismo.
Cresciuto in una famiglia di liberi pensatori, Spinelli professava una specie di umanesimo ateo. Scriverà che «la fede della chiesa cattolica con la sua pretesa che sian credute per vere tutte le sue inverosimili favole non risvegliava in me che un’ironica curiosità». Nel periodo del carcere, mentre matura la sua “emigrazione interiore” dal Partito Comunista, arriva a una conclusione: socialismo e cristianesimo non sono altro che due manifestazioni della stessa volontà umana di potere e di dominio.
Nella sua autobiografia (intitolata “Come ho tentato di diventare saggio”) descrive i tentativi giovanili di costruire nel suo animo la «cattedrale» del comunismo. Ma, come capita spesso ai giovani, Spinelli coltivava una voglia frenetica di rivoluzionare il mondo senza però capire bene cosa davvero volesse dire fare il «rivoluzionario di professione», come esortava Lenin. Descrive questo suo stato d’animo confuso e al tempo stesso dogmatico con questa espressione: «cattedrale di granito e nebbia».
«Ero ben consapevole - scrive - degli strati di nebbia che intercalavano gli strati di granito nella mia coscienza, ma era una nebbia capace di sorreggere il granito che le sovrapponevo, perché destinata a diventare anch’essa granito, e non impediva perciò alla cattedrale di crescere». È una miscela di rigidità e vaghezza che verrà trasmessa anche al Manifesto di Ventotene.
Viene alla mente uno dei pensieri folgoranti di Nicolás Gómez Dávila: «Pur sapendo che tutto perisce, dobbiamo costruire in granito le nostre dimore di una notte» . Ma il solitario di Bogotà mai avrebbe pensato che la nebbia potesse essere la materia con cui costruire una cattedrale di granito. La nebbia infatti è ancor meno “edificante” della sabbia che, come avverte il Vangelo, è già un materiale a dir poco sconsigliabile in campo edilizio.
È diventato un luogo comune riferirsi ad Altiero Spinelli come a uno dei padri nobili ma traditi dell’europeismo. Matteo Renzi nell’agosto dello scorso anno ha riunito proprio a Ventotene i leader di Francia e Germania per onorare la sua tomba e rilanciare il suo progetto di unificazione europea. Eppure l’influenza di Spinelli non è stata affatto trascurabile, sia come fondatore, nel 1943, del Movimento federalista europeo, sia come consigliere di personalità come De Gasperi, Spaak e Monnet. Il 14 febbraio 1984 il Parlamento europeo approverà poi a maggioranza schiacciante il cosiddetto “Piano Spinelli” che fungerà da base per i trattati che porteranno alla nascita del mercato comune (Atto unico europeo, 1986) e dell’Unione europea (Trattato di Maastrict, 1992). Nel 1985, un anno prima di morire, Spinelli interviene al Congresso del Partito Radicale per esortare, in un ideale “passaggio di consegne”, i discepoli di Pannella (e di Ernesto Rossi) a farsi «missionari» dell’europeismo promuovendo anche in Europa le loro campagne.
Ma “questa” Europa ha davvero tradito lo spirito di Ventotene? Non ne è piuttosto la realizzazione? Non appare anch’essa una mistura di granito e nebbia? Un edificio granitico e al tempo stesso nebuloso, sempre più dogmatico e sempre meno trasparente. È l’Europa della lobby, non dei popoli; l’Europa dei potentati anonimi, invisibili, opachi come la nebbia ma duri come il granito nell’esercizio del potere.
E Spinelli è un profeta tradito o di successo? Sempre nella sua autobiografia racconta di essersi affidato, per superare il travaglio interiore dovuto al suo progressivo distacco dallo stalinismo, alla «morale provvisoria» di Cartesio. È bene sapere che la «morale provvisoria», come spiega il filosofo Robert Spaemann, è la base etica della «civiltà ipotetica»: una società nella quale la tecnoscienza è diventata la misura di tutte le cose. La civiltà ipotetica è semplicemente un mondo dominato dalla tecnocrazia, dove tutti i valori ritenuti “non scientifici” hanno al massimo una validità “provvisoria”. Saranno validi cioè fino a quando la scienza non comincerà ad occuparsene, vagliandone la “tenuta” scientifica. Ma già adesso non sono altro che “opinioni”, convinzioni personali, poco più che gusti individuali. Ogni ideale per la tecnocrazia non è altro che una “ipotesi”. Credete che genere e sesso non siano realtà scollegate? Credete che uomo e donna abbiano pari dignità ma caratteristiche differenti? Un domani, se la “scienza” vi dirà il contrario, sarete obbligati uniformarvi alla nuova morale provvisoria. Credete che il bambino nella pancia della mamma sia una persona umana? Se la scienza vi dice che è un grumo di cellule, ebbene, dovrete adeguarvi.
Ricorda nulla? La morale provvisoria è l’ideologia perfetta della tecnocrazia. La sospensione di ogni valore è l’ideale per una élite che vuole governare le cose solo grazie al sapere tecnoscientifico, che non riconosce altri “valori” se non quelli del mercato e della finanza. È il volto dell’Europa di oggi, l’Europa che non ci piace.