Chiesa
di Claudia Cirami
Le ragioni della missione della Chiesa
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Nell’editoriale di ieri, Riccardo Cascioli, direttore de La Nuova Bussola, ha posto alcune questioni interessanti riguardanti la missione al tempo di Papa Francesco. L’analisi del direttore del quotidiano online prende il via dalle recenti dichiarazioni del pontefice nel viaggio di ritorno dal Myanmar e Bangladesh. Al cuore dell’editoriale possiamo collocare questa domanda: «la missione, così come vissuta dalla Chiesa in duemila anni, è da rottamare?».
Cascioli, pur non arrivando ad una conclusione definitiva e auspicando un dibattito che coinvolga i missionari, evidenzia due impressioni che ha ricavato dall’agire e dal parlare del Papa, non solo da questo suo ultimo viaggio. La prima è, per usare le stesse parole del direttore, «un’aperta diffidenza verso le conversioni al cattolicesimo, e a tutto ciò che sa di missione “tradizionale”». La seconda, invece, potrebbe essere definita come la riqualificazione semantica del termine evangelizzazione, che sembra essere diventato sinonimo di soccorrere il prossimo. Tanto che Cascioli sembra chiedersi, indirettamente, se l’ideale cristiano non sia diventato oggi quello di essere «buoni e bravi». Il direttore cerca anche, intelligentemente, di rispondere a possibili obiezioni a queste impressioni. Così, pur lasciando aperto il dibattito, fa intuire la sua convinzione: per Papa Bergoglio la missione ha perso il suo significato tradizionale.
Entrambe le impressioni meritano un approfondimento. Partiamo dalla prima, la presunta diffidenza del Papa nei confronti della missione così com’è stata tradizionalmente intesa. Ma qual è, in definitiva, questo senso tradizionale di missione? Per rispondere alla domanda, possiamo guardare ad alcuni testi che precedono il pontificato di Papa Bergoglio. Paolo VI, in Evangeli Nuntiandi, al n. 51, dice: «Rivelare Gesù Cristo e il suo Vangelo a quelli che non li conoscono, questo è, fin dal mattino della Pentecoste, il programma fondamentale che la Chiesa ha assunto come ricevuto dal suo Fondatore». La missione è dunque parte fondamentale dell’essere Chiesa. In Redemptoris Missio (1990), San Giovanni Paolo afferma inoltre che la missione è «l’indice esatto della nostra fede in Cristo e nel suo amore per noi». Se crediamo in Cristo, in sostanza, non possiamo esimerci dal voler (e dal fare in modo) che altri credano. La missione, allora, non è soltanto essenziale per vita della Chiesa, ma è anche il termometro dello stato di salute della fede ecclesiale.
In entrambi i documenti – posti in un’ottica conciliare sulla scia di Ad Gentes – sia Paolo VI che Giovanni Paolo II si pongono il problema del rapporto tra dialogo interreligioso e missione. Se vogliamo trovare una sintesi efficace della questione, andiamo ad un terzo testo, un messaggio di Benedetto XVI all’Urbaniana nel 2014, dove il papa tedesco, cogliendo l’occasione della presenza di tanti studenti stranieri, tratta della missione: «davvero la missione è ancora attuale? – si è chiesto, facendosi megafono delle obiezioni del mondo e di una parte dei cattolici – Non sarebbe più appropriato incontrarsi nel dialogo tra le religioni e servire insieme la causa della pace nel mondo? La contro-domanda è: il dialogo può sostituire la missione?». La convinzione a cui approdano i predecessori di Papa Bergoglio è simile: rispetto e stima per le religioni non cristiane, di cui si apprezzano testi religiosi e frutti spirituali, ma l’annuncio di Cristo deve continuare a risuonare nel mondo. Scrive ancora Benedetto XVI nello stesso messaggio: «La gioia esige di essere comunicata. L’amore esige di essere comunicato. La verità esige di essere comunicata. Chi ha ricevuto una grande gioia, non può tenerla semplicemente per sé, deve trasmetterla. Lo stesso vale per il dono dell’amore, per il dono del riconoscimento della verità che si manifesta».
Rileggendo tuttavia la risposta di Papa Francesco data in conferenza stampa alla giornalista Etienne Loraillère – che ha chiesto se occorre dare la priorità al dialogo interreligioso o all’evangelizzazione – sembra esserci in realtà solo un approfondimento di quanto affermato dai precedenti pontefici. Il Papa inizia distinguendo tra evangelizzazione e proselitismo e, citando l’esempio di un ragazzo che si pone il problema di cosa dire per convertire un amico ateo, prende le distanze non dall’annuncio, ma da quello che appare piuttosto come uno sforzo volontaristico per far cambiare vita all’altro. Francesco, in poche parole, ridona il primato alla Grazia perché troppe volte l’evangelizzazione diventa, nel sentire comune, come l’esclusivo risultato di un agire e un parlare umano. “L’ultima cosa che tu devi fare è dire qualcosa – ha consigliato il Papa al ragazzo – Tu vivi il tuo Vangelo, e se lui ti domanda perché fai questo, gli puoi spiegare perché tu lo fai. E lascia che lo Spirito Santo lo attiri”. Allo stesso modo, quando Francesco dice che la conversione «non è un convincere mentalmente con apologetiche, ragioni… no», restituendo allo Spirito quanto è suo, non sembra vanificare l’impegno di quanti, fin dai tempi del martire Giustino, hanno messo il loro intelletto a servizio della fede in Cristo, ma contrasta una mentalità che legge la missione come un “io devo”, piuttosto che un “io mi affido”: è l’uomo il collaboratore dell’agire di Dio, sembra ricordarci il Papa, non viceversa. Da qui anche la frase sulla perplessità riguardo a certe conversioni immediate, forse la più problematica della dettagliata risposta del pontefice: appare come una critica non alle conversioni in se stesse, ma a quell’impellenza di convertire che risponde più a desideri umani che non all’ardore della fede.
Andiamo alla seconda “impressione”. Ciò che sembra prospettare l’intervento di Cascioli è la fine della figura del missionario tradizionalmente inteso e la sua trasmutazione in operatore sociale (con la Chiesa in missione ridotta ad una onlus qualsiasi). Si allude dunque alla possibilità di una “missione” non più interessata a portare la verità della fede, quanto a soccorrere gli altri o a mostrarsi buoni. Eppure – ricorda argutamente il direttore – anche Santa Teresa di Calcutta affermava che «La più grande disgrazia del popolo indiano è di non conoscere Gesù Cristo», ristabilendo la priorità tra le varie dimensioni e attribuendo il primo posto alla vita spirituale. Ma occorre riflettere un attimo per non mettere in contrapposizione Madre Teresa non solo con Francesco, ma anche con chi l’ha preceduto. Sia per Paolo VI che per Giovanni Paolo II la prima via della missione è la testimonianza. Il motivo è chiaro: Gesù Cristo si testimonia con la vita più che con le parole. La stessa Teresa è stata testimone efficace dell’Amore di Dio attraverso le sue buone opere. Del resto il quotidiano online diretto da Cascioli, ci ricordava qualche giorno prima, quasi in concomitanza con la sua memoria liturgica, la vicenda umana di Charles de Foucauld, uomo “in missione per conto di Dio”, ma più con i gesti che con l’annuncio, in quella che l’autrice dell’articolo definiva una «missionarietà innovativa». Foucauld era convinto che proprio il suo modo di vivere dovesse essere la “carta di identità” del suo essere cristiano.
Ci possiamo chiedere poi perché Francesco preferisca toni più cauti rispetto a chi lo ha preceduto sul soglio petrino. La risposta è anche nel mutato contesto con cui il Papa si trova a fare i conti: l’incremento degli attentanti di matrice fondamentalista, la serrata propaganda del presunto Stato Islamico contro i “crociati”, l’esplodere del fenomeno migratorio. In una situazione simile, l’attenzione nei riguardi dei termini usati dev’essere molto alta. Se guardiamo ad un’altra risposta del Papa, sempre in conferenza stampa, quando è stata sollevata la questione dei rohingya, possiamo ricavare un’indicazione: «Per me, la cosa più importante è che il messaggio arrivi, e perciò cercare di dire le cose passo dopo passo e ascoltare le risposte, affinché arrivi il messaggio». L’ideale della comunicazione – per lui – non è quello di un adolescente che sbatte la porta in faccia all’altro, perché in questo caso il messaggio non arriva: al contrario, è proprio evitare quelle parole che diano l’impressione di una porta sbattuta in faccia. Al di là della questione specifica dei rohingya, c’è molto dello stile di Francesco in questo passaggio. Non significa scendere a compromessi con la verità, ma trovare modi più efficaci per comunicare l’annuncio. Che queste non siano elucubrazioni personali di chi scrive lo dimostra il n. 14 di Evangelii Gaudium: «rimarchiamo che l’evangelizzazione è essenzialmente connessa con la proclamazione del Vangelo a coloro che non conoscono Gesù Cristo o lo hanno sempre rifiutato […] Tutti hanno il diritto di ricevere il Vangelo. I cristiani hanno il dovere di annunciarlo senza escludere nessuno, non come chi impone un nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia, segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile. La Chiesa non cresce per proselitismo ma “per attrazione”». La spinta missionaria è ancora viva e vegeta e non tradisce il comando di Cristo.