Società
di Rachele Sagramoso
Sposatevi e figliate… spieghiamolo bene
Abbonati agli albi cartacei de La Croce e all’archivio storico del quotidiano
[…] Sposatevi e riempitevi di bambini.
Ci saranno loro a fianco a voi il giorno della vostra morte, non il datore di lavoro, non i vostri titoli di studio, non i clienti. I vostri figli e chi vi ha amato per una vita! […]”
Le considerazioni che muovo sul mio pezzo sul matrimonio -di cui riporto un frammento qui sopra- hanno deliberatamente o meno colpevolizzato una categoria di donne? Oppure traspare che sostengo solo le donne che hanno compiuto la scelta di essere madri?
Le domande che, infatti, mi sono state poste da chi ha commentato il mio scritto, sono state spesso le seguenti: le donne che lavorano o hanno necessità di farlo, o che vogliono dedicarsi a una passione che va oltre la famiglia, sono o potrebbero essere delle pessime madri? E, ancora, le donne che scelgono di non avere figli sono persone egoiste e insensibili?
E, per contro, le donne che invece scelgono di dedicarsi alla famiglia, sono delle persone un po’ ignoranti che si relegano in casa a fare le serve? O sono donne alle quale oggettivamente piace stare a casa? E, infine, le donne che fanno le madri, debbono dedicarsi solo a quello?
Quindi, per ultima, la questione sostanziale è: c’è un giusto mezzo tra quelle due questioni esposte? Ci sono delle verità oggettive con le quali è necessario commisurarsi nel momento in cui si parla i femminilità? C’è il modo di compiere scelte in modo equilibrato?
Per farlo, devo fare un pezzo di strada indietro e ripensare al mio lavoro di ostetrica. Sono sempre stata a fianco alle donne. A tutti i tipi di donne. Con alcune ho instaurato rapporti di lavoro, con altre relazioni di amicizia. Di alcune ho appoggiato le scelte, di altre ho giudicato superfluo affrontare argomenti che muovevano stimolare visioni differenti dal loro punto di vista. Di molte ho ascoltato le opinioni e le scelte tentando di far ponderare - con tutta la carità che riuscivo ad avere - l’opzione intrapresa. Quando preparavo le donne ad accogliere il proprio bambino, tra i tanti argomenti che mi sono trovata ad affrontare e, sicuramente, uno dei più spinosi, è quello dell’allattamento. Mi sono ritrovata più e più volte a portare l’attenzione non solo strettamente sulla pratica alimentare, ma includendo tutta una serie di altri ragionamenti connessi e collegati, tra i quali sicuramente includevo il diritto del bambino a una nutrizione biologicamente adatta a lui, il dovere degli operatori sanitari di dispensare consigli in modo acconcio e scientifico e il dovere dello Stato di tutelare la pratica dell’allattamento. Parto da qui poiché parlare di ‘maternità’ e ‘femminilità’ è molto simile a parlare di allattamento, poiché sono argomenti che discendono dai vissuti della donna, da quelli di chi sta a fianco alla donna (sua madre, il compagno, le amiche) e, non per ultime, dalle opinioni di quella donna riguardanti il lavoro e la professione.
Chi manifesta pubblicamente il fatto che il latte materno sia un diritto del bambino, che le donne dovrebbero allattare il proprio figlio e che dovrebbero essere sostenute a farlo il più possibile (difficile, talvolta, in una società che non supporta/sopporta la fisiologia), viene apertamente contestato da chi, al contrario, manifesta che le donne che non allattano - che scelgono di non farlo o che arrivano all’ardua decisione di non farlo per cause contingenti (tra le quali il poco sostegno da parte di sanitari e istituzioni) - non debbono essere messe nella situazione di sentirsi in colpa. Tuttavia io contesto apertamente questo automatismo: affermare che il diritto del bambino è essere nutrito al seno e che non farlo è sbagliato, equivale a dire che le uniche entità che dovrebbero sentirsi in colpa per le esigue percentuali di bambini alle quali è consentito farlo, sono le istituzioni che non promuovono tale pratica e tutti gli operatori che non la sostengono privatamente e pubblicamente, non certo le madri.
Tuttavia ciò non basta ai fautori del ‘senso di colpa’, poiché, quello che mi colpisce di più da quando ho osato dire che solo i figli e tutti coloro chi ci vogliono bene saranno vicini a noi al termine della nostra vita e che non sono solo la carriera, la professione o la propria realizzazione, quelle cose che danno vitale soddisfazione a una donna (se ha messo al mondo dei figli e se ha scelto di avere a fianco a sé una persona con la quale c’è un rapporto d’affetto), è il fatto che, affermare una verità oggettiva oggigiorno che può essere simile a quella che dice “Il latte materno è l’alimento biologicamente normale per i bambini” -, significa automaticamente spesso condannare o frustrare chi compie scelte differenti. Questo non è corretto: se la scelta compiuta è stata per lo meno ponderata, il problema non sussiste (cfr Allattamento e senso di colpa, di Jack Newman, tradotto da Antonella Sagone per La Leche League Italia). Lo ripeto con chiarezza: a essere condannabile è uno Stato che promuove Leggi che esasperano la famiglia, la frantumano e obbligano la donna a lavorare fino a che non ha le prime contrazioni del parto. Il ‘senso di colpa’ dovrebbe averlo lo Stato e chi non tutela i bambini e le loro madri!
Compiendo quella affermazione, non sto dando per scontato che chi compie la scelta diversa come può essere lavorare part-time o avere un’attività di volontariato, o diametralmente opposta, come chi ha scelto di non avere figli, sbagli. Come sempre quando s’intraprende la via del politicamente corretto, pare che io abbia espresso un personale pregiudizio chiaramente negativo nei confronti della donna avvocato (non mi convincerete mai a dire ‘avvocata’ a meno che non sia il “Salve Regina”), medico, docente universitario o anche operaio metalmeccanico e altro. Niente di tutto questo poiché io ho affermato una sola e unica verità: quando ognuno di noi sarà vecchio e vedrà la propria vita passata, i figli e i nipoti avranno un cospicuo peso fisico e spirituale, nell’arco della nostra vita.
Io do per scontato il fatto che una donna abbia necessità, desiderio, bisogno impellente, diritto di studiare, affinare la propria professione, andare a lavorare e prendersi del tempo per sé. Non a caso, uno dei libri che apprezzo di più delle edizioni de La Leche League è quello di Giorgia Cozza “Allattare e lavorare si può” (che viene subito dopo “Genitori di giorno e di notte” di William Sears, pubblicato dalla medesima associazione). Non per caso io posseggo un diploma, una laurea e sono attiva nel volontariato. Chi potesse compiere lo sforzo mentale, troverebbe anche il peso del fatto che la mia passione, oltre che cicalecciare con le amiche, sia scrivere.
Debbo compiere una seconda considerazione, a questo punto, collegandomi a quanto espresso in un altro articoletto (cfr I #dirittideibambini sono quelli di #stareconmamma, blog Sei di Tutto, Rachele Sagramoso) e di strettamente collegato con i diritti delle donne. C’è una fisiologia alla quale tutti noi dobbiamo soggiacere: un bambino, ogni bambino (nero, bianco, giallo, marroncino, rosso eccetera) ha bisogno della mamma per lo meno (che significa “è il minimo sindacale” e dipende in modo cospicuo soprattutto dal bambino e dalla relazione che si sta instaurando tra il bambino e sua madre) per i primi dodici mesi di vita. Non ci sono opinioni che tengono. E la mamma, per inciso, non è il ‘caregiver’ (colui che si prende cura, in inglese): è colei che, dopo averci generato, cullato, nutrito, partorito, ci alleva, ci educa, ci istruisce… Se fosse un compito semplice al quale tutti potessero ottemperare senza difficoltà, non si spiegherebbe perché i genitori di bambini adottati abbiano il compito difficile e delicatissimo di far sentire amato un bambino la cui madre non è stata in grado di occuparsi (cfr Parla una madre di molti figli di altre madri, La Croce del 11/01/2019, Rachele Sagramoso). Affermare il fatto che il bambino, per crescere, necessita di mamma (ovviamente pure anche di papà, ma è chiaro che finché la nutrizione è con la poppa, la mamma è una presenza per lo meno necessaria: quando poi si passa alle lasagne, non ci sono problemi se mamma non c’è) e che il ruolo di madre dovrebbe essere tutelato dal primo giorno di gravidanza (o dell’arrivo del bambino adottato) sino al compimento del terzo anno di età (e ci sono andata stretta) non è discriminare chi:
- non desidera avere figli: se la scelta è consapevole (penso ai consacrati, o anche solo a tante altre persone), non ci sono problemi di alcun genere.
- non riesce ad avere figli nonostante li desideri: non oso pensare al dolore che può provare una coppia che si trova in tali circostanze. Ne conosco alcune e posso garantire che affermare quali siano i bisogni dei bambini, non ha peso morale negativo sul desiderio che queste persone posseggono. Anzi: è sottolineare quanto il compiere scelte alternative (affido e adozione, ad esempio) sia ammirevole e dovrebbe essere più tutelato.
- desidera avere figli (o già ne ha), ma ha anche desiderio di acquisire una formazione professionale o volontaristica: l’affermare quanto un figlio ha necessità di essere curato/educato/nutrito in modo sano, non fa della madre che lavora nessun tipo di discriminazione. È affermare una verità fisiologica, biologica, scientifica piuttosto incontestabile. Il fatto che moltissime donne abbiano trovato nella maternità un loro scopo formativo e, casualmente, anche lavorativo, racconta, solo per fare un esempio, le vicende di tante consulenti per l’allattamento, consulenti per i metodi naturali, ostetriche, baby sitter, che hanno trovato nella maternità una dimensione professionale che le gratifica.
- desidera avere figli ma non se li può permettere lamentando problematiche economiche. Siamo abituati al benessere del possedere un cellulare (in effetti chi mi ha contestato questo, ha la possibilità di farlo, quindi ha un abbonamento mensile a una compagnia telefonica) e a pensare che un figlio abbia dei costi fissi estremamente alti. Ma cominciamo con il matrimonio. Sposarsi (contrarre un legame matrimoniale) non ha costi a meno che non sia prerogativo per la coppia avere le superficialità che fanno del matrimonio una celebrazione fastosa. I preti, come i sindaci, non hanno un costo. Ci sono molte persone che, pur di sposarsi, hanno scelto di avere come priorità la compagnia delle famiglie di provenienza (padre, madre ed eventuali fratelli) e di condividere un pranzo frugale. Vivere la gravidanza non costa nulla se ci si rivolge al consultorio più vicino alla propria residenza. Certo: nessuna ecografia in 3D o magari nessuna visita vaginale dal costo di 200 euro, ma i medici e le ostetriche consultoriali non hanno preso la laurea coi punti del Mulino Bianco. Partorire non costa nulla: abbiamo un SSN che lo consente. Un neonato, se allattato al seno (ed è per questo che bisognerebbe che le istituzioni sostenessero di più questa pratica), non ha bisogno d’altro. Niente pappe preconfezionate (l’auto-svezzamento implica che, oltre che il latte materno, il bambino mangi il cibo degli adulti). Suggerisco i pannolini lavabili da farsi regalare (le associazioni di mamme che regalano pannolini lavabili sono tantissime). Al contrario i pannolini usa e getta hanno un costo ammortizzabile dal fatto di allattare al seno. Non c’è bisogno né di lettini, né di carrozzine. Magari di una fascia porta bebé: stesso discorso che per i pannolini lavabili. Ci sono pacchi di gruppi facebook di mamme che si scambiano/cedono ogni tipo di oggetto per l’infanzia. Abiti: ogni Centro di Aiuto alla Vita ha un magazzino nel quale vengono raccolti indumenti nuovi per neonati. La carrozzina dei miei figli è la stessa da sei bambini più altri cinque non miei. Gli abiti lo stesso. Non facciamoci ingannare dal fatto che un bambino debba avere gli abiti firmati. Un adolescente, forse. Ma mia figlia riceve vestiti dalla zia e dalle cugine. E fa qualche lavoretto (cfr Bebé a costo zero e Bebé a costo zero crescono, Giorgia Cozza, Il Leone Verde Edizioni). Se una mamma pensa che deve andare a lavorare e più della metà dello stipendio andrebbe in una tata o in un asilo nido, potrebbe pensare di prendere in considerazione il fatto di stare col proprio figlio e di fare un lavoro più umile dove può portarsi il figlio (stirare per altre famiglie, fare le pulizie, fare la baby sitter per altre famiglie: tutti lavori onorabili e fattibili). L’autovettura: premettendo il fatto che chi lavora in città abbia a disposizione mezzi pubblici, spesso non serve: è un di più. La pizzeria il sabato sera, è un di più. L’abito firmato per il battesimo, è un di più. La vacanza all’estero, è un di più (ci sono molti campeggi bellissimi in tutta Italia, raggiungibili con treni o pullman). Dipende da cosa si vuole per se stessi. Ho avuto parenti che, per comprarsi una macchina, hanno mangiato carne solo la domenica per anni. Nessuno è morto di fame. Per anni la mia famiglia ha vissuto in 50 metri quadri: tutti i miei figli dormivano nella stessa cameretta in un letto a castello (uno sopra e due sotto). Per molto tempo abbiamo avuto una macchina: i figli li portavo a scuola in bicicletta. Ho amiche che hanno mariti con stipendi esigui, ma dignitosi, che hanno optato per fare lavori di sartoria e poi, una volta che i figli sono andati alla scuola materna comunale, hanno cominciato a lavorare con più regolarità.
Affermare “Fate figli perché è importante” o “Per i bambini è importante la madre” non significa affermare che le mamme sono migliori delle donne senza figli (mi è stato detto: “Ecco, tu accusi chi sceglie di non averli!”), o che le casalinghe sono meglio delle donne che scelgono di lavorare (mi è stato detto: “Discrimini chi sente il bisogno di realizzarsi), o, ancora, che le lavoratrici che sono felici di esserlo sono, in realtà, delle frustrate (mi è stato detto: “Abbiamo bisogno di lavorare! Tu discrimini chi deve farlo”). Non significa neppure, al contrario, che la donna che fa la madre felice di esserlo e che magari è fiera del fatto che il proprio marito sia dedito alla professione (e quindi si sia affermato, secondo l’ottica del pensiero comune), sia una povera mentecatta che è stata sottomessa al potente maschio ‘Alpha’: vuol dire solo che è una madre felice, una moglie contenta e una donna realizzata. E, per ultima, non significa dire che le donne che affinano una professione, dedicano tempo al lavoro (che è necesarissimo in talune famiglie), si appassionano al loro mestiere, siano delle madri negligenti: vuol dire che avranno preso certamente in considerazione i bisogni dei loro figli. Io so, infatti, che tutte queste madri sono consapevoli del fatto che i loro bambini necessitano di una presenza costante e che sia affettivamente capace di prendere - talvolta - il loro posto. Sono certa che si sappia che non si può delegare alla nonna, alla tata, all’educatrice del nido, all’insegnante, al professore, l’educazione del proprio figlio, poiché nessuno può sostituire la madre e il padre. Altrimenti, torno a dire, una madre varrebbe l’altra, un padre avrebbe lo stesso peso di chiunque altro, ma sappiamo tutti che non è così. Io sono sicura che tutte le donne che lavorano scelgono di farlo nel miglior modo possibile, ma che lo Stato deve consentire ai bambini di avere dei genitori presenti.
Io so che tutte le donne e gli uomini sanno benissimo che, se non protesteranno, manifesteranno, combatteranno perché possano avere il diritto di avere dei figli, la possibilità che qualsiasi governo ascolti loro è praticamente nulla. Io so che tutte le donne e gli uomini sanno benissimo che i bambini, per crescere, hanno bisogno di una famiglia unita. Io so che tutte le donne e gli uomini sanno benissimo che tutti i bambini hanno bisogno di vicinanza, cura, attenzione, educazione e non solo di ‘amore’. Io so che tutte le donne e gli uomini che lavorano, sanno benissimo che i loro bambini hanno bisogno di presenza quantitativamente importante e non solo qualitativamente adeguata. Io so che tutte le donne e gli uomini sanno che se non ci sbrighiamo, tra qualche anno avere un bambino sarà considerato un miracolo.