Società
di Alessandra Trigila
Punti di forza e di debolezza della scuola italiana oggi
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Desidero avviare questo mio contributo, centrato sulla scuola, trascrivendo alcune frasi tratte dal Codice di Camaldoli, nel quale leggiamo che “Non avendo la famiglia i mezzi per realizzare integralmente l’istruzione e l’educazione dei figli essa fa ricorso alla scuola, la quale, da chiunque sia istituita, resta sempre un’ausiliare della famiglia e non ha un potere originario, ma delegato dalla famiglia stessa, che aiuta, integra e supplisce. E ancora che “Essendo la famiglia direttamente responsabile dell’educazione dei figli, essa può e deve sorvegliare e controllare la scuola, sia quella privata sia quella pubblica”. In queste parole c’è tutto quanto serve per promuovere una profonda riflessione sulla libertà educativa e sulla libertà d’insegnamento, riflessione che spero venga accolta, meditata e arricchita.
Il programma del Popolo Della Famiglia prevede già una serie di punti, che riguardano la scuola: il primo è il contrasto all’ideologia gender in qualsiasi forma venga introdotta nei programmi scolastici; di seguito c’è la reale parificazione delle scuole non statali con applicazione del costo standard e dei buoni scuola; poi troviamo la rivalutazione economica e professionale degli insegnanti, in particolare quelli di sostegno e infine la reintroduzione dell’educazione civica negli istituti medi superiori. Propongo di articolare maggiormente la proposta, con ulteriori punti tra i tanti che meritano un approfondimento.
Uno di essi riguarda la gestione dei sistemi di chiamata e di trasferimento del personale scolastico e le modalità di formazione delle graduatorie. Con la legge 15 luglio 2015 n. 107, denominata “La buona scuola”, la mobilità del personale scolastico docente e non docente è soggetta a meccanismi, per i quali i dipendenti spesso devono trasferirsi in città lontane dal luogo di residenza, determinando così la separazione di nuclei familiari e il conseguente aumento delle spese logistiche. Questi provvedimenti non contribuiscono a stabilizzare la continuità di insegnamento nelle classi né a creare intesa e condivisione di intenti tra chi a diverso titolo lavora in ciascuna istituzione scolastica. Ora torniamo per un momento al 1974 quando, l’allora ministro dell’istruzione Franco Maria Malfatti firmò i decreti delegati, figli della legge delega 30 luglio 1973 n.477. Fu così che la scuola si aprì come si diceva in quegli anni “al sociale”. Non desidero in questa sede avviare una critica a quanto quarantacinque anni fa venne considerato come un cambiamento ineludibile, tuttavia penso che all’interno della scuola alcuni organi collegiali abbiano perduto significato e sostanza, mentre il cosiddetto territorio con la sua pletora di esperti sia diventata una presenza che spesso frammenta e disperde l’attività didattica in troppi e diversi progetti. Negli ultimi anni l’educazione di genere, il cosiddetto gender, ha fatto irruzione nella scuola proprio attraverso progetti pensati e proposti da associazioni presenti sul territorio e direttamente o indirettamente legate al mondo LGBT. Riterrei utile quindi una rilettura dei decreti delegati e quindi dei rapporti che intercorrono tra famiglia, scuola e territorio. In tempi più recenti, con la legge 28 marzo 2003 n.53, firmata dal ministro Letizia Moratti è stata introdotta nell’ordinamento scolastico l’alternanza scuola-lavoro, poi ripresa e valorizzata in successive norme, compresa La buona scuola. Il fine ideale di questo percorso formativo, che consiste nel calare l’esperienza scolastica nella concretezza dell’attività lavorativa, può anche essere condiviso, se strettamente legato alla specificità della scuola frequentata. Spesso ciò non accade e di fatto è possibile che tutto si riduca ad una sostanziale perdita di tempo, per lo studente e per l’azienda che lo accoglie. Inoltre, lo stage può svolgersi anche all’interno del variegato mondo associazionistico del terzo settore, eventualità che evidentemente aumenta il rischio di rendere l’esperienza dispersiva, mancando gli obiettivi prefissati.
Un altro punto dolente della scuola riguarda gli istituti professionali. Ritengo che andrebbero intesi non più e non solo come ripiego per gli studenti scadenti, ma come luogo di specializzazione professionale che valorizzi i molteplici aspetti attraverso i quali l’intelligenza si manifesta. Sono molte le persone che danno il meglio di sé attraverso il movimento e l’attività manuale: pensiamo ai danzatori, ai chirurghi, a tutti gli artigiani. Pensando al costante assottigliarsi di quest’ultima categoria di lavoratori, ritengo indispensabile la necessità di ricollegare le giovani generazioni alle filiere dei diversi cicli produttivi. Infine, vorrei rimarcare l’importanza del liceo classico come luogo di selezione e alta formazione inteso, oggi più che mai, come luogo di resistenza all’imbarbarimento culturale che avanza. Concludo, per il momento, affermando che la scuola, essendo un’istituzione destinata all’istruzione e all’educazione dei giovani, non può rispondere a logiche aziendali, dalle quali negli ultimi anni ha mutuato il linguaggio. Pensiamo a parole quali: debito, credito, competenze, produttività, indicatori; sono termini questi adatti ad un consiglio di amministrazione, ma non alla scuola, che non può e non deve individuare in argomentazioni e concetti ispirati dall’utile e dal profitto la sua ragione di essere.