Storie

di Mario Adinolfi

101 VERBI - COSE FATTE E SUGGERIMENTI

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Capisco qualcosa di me stesso quando gioco a poker e quando prego, attività che costano meno e rendono molto di più rispetto all’andare dallo psicanalista. Cognosce te ipsum, dicevano l’oracolo e il filosofo, avendo entrambi ragione. Mi accorgo che quando prego non chiedo mai nulla, ma ringrazio. Essì che ne avrei di cose che mi agitano il cuore, che mi fanno infuriare, che mi turbano l’anima e mi dovrebbero costringere a implorare un po’ come fa Mandrake con Mafalda sfilando impellicciato (vabbè, senza che andate su Google, la citazione è da Febbre da Cavallo e Mafalda è una mezza puttana a cui il buon Gigi Proietti si rivolge con la memorabile frase: “A Mafa’, c’ho certi cazzi che manco tu che sei pratica…”, lo so, non è elegante come la citazione socratica di prima, ma ho avuto fasi formative diverse). Ora, poiché ogni preghiera è un ringraziamento devo ritenermi una persona fortunata e alla fine per non sembrare proprio uno che bragga presso Dio, infarcisco il silenzio riportando intenzioni altrui, sperando che il tramite di un peccatore possa comunque combinare qualcosa affinché i loro desideri siano soddisfatti, i loro drammi consolati. Per i miei, basto io e non ho voglia di infastidire Dio: faccia quello che serve. Questo metodo non ha portato male e in questi giorni di vacanza mi è tornata voglia di scrivere di tutt’altro rispetto a quel di cui scrivo di solito, idee e politica prevalentemente, sempre con un’inevitabile vena problematica e se proprio volete anche polemica. Voglio scrivere del vasto campionario di esperienze maturate in queste decine di anni di vita, delle cose fatte insomma, sperando che diventino suggerimenti per voi quali cose da fare. Ringraziare è anche condividere e allora vai con i 101 diversi verbi che pensavo di far diventare un nuovo libro e che invece voglio regalare a voi che mi seguite sui social, alla fine per farvi i fatti miei e allora che siano raccontate le cose fatte, in una vita che è stata anche devastata e devastante, ma ha corso al ritmo serrato di una opera rock. Nessuno si è annoiato.

1. BERE UN CAPPUCCINO AL BAR DEL CAPPUCCINO
Bere è l’attività più semplice e necessaria dopo respirare. Sottovalutata, raramente descritta, sporadicamente apprezzata, spesso negletta e associata negativamente all’alcool. Io amo bere. E (vedete?) devo subito precisare: sono completamente astemio. Ma ho le mie fissazioni fin da quando da bambino papà mi fece scoprire una sorgente di acqua dolce e freschissima dietro la spiaggia di Sperlonga, mi ci tuffavo raggelando e bevevo e bevevo. Chissà se c’è ancora. Va bene, senza farla lunga, bevo acqua Sangemini, come i bambini, da sempre. Povera Silvia che deve trasportarne in casa casse intere. Una volta l’anno ordino quattrocentocinquanta lattine di acqua di cocco, non deve mai mancare in frigorifero. E poi bevo pinte di cappuccino, ma solo al Bar del Cappuccino, perché c’è Luigi Santoro che lo sa fare come solo Caravaggio sapeva dipingere, riconoscibile subito anche tra milioni di pittori. Luigi è così, il Paolo Conte del cappuccino (gli somiglia perfettamente ed è anche perfettamente silenzioso come lui, parla cioè solo se serve), dodici ore al giorno in piedi dietro la macchina del caffè nel suo piccolissimo bar di via Arenula a Roma. Da lui e solo da lui bevo anche il tè freddo, perché lo fa con i limoni di Amalfi, altro retaggio della mia radice paterna, sa che se non usa quelli me ne accorgo subito e mi incavolo e credo d’essere l’unico dei suoi millemila clienti a onorarlo con tanto apprezzamento del dettaglio. Poi Veronica, la figlia, mi prepara espressa la pizza bianca di Roscioli con un po’ di salmone, lattuga tritata, un velo di maionese fatta con le sue mani ogni giorno, quattro gocce dello stesso limone e io sono felice. Mi siedo, sempre da solo, sempre allo stesso tavolino dei tre disponibili sul marciapiede antistante e penso che serve semplicità per la bellezza. Quando finisco dico sempre a Adriano, l’altro figlio, quello che sta alla cassa, che devono alzare i prezzi, per un cappuccino osceno Starbucks fa pagare sei dollari, al Bar del Cappuccino si paga un euro e non è giusto. Impresa familiare contro multinazionale, la politica dei prezzi dovrebbe essere opposta. Invece. Approfittatevene, finché non sarà Starbucks ovunque, finché la diversità della bellezza di un bar-tista resisterà.

2. DORMIRE AL RAFFLES HOTEL DI SINGAPORE
Ah già, dormire. C’è respirare, c’è bere e c’è anche dormire tra le attività fondamentali. Peso molto, si sa. Trovare letti adeguati è una delle attività più complicate per chi come me vive da più di un quarto di secolo perennemente in viaggio, per motivi vari. Il letto più bello è quello del Raffles Hotel di Singapore, vorrei poterci morire da quanto è comodo, alzarsi è una vera impresa. Spero che anche qui si manifesti una resistenza, perché da quando questo meraviglioso hotel coloniale è stato acquistato da una multinazionale francese il primo effetto è stato…chiuderlo. Riaprirà l’estate prossima, mi dicono. Spero con gli stessi letti e gli stessi otto ristoranti, uno più impressionante dell’altro. A Singapore il Raffles è oasi, dentro la città-Stato più incredibile del mondo, in assoluto la nazione con la maggiore densità di popolazione, più di cinque milioni di persone (la metà stranieri) stipati di fatto in un’isoletta. Appena sali su uno dei ventottomila taxi cittadini all’aeroporto, ti accorgi subito dei palazzoni enormi che sembrano infiniti alveari. Arrivi al Raffles e vivi l’atmosfera coloniale inglese, che crea un contrasto straniante. Sudi le tue settanta camicie per le vie di un luogo dove fumare e persino sputare per strada è un grave reato e pensi alla straordinarietà del panorama asiatico, delle valanghe di soldi che pompa in un sistema capitalistico che sembra saper fare a meno della democrazia, che riesce a vietare di fatto persino l’acquisto di un’automobile ai suoi cittadini (sono troppi in troppo poco spazio, il traffico sarebbe ingestibile), che di fatto ha un passato da vecchio sistema coloniale europeo e un futuro da dominatori del mondo. Vuoi capire come sarà il domani, vai a Singapore. E per capire perché ci travolgeranno dormi nel comodissimo letto del Raffles Hotel, retaggio di un passato talmente bello da sembrare non più proponibile.

3. MANGIARE DA GORDON RAMSAY
Bere e dormire prima di mangiare. Sì, non lo direste forse, ma non sono uno di quelli fissati con il cibo. Pane, pasta e pizza bastano, sono a posto così. Qualche buon cornetto a colazione e non mi vedrete dare duecento euro a Cannavacciuolo o a Cracco, mi annoia la sola idea di dovermi vestire bene per andare al ristorante. L’unica eccezione la faccio per Gordon Ramsay nei cui locali, sia ben inteso, sono andato sempre in bermuda sentendomi perfettamente a mio agio. Il motivo per cui amo la cucina di Ramsay è il viaggio che mi fa fare verso sapori che non affronterei da solo, mi prende per mano insomma. Grazie a lui ho scoperto l’hummus molti anni fa, le uova alla scozzese, il manzo alla Wellington, lo sticky pudding. Il suo farm burger (con uovo fresco di gallina ruspante depositato sopra due strisce di bacon croccante, oltre a carne e panino e tutto il resto) è in assoluto il miglior hamburger che si possa mangiare al mondo, forse ora se la lotta con l’Hell’s Kitchen burger, infarcito di avocando e jalapenos. Sapete però soprattutto perché lo adoro? Perché i locali sono spaziosi, le cucine a vista, perché fa la pizza con il forno a legna e perché nonostante sia una superstar mondiale io non ho mai speso più di cinquanta dollari per mangiare in uno dei suoi trenta ristoranti. E non ho mai dovuto prenotare, al limite mi sono messo in fila e ho aspettato il mio turno. Prendano esempio gli chef nostrani che si credono intangibili divinità e per farsi dare mezzo stipendio mensile ti mettono pure in lista d’attesa.

4. OBBEDIRE
Dicono che ho un caratteraccio, tendente al comando e alla prepotenza. In realtà sono uno che ama obbedire. Ho obbedito a mia madre e mio padre, ai miei catechisti e ai miei professori, al vicepreside che comunque se disobbedivi ti menava e non l’ho mai considerato un problema, ovviamente ai preti e ai capiufficio, ai direttori che specie in Rai meritavano invece una costante disobbedienza civile. Ho una naturale tendenza alla disciplina e all’obbedienza derivata da otto anni di scuola cattolica piuttosto dura, che t’insegna a obbedire ai comandamenti e pure a Cristo, che male davvero non fa. Credo in una organizzazione gerarchica della vita e della società, con il principio di autorità che ha un suo significato. Nell’obbedienza c’è anche la forza del riposo che se ne trae, si fa quello che ti dicono di fare coloro che lo hanno fatto prima di te. Questo aiuta, certamente è decisivo nella fase di formazione della personalità, altrimenti si diventa canne al vento e i pericoli a quel punto diventano infiniti. Nel tempo in cui ognuno pretende di trovare senso nella libertà vissuta come autodeterminazione di ogni singolo, che finisce per legittimare qualsiasi comportamento, occorre rivalutare rapidamente la virtù dell’obbedienza. Perché dopo decenni di autodeterminazione senza freni, le persone sono radicalmente più rabbiose e più infelici, anche se i bisogni materiali sono diminuiti e le possibilità di conoscenza, di “affrancamento dalla schiavitù dell’ignoranza”, sono aumentate a dismisura soprattutto grazie a internet. C’è evidentemente qualcosa che non va se tutta questa libertà, se tutta questa possibilità di autodeterminare ogni aspetto del proprio destino, hanno finito per generare meno serenità e più consumo di psicofarmaci. Io ho sempre obbedito a coloro a cui ho riconosciuto il ruolo di autorità, cadendo e sbagliando ovviamente, ma mai disconoscendo. Non è stato un cattivo metodo.

5. CAMMINARE LUNGO LA SPIAGGIA DI DEAUVILLE
Poi, ci sono i posti. Quelli che ti si ficcano nella memoria e non ti lasciano più. L’avete mai visto il mare della Normandia, quello del famoso sbarco, di Salvate il soldato Ryan? Non è un mare qualsiasi, l’acqua è sempre fredda, le spiagge sono bianche e immense. Io non amo le frequentazioni turistiche militari, quindi per vedere le acque normanne sono finito in un gennaio a Deauville, piccolissimo comune che però ha una battigia attrezzata con una lunga passeggiata lignea proprio addosso alla spiaggia, tipo il boardwalk di Atlantic City, sono stato anche su quello, ma a Deauville ci camminava Coco Chanel, mica i mafiosi del proibizionismo Anni Trenta. L’atmosfera di questo paesello di quattromila anime ti fa venire in mente davvero la canzone, specie se ci finisci a gennaio: “Mentre tutto attorno è pioggia, pioggia, pioggia. E Francia”. Poi venne la neve, una nevicata immensa, infine la gelata. L’ho affrontata senza giacca, petto in fuori, come tutto sempre quando la bellezza te lo consente e la forza degli anni anche. Dovete andare a Deauville, altro che Parigi. I luoghi dell’anima sono piccoli posti, nascosti come gemme.

6. VEDERE LA DECOLLAZIONE DI GIOVANNI IL BATTISTA

Non amo Malta, fa sempre troppo caldo, è umida, ha un’acqua potabile salina perché depurata dal mare, con conseguenze drammatiche sulla cucina locale. Ma se volete vedere la tela più grande mai dipinta da Caravaggio, venti metri quadrati di capolavoro, dovete andare alla Cattedrale di San Giovanni de La Valletta. Caravaggio il pluriassassino, giocatore d’azzardo, indebitato, diffamatore, amante di donne sposate e picchiatore per giunta dei loro mariti, ubriacone e rissoso, condannato alla decapitazione per salvarsi è finito a Malta. Pure da lì fu cacciato, ma due anni prima di morire regalò ai maltesi la Decollazione di Giovanni il Battista e non potete dire di aver vissuto senza averla vista, perché il genio assoluto dell’unico pittore che è ancora amato come una rockstar non può non essere omaggiato. Il mantello rosso del santo mentre sta per essere ucciso è una macchia che si pianterà come uno stendardo nella vostra memoria, promesso.

7. MORDERE UNA LINGUA DI ROSSA DI PASSI
Non sono romano, sono testaccino. Roma ha molti quartieri noti, da Trastevere ai Parioli, ma se a un romano chiedi qual è “er core de Roma”, ti manderanno in questa zona sorta attorno al Monte dei Cocci, gravitante da quasi un secolo attorno alla chiesa di Santa Maria Liberatrice, la prima parrocchia visitata da San Giovanni Paolo II nel suo pontificato e io c’ero e gli ho servito messa. Sono ovviamente un testaccino anomalo in questo quartiere dove essere romanisti è un obbligo e essere comunisti lo era. Io diventai per reazioni subito juventino e a tredici anni, il 4 marzo 1985, entrai per la prima volta nella locale sezione della Democrazia Cristiana, in via Romolo Gessi. Oggi ovviamente non c’è più, non c’è manco la sezione comunista (se la sono litigata piddini e scissionisti vari), né quella socialista trasformata prima in una palestra e poi in un teatrino. Ci sono ancora invece la processione di fine maggio della statua di Santa Maria Liberatrice e il panificio dove tutti i testaccini vanno a comprare le rosette e la pizza. Si chiama Passi e mordere una lingua di pizza rossa (con o senza funghi) sfornata da questa piccola bottega magica che chissà per quanto ancora riuscirà a resistere, è un’esperienza che riterrete necessario ripetere e ripetere e ripetere ancora. Croccante ma morbida, oleosa in maniera non fastidiosa, saporita e dalla forma assolutamente anomala, come una lingua appunto: uno dei piaceri a cui non dovete assolutamente rinunciare. Dopo, vi sentirete di voler diventare testaccini anche voi.

8. LOTTARE IN POLITICA
Scriveva Karl Marx che felicità è la lotta. Non aveva torto, c’è nella lotta politica un senso di compimento di una missione, di un ruolo, che consente di sentirsi in quella difficile intersezione dove il proprio essere e il proprio voler essere coincidono, costruendo armonie. La politica è tosta, è divisiva, comporta attacchi continui e inevitabili, assalti sul piano personale e per chiunque abbia a cuore principalmente una propria professione è meglio stare lontani da una dimensione attiva, può creare solo guai. Eppure ha ragione il beato Paolo VI, non c’è forma più alta di carità, forse proprio per tutte le controindicazioni sopra elencate. Ho lottato politicamente per tutta la vita, ho avuto l’onore di sedere in Parlamento e non ho mai tirato dietro la gamba, accettando l’ovvia dimensione di conflitto che tale lotta comporta. Ho sempre, fin da ragazzino, capito e cercato di spiegare che se vuoi cambiare concretamente e in meglio la vita della persone, se lo vuoi fare davvero e non a chiacchiere, non puoi ignorare il territorio della politica. Anche se molte volte sono stato tentato dal lasciare perdere tutto, alla fine non l’ho mai fatto. Spero di mantenere sempre la tenacia necessaria.

9. TEMERE LA MORTE A CIUDAD DEL ESTE
C’è una città all’intersezione tra Paraguay, Argentina e Brasile che è un luogo senza tempo e senza legge, uno sconfinato mercato totalmente aperto dove si dice che ogni droga venga spacciata e gli hezbollah libanesi si riforniscano di razzi e bazooka per puntarli su Israele, un luogo insomma dove si compra e si vende di tutto. Diciamo, senza scontrini. Pensavo fosse una città solo leggendaria, una Babilonia mista a una Samarcanda, ma quando ho scoperto che potevo visitarla davvero non ho esitato: sono andato a Ciudad Del Este. Non è un posto in cui vai a fare una passeggiata, ho dovuto accettare di arrivarci scortato da un autista armato. Baldanzoso ho cominciato a fare qualche domanda ai commercianti, fingendomi interessato ai prodotti tecnologici, ma più parlavo più capivo che stavo andando oltre una linea che non mi avrebbero consentito di attraversare. E per rendermelo più chiaro a un certo punto è arrivata una macchina priva di targa con quattro tizi che non sembravano simpatici e armati di mitra. L’autista mi ha fatto capire che bisognava tagliare la corda, io ho sinceramente temuto di morire lì, a qualche passo dal fiume Paranà, dove mi avrebbero lasciato a dormire con i pesci. E ho capito il significato della parola “pericolo”.

10. ANDARE IN AUSTRALIA
Ho una seconda patria, non per modo di dire, ho proprio cittadinanza e passaporto e tutto il resto. L’Australia è la terra di mamma, la prima nazione estera in cui sono stato da bimbo, già nel 1973, forse quella per cui serbo l’amore più profondo. Quanto è lontana l’Australia, quanto è grande, quanto è bella. Lì ho imparato a giocare a golf, lì ho firmato il mio primo autografo (avevo la nonna scrittrice che mi fece protagonista di un libro per bambini piuttosto noto uscito nel 1978), lì ho mangiato i miei primi crostacei. Sydney è, dopo Roma, la città più bella del mondo con quel porto meraviglioso e il ponte che lo sovrasta e l’Opera House, incrocio perfetto di splendore naturale e architettura umana. Nazione fondata da galeotti, grande come l’Europa intera ma con soli venti milioni di abitanti, ho finito per omaggiarla dedicando il mio unico disco che si intitola appunto Downunder e ha come primo brano proprio Australia. Vorrei andare e non tornare, viverci per sempre. Poi ci penso bene e non lo faccio mai.

11. VOMITARE L’ANIMA PENSANDO A MISSION
Avete presente il prete gesuita di Mission che suona l’oboe dentro la foresta? Sì, la più bella colonna sonora di sempre, firmata Ennio Morricone, per un film che ha l’incipit che mi sconvolse da ragazzo (la pellicola vinse la Palma d’Oro a Cannes nel 1986). Un sacerdote sempre gesuita viene crocifisso e lasciato in preda alla corrente del fiume Iguaçu, affrontando sballottato prima le rapide e finendo risucchiato dalla cascata più potente del mondo. Insomma, la scena è così bella e terribile che appena ne ho avuto la possibilità ho voluto andare a vedere con i miei occhi i luoghi dove venne girata. Così finii in Argentina e poi a attraversare il confine con il Brasile al Nord per ritrovarmi a Foz do Iguaçu. Le cascate le ho viste e vi assicuro che se vi capiterà, dopo ogni altra cosa vi sembrerà un rigagnolo. La Garganta del Diablo, in territorio argentino, doveva costituire però per me monito a partire dal nome. Tornato a Foz ho avuto il più terribile attacco di vomito e dissenteria della mia vita, l’acqua di quel fiume così massicciamente protagonista della pellicola l’aveva fatta pagare anche a me, avvicinarsi troppo a tanta possente bellezza ha un prezzo. Sono stato attaccato alla tazza del cesso tutta la notte. Mannaggia a me e a Mission, che resta comunque tra i cinque migliori film di sempre e la scena finale con la morte di Robert De Niro e Jeremy Irons da preti in modi diversi combattenti è da brividi, come lo è stata quella notte.

12. RIDERE

Avete presente quanto fa bene ridere? Quand’è la prima volta che avete riso fino a non poterne più, di pancia? Livia non può ricordarlo perché non aveva neanche un anno, ma da papà venticinquenne un po’ scemo mi divertivo a farle il solletico per vederla ridere come solo i bambini piccoli sanno fare, eco cristallino degli angeli. Prima ancora, da ragazzino, ricordo le risate da solo sembrando mezzo pazzo per Fantozzi, ma il libro, che venne prima del film. Una lettura esilarante, che mi faceva esplodere in ghigni rumorosissimi. E le risate al cinema per Non ci resta che piangere, Benigni e Troisi, soprattutto Troisi quando spaccia per sue composizioni ad Amanda Sandrelli sia Yesterday che l’Inno di Mameli. E a teatro per Eduardo ma anche per Salemme (dal vivo è una forza della natura) o in tv per Jim Parsons, il nuovo Buster Keaton, che in The big bang theory impersona il fisico teoretico Sheldon Cooper, facendo ridere senza ridere mai. Con Silvia poi coltiviamo la passione per la commedia trash all’italiana, il cinepanettone insomma, nulla ci fa star bene come uno stupidissimo Natale a Miami. Io poi ho una devozione per Checco Zalone, forse più bravo anche di Alberto Sordi, ma pure per Carlo Verdone che è meno bravo ma ne è l’unico vero erede. E poi la serie tv Boris (il film meno), i fumetti di Calvin e Hobbes, anche quelli di Zerocalcare, i video su YouTube dei The Jackal. Tutta una vita a ridere vorrei trascorrere. Ridere fa bene.

13. VINCERE UNA MANO DECISIVA AL WORLD POKER TOUR
Contro di me è stata sempre usata la qualifica di “giocatore di poker”, un po’ per sminuire la mia serietà, un po’ per descrivermi come una sorta di amante dell’azzardo. Ho giocato e gioco a poker in modalità torneo sportivo perché è la perfetta metafora della vita, perché ti insegna a prendere decisioni calcolando i rischi, perché ti permette di capire perfettamente come sei fatto e migliora i tuoi limiti, perché ti aiuta a capire pregi e debolezze degli altri, da ultimo perché sono piuttosto bravo. Sono tra i pochissimi italiani a poter vantare un doppio tavolo finale al World Poker Tour e piazzamenti di prestigio in tutti e tre i circuiti internazionali che più contano al mondo: World Series of Poker (le olimpiadi), World Poker Tour appunto (i mondiali), European Poker Tour (gli europei). Il tutto senza aver mai fatto del poker la mia occupazione esclusiva. Chi accosta poker e gioco d’azzardo non sa di che parla. Giocare d’azzardo vuol dire comprare i gratta e vinci, sperare nel superenalotto o andare davanti a una slot: vuol dire pagare la tassa sulla cretineria che uno Stato infame piazza sugli strati più deboli della popolazione. Ma al tavolo finale del World Poker Tour non arrivi per caso o per azzardo. Giochi quattordici ore al giorno, per giorni, affronti momenti delicatissimi, non devi mai sbagliare e devi vincere le mani decisive con intelligenza e sangue freddo. Se fai questo puoi guadagnare, mi è capitato, più di centoquindicimila euro in quattro giorni. Ma devi avere una fibra d’acciaio e due palle di granito. Ricordando che il poker sportivo è, anche per la legge italiana, un gioco d’abilità (uno skill game), non un gioco d’azzardo. Il poker andrebbe insegnato nelle scuole. Io l’ho insegnato fin da piccole alle mie figlie. Se non avete mai giocato, imparate. Non vi farà male. Capirete molto, forse tutto, di voi stessi e un pochino di più di quelli che vi circondano.

14. PIANGERE PER CHI MUORE
Ho una certa consuetudine con la morte, la mia “sterminata famiglia” d’origine che va da Salerno a Sydney l’ho chiamata così perché è finita sterminata davvero. Nonni, papà, l’unica sorella, tutti morti. Siamo rimasti io e mamma. Ho dunque anche una vasta casistica del dolore dall’ictus fulminante alla lunga e penosa malattia, dalla demenza senile al suicidio. Eppure, perché alla morte non ci abituiamo mai? Non c’è niente da fare, ho una scorza dura, eppure piango e piango e piango. Ho fede, credo che ci ritroveremo, credo nella resurrezione dei morti, ma quando mi muore qualcuno accanto piango disperato. La sensazione della perdita definitiva e senza appello, il corpo esanime, la macchina perfida dell’onoranza funebre inevitabilmente cinica, l’odore dei fiori da funerale, tutto contribuisce a un malessere che non ho mai imparato a trattenere. Piangere per chi muore è in realtà piangere per noi stessi che restiamo senza l’affetto di colui che ci ha lasciato. Dicono che in passato ci fosse un rapporto più naturale con la morte, meno isterico, forse più genuinamente religioso. Io resto quello delle lacrime irrefrenabili. Quest’estate è morta la nonna di Silvia, aveva 94 anni, l’avrò vista otto volte in vita mia. Eppure ho pianto. L’elemento della nostra finitezza mortale è evidentemente la questione sostanzialmente più tragica dell’esistenza umana. Lo rimuoviamo dai nostri pensieri, ma sta lì. Ad ogni decesso percepito quale prossimo, come un singhiozzo amaro, risale su. E ci pervade.

15. SCAPPARE A SAN PAOLO DEL BRASILE
Toda joya, toda beleza, sì tutto bello ma quando arrivi in aereo a San Paolo del Brasile e vedi la sterminata favela di una delle metropoli più belle e pericolose del mondo, un qualche brivido ti corre attraverso la schiena. E vai ai numeri. La guerra in Siria dura da sette anni e ha fatto quattrocentomila morti. In Brasile nello stesso periodo sono morte per omicidio quasi mezzo milione di persone, più di 62.000 nel 2016, ultimo anno con statistica completa. Più di mille omicidi l’anno vengono commessi a San Paolo. A Roma, per capire il paragone, se ne registrano meno di trenta da anni. Così quando per lavoro sono dovuto andare in questa città così lontana ma così decisiva per l’economia di un intero continente, cercavo di non muovermi mai dall’Avenida Paulista, l’immenso viale centrale che è il cuore pulsante forse di tutto il Brasile. Spinto dalla fame mi sono però a un certo punto infilato in una traversa e poi in un altra, a caccia di un panino. Pochi passi e voltandomi ho notato di essere seguito da un giovane con capelli mossi e folta barba nera. Avevo letto le cronache di turisti costretti a andare al bancomat, ritirare più soldi possibili e poi uccisi dopo averli consegnati. Avevo l’aria del turista? Mi sono risposto subito: sì. E mi sono ritrovato a scappare, scappare davvero. Ed ero davvero inseguito, Barbanera mi è venuto appresso, finché non ho trovato miracolosamente la agognata paninoteca per fortuna affollata e mi ci sono fiondato dentro restandoci un paio d’ore appollaiato ad un tavolino, per i primi dieci minuti letteralmente tremando. Suggestioni di un fifone? Probabile. Forse avevo visto City of God, tremendo film sul valore della vita nelle megalopoli brasiliane, rimanendone troppo impressionato. Forse quell’arrivo in aereo con l’immagine negli occhi delle baracche della infinita favela non ha aiutato. Certo che l’immagine del Brasile tutto samba e carnevale io non ce l’ho. Una terra meravigliosa, ma in cui non vado volentieri, da cui volentieri scappo.

16. SALIRE ALL’ULTIMO PIANO DELLE TORRI GEMELLE
Ricordo quando salii all’ultimo piano della torre nord del World Trade Center a New York, una mattina in cui il cielo era irrimediabilmente azzurro, ero con una ragazza ma avevo occhi solo per quel miracolo del poter stare a quasi cinquecento metri d’altezza avendo la sensazione di quanto l’uomo potesse essere ambizioso e ammirando la sconfinata Manhattan, la lingua di terra appoggiata sull’Hudson River e pensando che gli americani erano i veri eredi di Roma. Noi con il nostro Colosseo che sta su da duemila anni, il nostro Cupolone che regge da mezzo millennio, loro capaci di costruire l’icona architettonica chiave che ci avrebbe accompagnato nel terzo millennio destinata a restare simbolo imperituro della massiccia creatività dell’uomo. Dove eravate quando le torri sono state colpite, dove quando sono venute giù? Ce lo ricordiamo tutti, abbiamo tutti un episodio legato a quel giorno. Io camminavo per corso Vittorio Emanuele a Roma, un mio amico medico mi incrocia con la macchina, la ferma e mi viene incontro per dirmi quello che stava ascoltando alla radio. Massimiliano è sempre stato un professionista serissimo e un giocherellone, una di quelle persone che insomma piacciono a me, quindi quando mi dice di due aerei che si sono andati a schiantare sulle Torri Gemelle io credo che mi voglia prendere in giro. Lui insiste. Mi precipito in un bar dove un capannello guarda silenzioso le immagini ormai arcinote. Il cielo azzurro senza nuvole era esattamente lo stesso.

17. AMARE

Avrei dovuto scrivere “essere amato”, ribaltare al passivo almeno uno di questi 101 verbi. Vi rendete conto della fortuna, della gioia, della gratitudine? Essere amato da genitori, figlie, amici, moglie è ogni volta un miracolo che si rinnova, specchio dell’amore di Dio per noi. Amare in dimensione attiva è più complicato. Come si ama? A Silvia lo spiego così: “Io ti respiro, anche se sono a diecimila chilometri di distanza”. E tante volte è capitato che fossi davvero a diecimila chilometri di distanza. Ma l’amore è quello, filo di unità indissolubile che sa superare la dimensione spazio-temporale, che non necessita del qui e ora, che li trascende entrambi. Amare deve essere questo, è difficilissimo, perché occorre impicciarsi, pre-occuparsi, stare in ansia, essere capaci di totale abbandono, dichiararsi pronti a soffrire per questo. E poi mediare, aggiustare, sopportare, parlare anche quando non ti va, tacere se serve, pazientare. Tutto questo senza vantaggio, sembra un’operazione unicamente in perdita, eppure è la sola a farci stare davvero bene, proprio perché veramente gratuita, affrancata dal ricatto sempiterno del do ut des. La straordinaria bellezza dell’amore della madre per un figlio è ovviamente la fotografia perfetta del sentimento. Noi proviamo poi a replicarla nei rapporti che contano, ma ogni volta che abbiamo un dubbio su cosa significhi davvero amare, andiamo alla radice, andiamo da una mamma. Mi verrebbe da dire andiamo da Maria, ma poi mi danno del bacchettone. Ma l’amore perfetto è lì e genera l’amore di Dio per noi.

18. FARE FIGLIE
Non so più come dirlo, lo ripeto a tutti i ragazzi, smettetela di cazzeggiare, fate figli. Mica dico sia facile, ma porco Giuda, davvero in Italia l’età media (e dico, media) in cui si fa il primo figlio è 35 anni per gli uomini e 32 per le donne? Ora, a me è capitato di fare figlie (sì, solo femmine, maschi niente) fin dall’età di 24 anni. Mia mamma mi ha partorito a 24 anni. Silvia ha fatto nascere Clara a 23 anni (io sono arrivato in sala parto a Forlì con qualche disgraziatissimo minuto di ritardo, dopo aver afferrato il solito treno in corsa). Ora, e mi rivolgo ai lettori giovani, dovete capirlo bene: non date retta alle minchiate sulla libertà, l’autodeterminazione, la carriera, prima la casa, prima il lavoro, prima il mutuo. Tutte puttanate. Se davvero volete essere liberi, ricordatevi che si è liberi solo in due, altrimenti si è più banalmente soli. Quando sta cavolo di anima gemella l’avete trovata, che poi non è mai gemella gemella e bene così, non perdete tempo: fate figli. E tutto il resto verrà conseguentemente. Andai via di casa prima dei vent’anni, traumaticamente, senza una lira e andando a dormire in un antro con altri dieci giovani maschi decisamente poco inclini all’igiene. Grazie a quell’esperienza mi sembrò un’apparizione miracolosa quella di una donna che addirittura sapesse spolverare e finii sposato a ventuno. Come si sa, col senno del poi, non fu una grande idea ma resta quella meraviglia di settimana a New York del dicembre 1995 dove facevano sedici gradi sotto zero e allora non potemmo fare altro in quell’hotel fatiscente sulla cinquantaseiesima. Una figlia scoperta come regalo di Natale e tutto è cambiato. Ragazzi, fate figli e tutto cambia. Lavorerete con più lena, si accenderà l’inventiva, farete di tutto perché sarete responsabilizzati e dunque finalmente davvero liberi. Perché essere liberi non è fare quello che vuoi, ma avere la possibilità di scegliere e alla fine scegliere il tuo bene. Non c’è stato bene più grande per me del fare figlie.

19. INCONTRARE
Qual è stato l’incontro decisivo della vostra vita? Pensateci bene, alla fine la chiave di volta della vita sta nell’essersi messi nella disposizione d’animo necessaria ad incontrare. E incontrare è la scintilla che accende il fuoco. Paul Simon canta un piccolo capolavoro di inno alla solitudine nella sua “I am a rock”, spiegando che se l’uomo diventa un’isola poi come una roccia non può provare dolore, come un’isola non può versare lacrime. Il bello è che invece come spiega John Donne, nessun uomo è un’isola. Attenti però agli incontri, tu ti metti lì ben disposto a fare il bravo bambino socievole ed è un attimo a ritrovarti con Lucignolo, tipo che sa anche essere divertente, ma poi ci si perde. Nella mia vita ho cercato sempre l’incontro con persone migliori di me, alla fine sono riuscito a collezionarne tante: mia sorella, il mio amico Carlo, alcuni giornalisti e alcuni politici di cui non farò i nomi per evitare inutili polemiche, Silvia, padre Maurizio Botta, San Giovanni Paolo II, il mio nonno acquisito Gus O’ Donnell, Silvano Albanese oggi noto come Coez, Francesco Cossiga, il bar-tista Luigi Santoro, Kiko Arguello, Jim che faceva il dealer a Las Vegas e mi ha insegnato a capire l’America vera, l’elenco potrebbe essere sterminato. Con tutti costoro l’incontro fisico è stato determinante, la scintilla derivante ha davvero acceso un fuoco. Poi c’è la faccenda dell’incontro con Cristo e con l’evento determinante della sua croce e resurrezione, faccenda che cambia completamente il senso della tua vita con una semplice domanda: è risorto o no? Tutta una favoletta per rassicurarci e rendere sopportabile con un’illusione l’angoscia della morte, oppure qualcosa ancora una volta di fisico, carnale, vero? Ognuno dia la sua risposta e sia conseguente.

20. SCOPRIRE SAN LUIGI DEI FRANCESI
Ora, io ho vissuto a pochi passi da San Luigi dei Francesi per anni. Ma, insomma, se vivi al centro di Roma in quel quadrilatero dell’assoluta bellezza unico al mondo che va dal Pantheon a piazza Navona a piazza Venezia a Campo de Fiori, davvero per anni puoi non accorgerti di quella che è peraltro pure la chiesa nazionale a Roma dei cugini d’Oltralpe, non i più simpatici dell’orbe terracqueo. Poi però succede che arriva un giorno che ti va di pregare un po’ e la chiesa più prossima che allora per me era quella che a Roma è nota coma “la chiesa dei cornuti” per via di una curiosa testa di cervo collocata in cima alla facciata, non fosse la più adatta (in realtà non è neanche una semplice chiesa ma una basilica, la basilica di Sant’Eustachio, santo che si è convertito al cristianesimo per una visione avuta durante una battuta di caccia, di qui il cervo). Dunque, se escludi la chiesa dei cornuti e sei lì davanti e non hai voglia di camminare tanto hai due scelte: vai e destra per Santa Maria sopra Minerva o a sinistra per San Luigi dei Francesi. A Santa Maria sopra Minerva c’ero già stato, troppo ricca, troppo sovrabbondante, troppo frequentata per via delle spoglie mortali della patrona d’Italia santa Caterina da Siena, del patrono universale degli artisti Beato Angelico oltre che di cinque papi, con monumenti funerari firmati dal Bernini sparsi qua e là dentro un’architettura progettata dal Maderno. Troppa roba, mi sono detto. Andiamo dai francesi, va. Ero ragazzino, mica sapevo. E in effetti appena entrato la chiesa sembrava quella adatta, era deserta. Mi metto su una panca, inizio la preghiera e sento: tluc. Luce fioca da sinistra. Mormorio. La luce dura un minuto. Poi si spegne. Bene. Spiego al Signore la mala parata, mi beo del silenzio che è la migliore risposta. Di nuovo: tluc. Luce fioca. Mormorio. Torna il buio. E cavolo fammi andare a vedere e incrocio un drappello che si dirige verso l’uscita, un pugno di giapponesi. Manco so’ francesi questi. Vado nella direzione da cui ho visto provenire la luce, nella navata di sinistra, in fondo. C’è un anziano sacerdote, mi guarda, io guardo lui. Senza dire niente si fruga nelle tasche, tira fuori duecento lire, bella la moneta da duecento lire, sembra d’oro. Me la mostra, devo sembrargli straniero. Tluc. E luce fu. C’è Gesù che chiama Matteo il pubblicano, lo indica con il dito, Matteo pure usa un suo dito incredulo: “Ma che dici a me?”. Un fascio di luce, dipinta, inquadra da destra a sinistra la scena con una modernità che mi pare cinematografica. Ma chi può essere così geniale da dipingere in quel modo la luce? Ho speso molte monete da duecento lire quel giorno per vedere e rivedere la Vocazione di Matteo, Matteo e l’Angelo, Il martirio di Matteo. Il trittico capolavoro di Caravaggio della Cappella Contarelli di San Luigi dei Francesi. Gratuito, per tutti, simbolo assoluto dello scrigno di inestimabile valore contenuto nelle chiese di Roma, messo a disposizione della comunità e di ogni singolo turista senza chiedere nulla in cambio se non qualche spicciolo se si vuole vedere meglio tanta indescrivibile maestria. Questa è la grandezza di una città che non ha eguali al mondo e non finirò mai di conoscere, con gratitudine, perché dietro ogni angolo puoi trovare la sorpresa che non t’aspetti e restare lì ad ammirarla. Tluc. Luce fioca. Poi la bellezza.

21. GIOCARE A FANTACALCIO CON GLI AMICI

Giocare e amici sono due parole determinanti della mia vita. Il ponte che le unisce si chiama fantacalcio. Avete presente quella malattia che prende qualche milione di maschi italiani in coincidenza con il campionato? Fai l’asta, manda la formazione, completa i conteggi, segui con passione persino Udinese-Frosinone perché il tuo terzo attaccante è in campo. Cose così. Che poi il fantacalcio è solo una scusa, per sentirci ancora quasi bambini e sfottersi con gli amici, in quel cameratismo che è solo maschile e che le femmine guardano con ragionevole compassione. Noi giochiamo al fantacalcio dal 1993, abbiamo scritto pure un regolamento che è più intricato del codice di procedura civile e che chiamiamo Grundnorm in omaggio a Kelsen, siamo più o meno sempre gli stessi, per ogni asta Silvia ci prepara le tartine ai gamberi, nel fine settimana ci massacriamo di messaggi whatsapp a quando la stagione si conclude sentiamo tutti una immediata nostalgia e non vediamo l’ora di ricominciare. I maschi, con i loro riti, i loro giochi, in quel legame disinteressato che si chiama amicizia che vive di leggerezza e pretesti per stare insieme. Qualcosa di irrinunciabile, per non invecchiare subito irrimediabilmente.

22. TIFARE JUVENTUS
Alla Juve sono stato legato fin da piccolissimo, l’ho raccontato tante volte, Testaccio è giallorossa senza via di scampo, dunque mi sono subito iscritto ai bastian contrari. Amo la Juve per la sua storia più che centenaria, certamente per le sue vittorie, per i campioni senza tempo come Sivori, Platini e Del Piero, ma il sentimento s’è cementato per via di una serie di vicende tristi che rendono la storia di questo club davvero unica: la tragedia dell’Heysel, la morte di Andrea Fortunato, il tentato suicidio di Gianluca Pessotto, l’annegamento dei due giovanissimi a Vinovo, l’onta della retrocessione in serie B con ignominia, il decesso precoce sia di Giovannino che di Edoardo Agnelli. Grandezza sia nella gioia che nel dolore, con il paradosso del 2006 anno in cui la Juve ha dodici giocatori nella finale mondiale di Berlino Italia-Francia ma neanche due mesi dopo si ritrova a esordire nel campionato cadetto con il Rimini per via di Calciopoli. Da ogni tragedia, sportiva e non, la Juve però si è immediatamente rialzata: è “mas que un club”, è un modo di affrontare la vita, con estrema tenacia, anche quando sembrerebbe impossibile rialzarsi. Ricordo un recente campionato in cui la Juve si ritrovò a fine ottobre al quattordicesimo posto. Bene, quel campionato lo vinse. Il motto dei tifosi bianconeri è: fino alla fine. Direi che non potrebbe esserci impegno più azzeccato.

23. RESISTERE ALLE DONNE DI KIEV
La chiamano “la città delle cupole d’oro” ed è riduttivo, quella è solo una porzione di Kiev, la capitale dell’Ucraina. Un luogo dell’anima dove ti senti randagio ed esposto. Un luogo di estreme ricchezze e di assoluta povertà, di vodka che scorre a fiumi, per stordirsi e dimenticare. Anche un luogo pieno di gioventù ed è forse da giovani che bisogna andare a Kiev. Poi ci sono le donne ucraine, di una bellezza accecante, sono i loro seni le vere cupole d’oro: davvero non riesco a ricordare una ventenne di Kiev brutta. Allo stesso tempo la povertà, le umili origini, l’alcool costituiscono un mix furibondo che genera ansia da riscatto sociale e le spinge a considerare l’abbordare un “occidentale” la scorciatoia migliore per la felicità. Kiev è l’unico luogo del mondo che io abbia visitato dove ogni trecento metri trovi un vero e proprio negozio dove vendono “spose”: sono agenzie matrimoniali dai nomi rassicuranti (In love forever, Amore vero, Ukranian lovely girls) che piazzano ragazze di Kiev a occidentali sfigati in cerca di moglie, italiani ovviamente primi clienti. Nella zona orientale dell’Ucraina c’è una città intera, Mykolaiv, la cui economia è interamente basata sul turismo a finalità matrimoniale, la chiamano “la città delle mogli”. Il corpo femminile, d’altronde, a Kiev è in vendita multiuso: la capitale ucraina è anche la capitale europea dell’utero in affitto, senza regole e senza documenti, in mano totalmente a un libero mercato senza scrupoli. Quel che negli Stati Uniti si fa con centocinquantamila dollari a Kiev si fa con trentacinquemila euro, la ragazza partorisce e firma un foglio di rinuncia al bimbo, gli acquirenti vengono registrati a Kiev come effettivi genitori del neonato. Poi c’è la prostituzione. Ricordo che ogni sera tornare in camera da solo era una vera impresa, le ragazze ti aspettavano anche davanti all’ascensore del piano, una sorta di agguato in cui non c’era neanche un patto esplicito di pagamento della prestazione, si fingevano davvero interessate a te, offrivano la “girlfriend experience”. Kiev è il luogo dove ho maturato definitivamente la totale avversione alle pratiche che sviliscono il corpo femminile, corpo magnifico nel caso delle ventenni ucraine, con la loro pelle meravigliosamente candida, la loro bellezza apparentemente virginea, con quegli occhi quasi sempre azzurri sul cui fondo però è facile leggere la traccia della malinconia. Ho provato odio e disprezzo per tantissimi occidentali, troppi italiani, che se ne approfittavano per raccontare al mattino dopo in sala colazione dell’hotel le loro in realtà poco mirabolanti imprese sessuali. Le mogli non si comprano in agenzia, le madri non si affittano, le notti di passione non si accendono con le banconote: le donne non si pagano. Meno che mai le bellissime donne di Kiev.

24. PORTARE TUA FIGLIA A LONDRA PER IL RE LEONE
C’è nella paternità una dimensione protettiva, certo, che si acuisce quando si è padre di femmine. Ora, mancandomi il maschio da portare alla partita e allenare alle metafore guerresche da stadio, ho scelto per le femmine che ho generato la strada del padre-Virgilio: accompagnatore alla scoperta del mondo che non conoscono. Clara ha preso il primo aereo da neonata, ha trascorso a Parigi la sua prima Epifania, prima dei due anni aveva già una maglia del Barcellona addosso e festeggiava la Champions appena conquistata sulla Rambla. Ma è con Livia bambina che mi sono impegnato in una serie di viaggi papà-figlia che spero siano depositati nella memoria come cartoline indelebili: Budapest, Berlino, Vienna, Copenhagen, ogni estate una capitale europea diversa. Ricordo quando a Londra la portai a vedere il Re Leone musicato da Elton John e Tim Rice. Avevamo visto il cartone animato ed era da poco uscita la versione teatrale europea, dopo il trionfale esordio a Broadway. A Londra era approdato nel West End, al Lyceum Theatre, una enorme sala da oltre duemila posti (segno della cultura teatrale londinese, a Roma la sala più grande che ospiti una programmazione quotidiana è l’Eliseo e ne ha meno di mille). Chi ha visto il Re Leone in cartone animato sa che la scena che fa da incipit è la presentazione di Simba, figlio del Re Leone Mufasa, a tutti gli animali della savana dal picco di una roccia. Mi chiedevo come mai avrebbero potuto rappresentare una scena cosi complessa dal vivo. Si spengono le luci in sala, sento la piccola seienne fremere appena parte il grido di richiamo e poi parte la musica. Da ogni corridoio, anche accanto a noi, passano gli “animali” che vanno a confluire sotto il palcoscenico in un tripudio assolutamente geniale di leve colorate azionate da ballerini che insieme impersonano a rappresentato elefanti, giaguari, uccelli, giraffe e ogni genere di fauna. Una emozione unica, trionfale. Mi ha raccontato mia madre che ha riportato Livia ormai ventenne a rivedere il Re Leone a Londra nello stesso teatro quindici anni dopo e che l’ha vista piangere.

25. SCOMMETTERE
La spiegazione che m’ha definitivamente convinto fin da piccolo ad essere uno che crede in Dio me l’ha regalata un filosofo giansenista del Seicento, matematico e inventore del calcolatore, che si chiama Blaise Pascal. Il concetto è semplice e si chiama “la scommessa”. La scommessa della fede in Dio è straordinariamente bella e, appunto, convincente: puoi solo vincere. Se Dio esiste e hai creduto, hai vinto. Se Dio non esiste e hai creduto, non hai perso niente. Chiaro, cristallino. E così nella vita sono diventato uno scommettitore alla ricerca perenne della “sure bet”, della scommessa sicura, in un mondo in cui ci hanno voluto inculcare l’idea che niente sia certo e tutto opinabile. Ci ho pure scritto su un romanzo, “La ricerca della Costante”, che poi è il romanzo della mia vita. Con un gruppo di amici abbiamo messo su pure un betting group, la Scommessa Collettiva (SC) e in effetti da tredici anni vinciamo sempre: come? Scommettendo sulle costanti. La Juve vince il campionato da sette anni consecutivi, il Celtic Glasgow anche, in Bayern Monaco da sei anni, il Paris Saint Germain ne ha vinti sei negli ultimi sette anni, Barcellona e Real Madrid si sono divisi gli ultimi quattordici scudetti con una sola eccezione (che conferma la regola). Puntando sempre e solo sulle costanti alcuni di noi della SC sono diventati milionari (per entrare in SC: [email protected]), altro che l’altalenante borsa, altro che il mattone, altro che l’oro o i diamanti. Esistono betting group statunitensi che valgono centinaia di milioni di dollari. Perché la ricchezza, il Sacro Graal dell’essere umano è la scoperta della Costante. Lo spiega benissimo una puntata di Lost, che fin dal titolo della serie fa capire che viene rappresentata una umanità perduta, il plot racconta le vicende di alcuni “sopravvissuti” allo schianto aereo su un’isola sconosciuta e irraggiungibile: più perduti di così. In una puntata (la quinta della quarta stagione) intitolata appunto “La Costante”, uno dei personaggi per salvarsi deve raggiungere telefonicamente in condizioni proibitive la amata Penny, la sua “costante” appunto. Curiosamente nella serie tv il personaggio si chiama Desmond Hume in un contesto di scrittura a cui a molti personaggi sono stati assegnati nomi di filosofi, il più noto dei quali è John Locke. Ebbene David Hume è il famoso filosofo empirista inglese del conflitto tra essere e dover essere. Ebbene, fate la vostra scommessa, scegliete la vostra costante. Senza, è impossibile vivere. Con, vivrete un’esistenza ricca e a suo modo pacificata. Piantate un palo in questo terreno che smotta della contemporaneità e reggetevi forte ad esso. I filosofi empiristi e i matematici come Pascal vi dicono che, soprattutto, è conveniente. Scommettete, prendete parte, scegliete, non fate che sia la vita a scegliere per voi, non conviene. Dio conviene, amici miei. Sarà la vostra scommessa migliore, impossibile perdere.

26. SPIEGARE L’ITALIA A GAMLA STAN
Capiti a Gamla Stan, Stoccolma, il centro della città. Tutto bello, tutto pulito. Ti indicano la cattedrale della città, con grande orgoglio. Bellina, per carità, ma almeno centocinquanta delle novecento chiese che abbiamo solo a Roma sono decisamente più imponenti e più belle. Quando poi ti fermi in un caffè e magari ridi troppo rumorosamente o fai casino con la bella ragazza che ti accompagna, ecco che senti uno sbuffo e una parola come una rasoiata: “Italiensk”. Italiani. E allora ti parte la ciavatta. Vai dal vichingo baffuto che ha osato, lo guardi pensandoci un attimo come Nino Manfredi in Pane e Cioccolata, poi con la mano sinistra sposti il foglio di carta marroncina ovviamente riciclata e biodegradabile che fa da tovaglietta, la destra gliela appoggi davanti e in italiano gli dici: “Senti, erede di gente che quando i miei antenati civilizzavano il mondo con il diritto i tuoi si litigavano le pelli di daino; cittadino di una nazione che fa finta d’essere felice e ha il record di suicidi; abitante di una città dove si mangia di merda e d’inverno si vede il sole, pallido, due ore al giorno. Noi italiani siamo i figli dei figli dei figli di Michelangelo e di Leonardo. Di chi sei figlio tu?”. Un secondo di silenzio, poi il vichingo mi voleva mettere le mani addosso. Ci hanno divisi e pace così. Pare incredibile ma è successo veramente, ero giovane e incline a una certa teatralità. L’ultima frase che gli ho detto l’ho copiata, è una citazione di Good Morning Babilonia, dei fratelli Taviani. Avrei potuto più ironicamente fare come Checco Zalone quando smonta l’insegna di un ristorante “italiano” a Oslo. Abbiamo un miliardo di limiti, come persone singole e come popolo, ma sono i nostri limiti e sono orgoglioso anche di quelli. Poi abbiamo una nostra grandezza e quella è inarrivabile.

27. CERCARE BOBBY SANDS

Sono cresciuto da bambino in una città dove si sparava ai cattolici. Ho fatto il chierichetto dall’età di sei anni, dunque ho militato da subito in questa squadra presa di mira: prima che compissi dieci anni a Roma avevano sequestrato e ucciso Aldo Moro, ammazzato Vittorio Bachelet sulle scale dell’università, assaltato la sede cittadina della Democrazia Cristiana (due morti), gambizzato il direttore del Tg1 e sparato al Papa. Capirete che il mio immaginario non poteva non trasformare queste vittime, colpite tutte a massimo due chilometri in linea d’aria da casa mia, in eroi. Poi ci fu la morte di Bobby Sands, militante cattolico rivoluzionario nordirlandese, condannato dagli inglesi a quattordici anni di carcere per le detenzione illegale di una pistola, in sciopero della fame dal 1 marzo al 5 maggio 1981, giorno della sua morte. Avrei compiuto dieci anni cento giorni dopo. Quella sua forma di resistenza così evidentemente cristologica ai soprusi che doveva subire, gli amici reclusi che lo seguono nell’estremo sacrificio, la sua elezione in Parlamento un mese prima di morire che non piega il regime tirannico che lo aveva incarcerato, sono una storia che si è impossessata della mia anima. Da “grande” lavoravo per un piccolo quotidiano che si chiamava Europa, andai in Irlanda del Nord e volli andare a trovare la tomba di Bobby Sands, rendere omaggio ai suoi 66 giorni consecutivi di sciopero della fame, fino alla fine, senza piegarsi mai. Altri nove morirono esattamente come lui. Il sacrificio immenso oltre l’umana sopportazione di Bobby e dei suoi amici non fu vano: ci vollero 17 anni, ma si pose fine alla guerra civile angloirlandese con gli accordi del Venerdì Santo, dopo migliaia e migliaia di morti. Nel 2007 l’esercito britannico si è ritirato dall’Irlanda del Nord, il comandante Bobby Sands ha vinto. Camminando verso il cimitero di Milltown dove è sepolto sotto una piccola lapide nera con altri due volontari dell’Ira, nel cuore dell’ex ghetto cattolico di Belfast noto come Falls Road, ho visto uno dei tanti murales che lo ricorda: “Il sorriso dei nostri bambini sarà l’unica nostra vendetta”. Ora i bambini protestanti e cattolici sorridono e giocano insieme anche in Irlanda del Nord. Bobby Sands è morto di fame con il corpo ridotto a scheletro stringendo tra le mani una croce d’oro inviatagli da San Giovanni Paolo II il 5 maggio 1981, aveva solo 27 anni. Il 7 maggio più di centomila persone partecipavano silenziose ai suoi funerali, il piccolo figlio di Bobby teneva per mano la giovane mamma piangente. Sei giorni dopo a Roma sparavano al Papa.

28. STRABUZZARE GLI OCCHI A NANCHINO
Nella vita ho avuto l’onore di servire la Repubblica non solo come deputato ma anche come dirigente pubblico preposto all’internazionalizzazione delle imprese. Ho aiutato le aziende italiane a farsi notare all’estero e ho raccontato da una posizione privilegiata alla stampa italiana quando sia straordinaria la nostra industria. Insomma, non siamo solo santi, poeti e navigatori ma anche, ad esempio, i più importanti creatori ed esportatori di macchini utensili al mondo, abbiamo imprese che sono gioielli tecnologici che il mondo ci invidia, è stata una tappa utile nella mia esistenza frequentare questa ricchezza e questa meraviglia che non è unicamente la moda o l’agroalimentare. Essendo inserito come dirigente nella pubblica amministrazione in questo comparto, ho dovuto viaggiare freneticamente per anni. Meta privilegiata dell’impresa italiana internazionalizzata: la Cina. Mercato infinito, ricchezza in crescita esponenziale, se vuoi fare business devi stare in Cina. Ho visto capannoni grandi come campi di calcio che m’hanno fatto strabuzzare gli occhi, fitti di operai tutti uguali vestiti di bianco, con cappuccio e mascherina, preparare pacchetti di caramelle a centinaia di migliaia al giorno per inondare il mercato mondiale. Ho visto la prima fabbrica automatizzata della Cina a Nanchino, dove gli Agnelli hanno imparato a mediare con il “commissario del popolo” (l’emissario del Partito comunista cinese preposto a tenere la disciplina degli operai ma anche a tenere sotto controlli i padroni, locali o stranieri che fossero). Ho visto Nanchino, sì, città mai citata dai sinologhi e anche giornalisticamente poco conosciuta, perché i cronisti italiani vanno solo a Pechino o a Shanghai. Ma un viaggio verso Nanchino è utile perché per arrivarci vedi la Cina profonda ancora rurale, delle baracche e dei pugni di riso, poi ti si para davanti una metropoli da nove milioni di abitanti (Roma, Milano, Torino e Napoli messe insieme fanno poco più della metà) e capisci definitivamente il concetto di “grande” e “affollato”. Nanchino ti spiega i parametri, è sempre utile averli presente quando si scrive dalla piccola Italia.

29. VIVERE VITTORIE E SCONFITTE
C’è questa cosa complicata nella vita di chi si mette in gioco: si vince e si perde. Bisogna imparare a vivere le vittorie e le sconfitte con analogo distacco. L’esistenza mi ha regalato alcuni momenti pubblici e privati esaltanti, altri molto deprimenti. Vivere a stretto contatto con la tua costante (vedi verbo numero 25) ti aiuta a sopravvivere a euforie e dolori, che sono ugualmente pericolosi. Ho fatto politica e sono arrivato in Parlamento, ho scelto il giornalismo e sono tra i dieci giornalisti della mia generazione (i nati negli Anni Settanta) che la gente riconosce per strada. ho giocato a poker e sono stato il primo italiano finalista al World Poker Tour, ho parlato davanti a milioni di persone, ho scritto libri e tantissimi li hanno acquistati e letti, regalandomi un tour continuo che dura da anni nelle bellissime città d’Italia. Ma sono anche quello de La Croce che non ce la fa a reggere nelle edicole, del PdF che non elegge parlamentari, della legge Cirinnà approvata nonostante le straordinarie mobilitazioni, della Juve che va in finale di Champions ma non la vince mai. Quasi mai, dai. Ero a Berlino quando la perderemmo con il Barcellona, ma anche a Roma quando la vincemmo con l’Ajax. Sempre a Berlino quando l’Italia vinse la finale di Coppa del Mondo, ma anche a Rotterdam quando perdemmo quella dell’europeo. E all’Old Trafford per la finale quella tutta italiana, ve la ricordate? Io no, ho cancellato tutto e tornato da Manchester la mia fidanzata d’allora che mi vedeva depresso m’ha aperto il blog: da lì, molto è cominciato. Insomma, per vivere bene vittorie e sconfitte bisogna mandare a memoria l’unica vera lezione: alla fine, l’importante è esserci.

30. AMMIRARE SAN PIETROBURGO
Ti ritrovi sulla Prospettiva Nevskij e come fai a non ricordare il racconto di Gogol, come fai a non canticchiare i tre minutini migliori di Battiato: “E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”. San Pietroburgo ha questa via centrale, lunga più di quattro chilometri che è già una meraviglia di suo ma poi vi fa sfociare nella inaspettata Piazza del Palazzo e vi giuro, andateci, resterete ammirati e totalmente senza parole, a bocca aperta come davanti a una qualsiasi delle ragazze di Leningrado che giustamente Carlo Rossella definiva “elicotteri da combattimento”. Pochi sanno che il Palazzo d’Inverno da cui la piazza prende il nome opera di un italiano, Bartolomeo Rastrelli. Ha 1.500 stanze e, questo invece lo sanno tutti, fu sede del governo provvisorio sovietico rivoluzionario del 1917 una volta cacciati gli zar che vi ci abitavano nel periodo invernale, da cui il nome. Oggi è parte del museo dell’Ermitage, il più grande del mondo, forse anche quello dall’esposizione più confusa. Comunque, se amate l’arte e non siete mai stati all’Ermitage, non amate l’arte: il suonatore di liuto (Caravaggio), la visione di Sant’Agostino (Filippo Lippi), il ragazzo accovacciato (Michelangelo), la Madonna Litta (Leonardo), la fuga in Egitto (Tiziano), la Sacra Famiglia con Giovannino (Pontormo), la Madonna Connestabile (Raffaello), il San Sebastiano (Perugino), i due amanti (Giulio Romano), il ritratto di coniugi (Lorenzo Lotto) si trovano lì insieme a una vagonata di opere di Van Gogh, Matisse, Monet, Renoir, Velazquez, Picasso, Cézanne, Rubens, Degas e chiunque altro vi venga in mente. A San Pietroburgo avrete freddo, se andrete d’inverno non vedrete mai il sole, ma vi rimarrà negli occhi. Si mangia male, alla russa. Vabbè, pazienza.

31. STUDIARE EDUARDO, PIRANDELLO E BECKETT
L’amore giovanile fu per il teatro, prima dei vent’anni scrissi pure qualche opera, chissà che fine hanno fatto. Conoscevo letteralmente a memoria praticamente tutte le opere di Samuel Beckett (facile, ce ne sono di brevissime e alcune anche senza parole), come i monologhi principali di Luigi Pirandello e Eduardo De Filippo. La passione per Eduardo l’ho portata in scena durante il tour di Voglio la mamma, più di trecento date in giro per l’Italia a presentare un libro che era praticamente incentrato su una citazione di Filumena Marturano che divenne centrale nella mia “predicazione” contro l’utero in affitto: “I figli non si pagano”, diceva la prostituta eduardiana devota alla Madonna delle Rose e lo stesso sono andato ripetendo io. Di Beckett mi fulminò l’intuizione della nostra condizione comica in un infinito senza Dio, dove non diventiamo tragici ma grotteschi. In fondo era la radicale conseguenza della considerazione pirandelliana sulla “inconsistenza” del nostro essere, divenuto nella contemporaneità praticamente impalpabile: siamo uno, nessuno, centomila e sempre personaggi in cerca d’autore, visto che all’Autore vero vogliamo schiaffare in faccia la nostra presunta capacità di autodeterminazione. Scrissi un saggio: “Il teatro della vita, la vita del teatro”, duecento pagine densissime che presentai all’esame di maturità scatenando l’entusiasmo dei commissari esterni d’esame, che ovviamente non lo lessero. Credo d’averlo scritto e letto solo io, me la sono cantata e suonata insomma. Peccato, c’era qualche idea tenera, di quelle che hanno i giovanissimi quando cominciano a pensare. Fratel Salvatore, il mio insegnante di lettere alla scuola cattolica che frequentavo, obbligava la classe ad abbonarsi alla stagione del teatro Eliseo fin dai quattordici anni. Mossa geniale, quanta gratitudine gli porto, quanta emozione la rappresentazione del monologo finale di Macbeth (a tale told by an idiot / full of sound and fury / signifying nothing), o la messa in scena in costume del Gabbiano di Cechov o anche scoprire che l’Apparenza Inganna con Bernhard e che l’Avaro di Molière è avaro davvero. Sempre grazie ai Fratelli delle Scuole Cristiane che m’hanno educato al buon teatro e sempre grazie ai teatranti che m’hanno schiuso lampi di vita su un palcoscenico facendomi sempre dimenticare che era recitata. Andate a teatro, non va di moda, ma non è tempo perso. Accende la testa, è benzina per il cervello.

32. SCRIVERE

Ho vissuto di scrittura e non è colpa mia, non so fare molto altro. Andai via di casa giovanissimo per fare il giornalista (papà mi voleva magistrato) e nel mestiere ho avuto fortuna: i quotidiani di area cattolica (il Popolo e Avvenire) mi hanno fatto arrivare fino al Tg1, per poi ritrovarmi a scrivere e condurre i miei programmi in radio e in televisione (Contro Adinolfi, Settanta in Due, Finimondo, Settimo Giorno per Raiuno e Pugni in Tasca per Mtv). Dal 1996 scrivo libri, dal 2003 ho scritto quotidianamente su un blog, poi dal 2007 si è aperta la stagione dei social. Per ogni contesto c’è una scrittura differente, ma la verità è che per me scrivere è come respirare, una necessità quasi fisiologica e dunque non passa giorno senza che io abbia scritto qualcosa. A sei anni scrivevo un diario, ricordo la prima frase in prima pagina: “Questo sono io” accanto a un orrendo disegno. Ecco, non so disegnare. Grande cruccio assieme a non saper suonare. Ma il mio dono è la scrittura, in fondo ripeto sempre all’infinito quella prima pagina di diario: “Questo sono io”. I disegni, immaginateli che è meglio. Spero che le mie parole attivino la vostra capacità di costruire contorni alle dimensioni che evoco.

33. PUTTARE SUL GREEN DEL SAINT ANDREWS
Siete mai stati in Scozia? Che bellissimi spazi che trovate in Scozia, regione trascurata di una Gran Bretagna che ormai è sempre più fagocitata da Londra, tentacolare metropoli cuore pulsante della società del ritmo indiavolato. In Scozia si recupera l’idea del tempo che sa dilatarsi, sa prendersi il suo ambito. Sono andato in Scozia con un solo obiettivo: giocare diciotto buche al Saint Andrews, anzi al Royal and Ancient Golf Club. Fondato nel 1754 nella cittadina scozzese dedicata a Sant’Andrea (l’apostolo morto su una croce a forma di X e una X bianca in campo blu è la bandiera scozzese che unita alla croce orizzontale rossa in campo bianco della bandiera inglese forma la bandiera britannica detta Union Jack) questo club golfistico è la mecca degli amanti del gioco più bello del mondo, il luogo dove ne sono state ufficializzate le regole, il Monte Sinai degli adoratori di bastoni e palline. C’è una lista d’attesa lunga due anni per giocare diciotto buche al Saint Andrews, ma ce l’ho fatta e pur essendo un golfista assai mediocre ho assaporato ogni minuto di quella passeggiata. Il Royal and Ancient Golf Club è terribilmente fuori moda, non ci vai a giocare in pantaloncini, non urli e non schiamazzi, se sei lento fai passare i giocatori più veloci senza discutere di precedenze. Se sei una donna puoi giocare sul percorso ma non potrai mai diventare socio del Club. I soci sono 2.400, rigorosamente solo maschi. Membro onorario del Club è il rettore dell’università di Saint Andrews. Quando rettore è stata eletta una donna, il Club le ha negato la membership onoraria. In una nazione che ha una Regina, niente male come forma di resistenza al politically correct.

34. ASSAPORARE LA TARTARE DELLA TIROLER KELLER
Alla Tiroler Keller (traduzione, cantina tirolese) di via Vitelleschi ci arrivate sbirciando San Pietro sullo sfondo di via della Conciliazione. Destra, sinistra e ci siete in un minuto. Non a caso una targa ricorda il tavolo dove Papa Benedetto XVI amava sedersi per mangiare gli ottimi canederli di cui è sempre stato ghiotto. Ci andava da cardinale però, da Papa non glielo consentivano e lui non voleva dar noie alla sicurezza. La Tiroler è un posto fuori luogo e fuori dal tempo nel cuore di Roma, nel cuore di Borgo Pio, dove t’aspetteresti di mangiare tutt’altro che il goulash, la padella Strogonoff, la wienerschnitzel, la fondue bourguignonne. Uno squarcio di cucina internazionale di altissimo livello nel cuore del regno dei ristoranti turistici. Quando ci andavo da ragazzino Pasquale mi preparava con le sue mani la tartare di manzo, ho scoperto lì che si potesse mangiare anche a Roma la carne cruda, dopo che papà mi aveva fatto assaggiare la fassona all’albigese in un mitologico viaggio a Torino per vedere il mio primo derby Juve-Toro al Comunale (frase culto di quel periplo padre-figlio, la visita ai piedi della Mole Antonelliana: “Ah, questa è la Mole Antonelliana, ok, andiamo a mangiare”...e come si mangia bene a Torino). Il problema è che Pasquale faceva due lavori, si spezzava la schiena per mandare orgogliosamente i figli all’università, deve essersi logorato fino a morire, insomma non l’ho più trovato alla Tiroler e hanno tolto la tartare di manzo dal menu. Gentilmente i proprietari anche oggi che sono diventato un vecchio bolso, mi preparano la tartare fuori menu. Come antipasto. Poi mi accendono il ghiottone grill sotto gli occhi, mi portano le salsine colorate dalle spezie e il naufragar m’è dolce in quel mare di carne da cucinare al tavolo a mio piacimento. Non portateci la fidanzata vegana.

35. SOGNARE UNA VITA A PARIGI

L’ho amata Parigi. L’ho amata perché ci ho vissuto

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04/09/2018
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