Società
di Lucia Scozzoli
Se un single adotta una down
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Una bambina non è stata riconosciuta dalla madre al nosocomio di Napoli, il padre è sconosciuto. La bambina è dunque adottabile e il giudice deve scegliere una famiglia a cui affidarla. Però la piccola in questione è down e il giudice, dopo aver incassato il no da parte di 7 coppie, decide di dare la bambina ad un single disposto ad accoglierla, appellandosi alle deroghe alla legge 184 previste all’art. 44. E la notizia rimbalza su tutti i giornali con grande enfasi, in perfetto accordo con l’annuncio dato dalla Boschi alla conferenza nazionale sulla famiglia della scorsa settimana di voler revisionale la legge delle adozioni per renderle possibili anche a single e coppie omogenitoriali.
La situazione è complessa, è importante approfondire con ordine.
La 184 consente già l’adozione a single nei seguenti casi:
Art. 44.
1. I minori possono essere adottati anche quando non ricorrono le condizioni di cui al comma 1 dell’articolo 7 (cioè per minori non dichiarabili come adottabili secondo i criteri indicati dalla legge stessa)
a) da persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo, quando il minore sia orfano di padre e di madre;
b) dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge;
c) quando il minore si trovi nelle condizioni indicate dall’articolo 3, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, e sia orfano di padre e di madre;
d) quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo.
3. Nei casi di cui alle lettere a), c), e d) del comma 1 l’adozione è consentita, oltre che ai coniugi, anche a chi non è coniugato. Se l’adottante è persona coniugata e non separata, l’adozione può essere tuttavia disposta solo a seguito di richiesta da parte di entrambi i coniugi.
L’articolo usato in questo caso è il 44.1 comma c), che si rifà alla legge 104, sulla disabilità.
È curioso il fatto che la deroga si riferisca allo stato del bambino e venga impugnata per derogare sulle condizioni dell’adottante, ma si sa che i tribunali, in modo indiretto, fanno giurisprudenza, per cui ormai è prassi questo balzo logico non banale.
La trafila ordinaria prevederebbe che un single dia disponibilità all’affido (secondo la legge 149) e poi, se con il minore affidato si instaura un legame duraturo e qualora il minore diventi adottabile, allora ci si possa appellare al comma a) dell’art 44.1 della 184 per ottenere la trasformazione da affido ad adozione.
Quindi con ogni probabilità, il single interpellato dal tribunale di Napoli che ha accolto la bambina era in attesa nel canale della 149, non della 184.
Per quanto riguarda le 7 coppie che hanno rifiutato l’abbinamento, occorre chiarire alcune cose.
La legge italiana prevede che, durante la selezione delle coppie che danno disponibilità all’accoglienza di minori senza famiglia, sia affrontato anche l’aspetto della eventuale disabilità del bambino. Però la domanda che viene posta alla coppia è secca: disponibilità sì/no ad una qualunque disabilità, di qualunque grado di gravità. Diverso discorso vale all’estero: per chi si avvia sulla strada tortuosa delle adozioni internazionali, spesso il capitolo salute viene approfondito con dettaglio, in una specie di spunta alle patologie accettabili rispetto a quelle non accettabili. Questo permette alle coppie, ad esempio, di dire sì ad un bambino affetto da strabismo, palatoschisi, zoppia, trisomia 21 e no ad un tetraplegico.
Abbiamo a tal proposito intervistato un genitore adottivo, il quale, oltre ad averci spiegato questi meccanismi un po’ tecnici e sconosciuti ai più, ci ha anche detto la propria opinione in merito: “la domanda sulla disponibilità all’accoglienza di disabili è a garanzia dei bambini. Già l’adozione ha la complessità di prendersi cura di un bambino che non è tuo. Non ci si può permettere di appesantire questa complessità con situazioni ulteriori e imprevedibili, perché esiste il rischio di rigetto dell’adozione stessa. Non si può fare il passo più lungo della gamba, ci sono di mezzo dei bambini”.
Il risultato pratico è che in Italia le coppie adottanti, alla fatidica domanda, in mancanza di dettagli, rispondano tutte no, anche perché rifiutare poi un abbinamento deciso da un tribunale, dopo che si è data una disponibilità totale, perché magari il bambino presentato ha patologie di una gravità non compatibile con ciò che la coppia in coscienza sente di poter sostenere, significa automaticamente precludersi ogni futura adozione e la propria domanda finisce nel cestino per sempre.
Ma i tribunali italiani che fanno? Consci di come sia strutturata la prassi delle adozioni, quando si trovano a dover decidere a chi affidare un minore disabile, provano a sondare ugualmente la disponibilità allo specifico caso mediante azioni di contatto con le coppie in lista svolte dalle segreterie, in modo informale. Si testa una possibilità che, sulla carta, non ci sarebbe. E a volte le coppie accettano, a volte no.
Bisogna fermarsi a pensare cosa significhi per una coppia la telefonata di una segretaria che dice “abbiamo un bambino con questo e quello, lo prendereste?”, per una coppia che ha già deciso di aprirsi ad una vita sconosciuta, ad accogliere un bambino estraneo per diventare la sua famiglia, che già sta cercando di fare posto nella mente e nel cuore a qualcuno che non c’è, che non sa chi sarà, senza alcun riferimento possibile con cui cullare le aspettative inevitabili. Chi aspetta un figlio, si domanda da chi erediterà il naso, tra i due genitori, o a chi somiglierà di più. La disabilità, grave o lieve, che a volte arriva con la nascita, è solo uno dei tanti aspetti che la creatura porta con sé, in dote, e non pregiudica il meccanismo di riconoscimento reciproco che si instaura, sebbene ovviamente getti nello sconforto e ponga subito di fronte all’interrogativo “sarò in grado di sostenere ciò?”. Domandare ad una coppia adottante questo sforzo non è una cosa qualunque, soprattutto se in modo inaspettato, se si va a bussare da chi aveva messo in conto tante incognite ma non anche una disabilità di partenza.
Questo meccanismo di ricerca a tentoni dei tribunali è una prassi che avviene continuamente, nella discrezione assoluta di colloqui e contatti privati che si svolgono tra segreterie e famiglie, e rappresenta uno dei tanti momenti difficili che spesso devono attraversare le coppie che decidono di adottare.
Questa volta però la notizia è finita sui giornali. A parte il chiederci come sia stato possibile ciò, ce ne domandiamo anche il perché e ci sembra difficile che la propaganda per la revisione della 184 portata avanti da tanti esponenti di questo governo sia una casualità.
Senza ombra di dubbio l’uomo che ha accolto con sé la piccola ha mostrato un cuore davvero grande, ma questo non significa che si possano stigmatizzare le coppie che non se la sono sentita, soprattutto visto il clima culturale di demonizzazione della disabilità, nello specifico della trisomia 21, con campagne europee che procedono a spron battuto per il raggiungimento dell’obiettivo zero-down (cioè tutti abortiti).
La questione della disabilità dei bambini è molto importante, non se ne può fare una faccenda di propaganda strumentale, e tocca temi profondi e radicali su cui urgono riflessioni genuine: la vita è pienamente vita al di là delle condizioni specifiche e contingenti di salute delle persone; ogni bambino ha il diritto di nascere, qualunque malattia possa avere; far nascere un figlio disabile nonostante una diagnosi infausta non deve essere un’eroica eccezione, o peggio ancora (come si sente ahimé dire sempre più spesso) una scelta da fessi o addirittura una colpa, ma deve essere la normalità. Infatti, mentre puntiamo i riflettori sul magnifico single e le pessime coppie etero, dimentichiamo l’evento scatenante di questa vicenda: una madre ha abbandonato la sua bambina in ospedale perché down. Se fosse stata senza la trisomia 21, l’avrebbe tenuta? O l’avrebbe lasciata ugualmente? Non lo sapremo mai, ma certo il sostegno alla maternità, anche e soprattutto a quella difficile, è un punto cruciale, perché ogni bambino ha diritto prima di tutto a restare con la propria madre e dobbiamo rendere ciò realizzabile nel maggior numero di casi possibile. La diffusione sempre più marcata di questa mentalità handicap-fobica crea vittime. Siamo tutti un po’ colpevoli.