Società

di Emiliano Fumaneri

Il capitalismo della seduzione

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Oggi non c’è virtù più bistrattata del pudore. La società sembra volerne fare a meno. Tutto è cambiato col ‘68, quando è definitivamente tramontata quella morale comune, radicata nell’etica del lavoro e del risparmio, che a lungo aveva unito lo spirito cristiano e lo spirito borghese. Le vecchie virtù del primo capitalismo (sacrificio, ascetismo, parsimonia, moderazione, temperanza, contenimento del desiderio) sono tramontate da un pezzo.

Il vecchio sistema socioeconomico è stato da tempo superato da quello che il filosofo (marxista) Michel Clouscard ha definito il «capitalismo della seduzione». Lo scrittore Rodolfo Quadrelli lo ha descritto con efficacia: «Mentre il capitalismo primitivo, fondato sull’ascesi razionalizzata dei vizi spirituali, non poteva permettere lo scatenamento degli istinti sessuali, il nuovo capitalismo, largamente spersonalizzato, può permetterlo; o addirittura, nella sua più recente versione, può raccomandarlo, inteso com’è a liberarsi dalla famiglia e dal risparmio, entrambi potenti remore ai consumi».

Per una ironica eterogenesi dei fini, la liberazione del ‘68, che pure affermava di volersi rivoltare contro il capitalismo, ha accelerato il passaggio dalla vecchia alla nuova fase del capitalismo promuovendo il consumismo, l’edonismo, il principio di piacere. C’è anche chi, come il filosofo Gilles Lipovetsky, non fa mistero di considerare la liberazione dei costumi come un semplice prodotto del capitalismo della seduzione.

La seduzione, certo, è sempre esistita. Ma nelle società antiche le strategie seduttive erano localizzate, ritualizzate, limitate dalla tradizione e dalla religione. Anche il matrimonio, fa notare Lipovetsky, un tempo disciplinava il desiderio, bilanciando il principio di piacere col principio di realtà.

Oggi non è più così. Matrimonio e famiglia sono aggrediti dalla seduzione e dal desiderio di piacere, che hanno invaso tutte le sfere della vita sociale: consumi, media, politica, educazione, cultura. È un processo che sembra non conoscere limiti nella sua aspirazione di imporsi come una logica onnipresente, generalizzata, che aspira a riorganizzare le sfere dominanti della vita sociale e le maniere di vivere. Le avanguardie del capitalismo seduttivo non cessano di alimentare questo processo, come testimonia la volontà espressa recentemente dalla pornostar Valentina Nappi di “pornificare” anche l’immaginario infantile (Antonio Morra su queste stesse colonne ha ben evidenziato i costi sociali di una simile “colonizzazione ideologica”).

Il nuovo capitalismo contrasta ogni manifestazione di quella che possiamo definire la cultura del limite. Una tipica espressione del limite è lo spirito di economia: la stabile disposizione interiore (habitus) che consente di accantonare riserve tanto nell’ordine spirituale (virtù, tradizioni e costumi sani) quanto in quello vitale (i figli, in primo luogo) e materiale (proprietà, terre, case, arredi, ecc.). Da questo punto di vista, osserva Gustave Thibon, lo spirito di economia si confonde con lo spirito di fedeltà e di sacrificio.

Economizzare significa essere capaci di riserva (dal latino “reservare”, conservare). Vuol dire mettere da parte, risparmiare, conservare qualcosa dell’oggi per il domani rinunciando alle sirene dell’attrattiva immediata e della istantanea retribuzione.

L’inimicizia tra il nuovo capitalismo della seduzione e il pudore si spiega facilmente. Il pudore prepara il terreno a quelle virtù di investimento che consistono nell’anteporre il dovere al piacere, l’avvenire al presente, e che assolvono, nel campo psicologico, il ruolo degli investimenti nella sfera economica. Tesaurizzare un capitale interiore di virtù richiede un deposito inziale da far fruttificare. Come accade per quelle piante che crescono solo se avvolte dall’oscurità, il pudore serve a propiziare un processo di lenta maturazione imprescindibile dalle nozioni di attesa, continenza, perseveranza.

La logica del pudore si può riassumere in questa massima: nascondere per donare. È in questo senso che il pudore va considerato come una propedeutica della donazione. Il pudore è preparazione al dono di sé. Possedere se stessi è condizione prima dell’offerta di se stessi. Non si può rinunciare, donandolo, a ciò che ancora non si possiede. Non c’è rinuncia di sé senza previo possesso di sé. Soltanto chi ha accumulato un patrimonio di abbondanti riserve in sé e attorno a sé è in grado di donare con liberalità e munificenza.

Di conseguenza il tempo della crescita è anche il tempo del nascondimento, del silenzio, del segreto e della discrezione. C’è autentica crescita solo laddove sono rispettate le ragioni dell’invisibile, dove si lascia spazio al mistero riconoscendo un ruolo al non-detto. Si cresce dove si sa accogliere l’implicito. È così che la privazione di oggi dispone alla fecondità di domani.

La società della seduzione sembra spostarsi giusto in una direzione opposta, tanto da aver fatto suo un undicesimo comandamento: tutto dev’essere mostrato, nulla va nascosto. Questa chiamata all’esplicitazione universale tradisce una non troppo segreta ispirazione. Le richieste pressanti che da più parti ci intimano di far trasparire ogni cosa di noi si muovono in corrispondenza col meccanismo della pubblicità, che consiste nel far vedere per far vendere. È il meccanismo della pubblicità: mettersi in mostra significa mettersi in vendita. Come vedremo tra poco, siamo agli antipodi del sistema del dono, che mira ad attestare l’irriducibile centralità del legame e l’unicità della persona.

Potremmo dire, parafrasando Pascal, che la donazione ha le sue ragioni, che la mercificazione non conosce. È una distanza ideale che si riproduce in un’operazione condivisa tanto dall’atto di donare quanto da quello di pubblicizzare: il confezionamento.

Confezionare un prodotto assomiglia solo in apparenza al confezionamento di un dono. Lo spirito, però, non è affatto lo stesso. La confezione, nella donazione, gioca una parte fondamentale: è un rito che comprende in sé tutto lo spirito del dono. Tuttavia è di vitale importanza che essa non mostri, ma piuttosto celi il bene regalato. Questo a dimostrazione che «l’essenziale è invisibile agli occhi», come ripete la volpe del “Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry.

Col nascondimento che vela di mistero il dono si vuole significare che a contare non è tanto l’oggetto nascosto, bensì il gesto, la cui centralità è sottolineata dalla bellezza della confezione nonché dalla sua successiva distruzione al momento del ricevimento del dono. È questo il segno che nella grammatica della donazione sta ad indicare l’appartenenza al registro antiutilitaristico della gratuità. Il rituale della confezione si incarica di assicurare quel minimo di dilapidazione che si accompagna al regalo, simboleggia il primato della relazione personale sull’aspetto utilitario della cosa donata.

È proprio la trasparenza delle confezioni commerciali a recare testimonianza di un significato assai diverso, addirittura opposto. La plastica traslucida con cui solitamente sono avvolti gli articoli commerciali sembra prefissarsi, paradossalmente, di separare il produttore dal consumatore; il senso è assicurarsi che niente della persona del produttore sia “trasmesso” al consumatore (nemmeno dei virus!). Questo scambio tra sconosciuti avviene in un clima di anonimato. Pertanto i rischi del contatto diretto vanno prevenuti nella misura più ampia possibile.

Il focus, la centralità qui spetta al bene di consumo. La confezione, oltre a garantire il filtro della profilassi, non serve che ad assicurare l’integrità del prodotto o per attirare il potenziale consumatore (si tratta pur sempre di vendere qualcosa). Il mercato ha interesse, più che a consultare il desiderio dei consumatori, di provocarlo. E per farlo ha bisogno di esibire. È la combinazione di queste due esigenze, prevenzione e attrazione, a giustificare una confezione che non cerca affatto di nascondere. Nulla vieta, pertanto, che possa essere trasparente.

Questa ideologia della trasparenza, afferma il sociologo Vanni Codeluppi, si colloca all’interno di un fenomeno di lungo periodo: il processo di «vetrinizzazione sociale».

Punto di partenza è l’introduzione della vetrina nei circuiti commerciali, che appare con la fine del tradizionale rapporto tra bottega e strada. A partire dal Settecento, auspice lo sviluppo delle città, una folla di anonimi compratori si sostituisce infatti alla clientela conosciuta e abituale. Questi nuovi clienti, sempre più frettolosi e distratti, abbisognano di incentivi per entrare nelle botteghe.

La vetrina nasce perciò come strumento di persuasione: in virtù delle mutate esigenze di commercializzazione dei prodotti è ora necessario esporre verso strada le merci. Lo spazio esterno del negozio diventa fondamentale per la sua capacità di attrazione visiva del cliente. In parallelo, il rapporto di compravendita diventa sempre più impersonale e anonimo, sempre più svincolato dallo scambio vivente tra acquirente e venditore: il cliente si affranca dal rapporto fiduciario col venditore e matura in solitudine la scelta del prodotto.

Col tempo la vetrina aumenta di dimensioni e si spettacolarizza. Determinante è la combinazione con l’illuminazione artificiale, che consente di amplificare la trasparenza del vetro. Il guadagno in forza comunicativa è più che evidente: giochi di luce sempre più fascinosi catturano l’attenzione del pubblico dei passanti, la strada si tramuta in platea. È così che la vetrina assume le parvenze di una specie di palcoscenico. Vendita diventa sinonimo di messinscena: l’effetto è una crescente spettacolarizzazione dei prodotti esposti (l’illuminazione tende a seguire, non a caso, le regole dell’illuminazione teatrale).

Il processo di vetrinizzazione sociale si intensifica a fine Ottocento con la produzione di una crescente quantità di merci consentita dalla seconda rivoluzione industriale. Uno sviluppo che moltiplica consumi e luoghi d’acquisto. Prendono forma così i grandi magazzini, dove l’opera di seduzione del consumatore è incrementata da una maggiore messa in scena delle merci. Il grande magazzino diventa il paradigma della società dello spettacolo: «si è trasformato esso stesso in teatro, perché la merce è stata trasformata in oggetto di uno spettacolo permanente».

La logica della vetrina, con la sua esposizione spettacolare dei prodotti, si è progressivamente diffusa nel corso del XIX secolo, estendendosi all’intero circuito degli spazi di vendita e consumo, che ha finito per comprendere superfici sempre più grandi. Nel Novecento, con la diffusione nel mondo del modello statunitense di centro commerciale, il processo di vetrinizzazione si è ulteriormente potenziato, rivolgendosi a tutte le tipologie di luoghi del consumo: alberghi, musei, ristoranti, cinema, parchi tematici, aeroporti, in ultimo internet, ecc.

Nella fase acuta del fenomeno, a cominciare dagli ultimi decenni del XX secolo, si è definitivamente istituzionalizzato il processo di vetrinizzazione della società. Sicché oggi tutto viene progettato e realizzato per apparire bello e seducente.

La “messa in scena” tende a estendersi a ogni aspetto della vita sociale. Tutto deve essere curato dal punto di vista estetico: dalle automobili alle divise delle squadre sportive, perfino gli abiti degli ordini religiosi e le stesse opere d’arte.

Fin dai suoi esordi, la vetrina è stata dunque il contrassegno della folla anonima e solitaria. E oggi è diventata il vettore dell’anonimato che ha invaso, in misura sempre crescente, l’intero corpo sociale. Non fa eccezione il corpo umano, anch’esso investito dalla marea della trasparenza (il «corpo trasparente»). Né deve stupire che il pudore, in una società della trasparenza dove tutto è esposto in vetrina, sia considerato al più una sorta di rudere.

L’obbligo di essere trasparenti diventa un vero imperativo sociale, osserva Codeluppi: «Se l’individuo si mette in vetrina, si espone allo sguardo dell’altro e non si può più sottrarre a tale sguardo. Se l’individuo si mette in vetrina, si espone allo sguardo dell’altro e non si può più sottrarre a tale sguardo. «Vetrinizzarsi» non è un semplice mostrarsi, che comporta la possibilità di trattenere qualcosa per sé. È un atto che implica un’ideologia della trasparenza assoluta, implica cioè l’obbligo di essere disponibili a esporre tutto in vetrina. Non è più possibile lasciare sentimenti, emozioni o desideri nascosti nell’ombra».

La società della trasparenza, afferma il filosofo germanico-coreano Byung-Chul Han, è il luogo in cui tutto diventa quantificabile come merce uniformata, ridotta al proprio valore di esposizione. «Le cose diventano trasparenti», scrive Byung-Chul Han, «quando rinnegano la propria singolarità e si esprimono interamente attraverso un prezzo. Il denaro, che rende ogni cosa equiparabile all’altra, abolisce ogni incommensurabilità, ogni singolarità delle cose. La società della trasparenza è un inferno dell’Uguale».

Nel dono, come nel pudore, si vela per rivelare un’essenza più intima, più profonda. È l’assenza qui a parlare. All’infuori della donazione, all’opposto, si rivela tutto, si mostra tutto. Ma in definitiva non si dice nulla di rilevante, si finisce anzi per velare l’essenziale.

L’impudica ostentazione del sé rischia di confinare l’umano in un corporeo disadorno. Un “io” assolutamente trasparente si incammina lungo la via della propria integrale mercificazione, inoltrandosi sui versanti dell’anonimato e dell’impersonalità.

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08/01/2019
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