Politica
di Gabriele Marconi
Lo spazio politico al centro
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Con la polvere della mischia elettorale ormai posatasi, le valutazioni e i dibattimenti su vincitori e vinti hanno occupato le pagine dei giornali e i salotti televisivi per 2 settimane, aggiungendo spesso più confusione di quella provocata dalla ridefinizione degli equilibri di governo. L’esecutivo è stato rimasto in più occasioni appeso alla lama di un coltello (e il manico non era certo nel palmo del premier Conte), per rimandare la resa dei conti fino a quando gli screzi non anticiperanno troppo la massima resa elettorale del partner di governo oggi in vantaggio. Ha perso mordente il modello della “Terza Repubblica” che tanto impegnava i politologi solo un anno fa, ma non per questo ha ripreso fascino la riproposizione dei fronti storici. Se si ragiona di centrodestra, lo si fa nel probabile esito, più o meno lontano, della scomparsa di Forza Italia e della sua riduzione a sistema binario Salvini-Meloni (per cui “centrodestra” diventerà un termine obsoleto). Se si nomina il centrosinistra, è per salvare l’apparenza secondo cui il PD di Zingaretti sarebbe in ripresa percentuale (ignorando la flessione in numeri assoluti), scalzando il M5S dal ruolo di secondo polo e reclamando il ritorno alle istanze fondamentali della sinistra. Centrosinistra e centrodestra sono così evidentemente redistribuiti in una fase di ripristino, mentre l’elemento anomalo del M5S recede perdendo quasi la metà del consenso guadagnato un anno fa. Ma davanti agli elementi storici netti, un altro oggi meno appariscente ma non certo meno decorato nella storia politica del nostro paese è passato in secondo piano, pur avendo contribuito a delineare alcuni dei flussi di voto più significativi. Parte dei rappresentanti politici nel post-voto lo sta già invocando come chiave di volta dello scenario prossimo. Ma non è solo la classica retorica a farci parlare dei moderati, del Centro venticinque anni dopo la fine della Democrazia Cristiana, come alcune rilevazioni all’indomani della consultazione europea indicano senza possibilità di errore.
Un tipo di sondaggio in particolare ci rivela quanto sia decisivo il fattore “Centro”. Il sondaggio per “autocollocazione” restituisce infatti il sentito storico dell’elettore, l’area di appartenenza dichiarata, aiutando così a comprendere la transizione dell’elettorato dai partiti storici della 1a Repubblica, passando per blocchi dei bipolarismi imperfetti pro- o anti- Berlusconi, Prodi e Renzi, fino alle forze del più recente scacchiere politico. I primi a produrre questo tipo di indagine sono stati quelli di Tecnè (per Quarta Repubblica), che fotografa l’assoluta novità nei bacini di voto della Lega. Dei contributi al superamento del 34%, 1 su 5 proviene da elettori che si considerano di Centro: si tratta di circa il 7% di tutti i voti validi alle consultazioni europee, ovvero oltre 1 milione e 800mila elettori.
Il dato assoluto è particolarmente significativo. L’elettorato deutero-centrista neo-leghista individua un’area che non rinuncia a riconoscersi nel centro e che al contempo non è disposto a confluire nel centrosinistra fortemente tendente a sinistra di Zingaretti, né si lascia convincere da un revival dell’esperienza berlusconiana come rappresentante dei moderati, né può dare o confermare la fiducia ai pentastellati. Tecnè non riporta il dato al netto dei non-collocabili (ovvero rileva chiedendo ai campionati di riconoscersi in un’opzione storica, anche se preferibilmente lo rifiuterebbero), per cui si potrebbe immaginare che tanta attrattiva leghista per i moderati sia un effetto di campionamento grossolano. Lo fa invece Ipsos, che quantifica il voto per autocollocazione ma dalla prospettiva degli elettori anziché dei partiti beneficiari. Anche l’elettorato autodichiarato centrista si mostra in linea con il risultato complessivo per quanto riguarda la Lega: l’hanno votata il 33,9-34,1%, rendendola sorprendentemente la prima forza tra gli elettori di Centro, con una confluenza centrista in crescita dalle politiche di +10,7%. Perde il PD al 13,2-3% tra i centristi -5,7% (così come perde i pochi voti che aveva ricevuto da un elettorato di centrodestra per -1,9%, mentre guadagna al centrosinistra un +7,4%, per un sostanziale pareggio). Crolla il M5S al 25%, che era stato il grande catalizzatore del centro nel 2018 (quasi 2 voti centristi su 5), per una flessione del -14,4%. Forza Italia, al 12,2% al centro accusa solo un -2,8% (mentre dal centrodestra un -10,8%).
L’effetto è vistoso. Solo la Lega dei maggiori partiti ha saputo catturare l’attenzione dei moderati, 1 su 3 tra chi si dichiara “di Centro”. Nemmeno Forza Italia, che pure aveva inserito candidati caldeggiati dai satelliti e dalle correnti di centro (candidati con margini di eleggibilità) ha mantenuto la stessa fiducia del 2018. L’altro istituto che ha fotografato l’autocollocazione, Ixè (per HuffingtonPost) ha dati divergenti per l’elettorato centrista di M5S (33,0%), PD (9,5%) e Forza Italia (8,3%), ma riporta un dato molto vicino per la Lega (33,4%), confermandola su quell’ordine di grandezza. Solo l’astensione è più pesante trai centristi, 41,4-42,3% secondo Ipsos (46,0% per Ixé) e cresce anche sul dato relativo anche più della Lega, del 13,3%: l’astensione è stato dunque il flusso con la portata maggiore nell’area di centro (di circa 5 punti maggiore su centrodestra e centrosinistra).
Possiamo dunque quantificare di quanti elettori stiamo parlando quando diciamo “il Centro”? Comparando il dato di Ipsos con quello di Tecnè vediamo che quasi l’80% dei non collocati è astenuto (il 72% per Ixè), rimanendo perciò nei collocati obtorto collo un massimo di 20-25% votanti non altrimenti collocabili. Usando un’ipotesi di omogeneità, data dal fatto che secondo Ipsos il dato di chi ha votato Lega tra centristi e non collocati è pressoché identico al 34%, possiamo rimuovere 1 elettore su 5 dal totale dei centristi senza temere grossi errori di approssimazione. Con una minorazione di questo tipo, abbiamo un peso d’elettorato centrista verso la Lega di circa 1 milione e 465mila voti assoluti. Se esso vale il 34% di tutti i voti validi del centro, questi sono 4 milioni 300mila elettori accorsi alle urne (l’8,7% degli aventi diritto al voto), che si distribuiscono nelle altre forze maggiori con 570mila al PD, 525mila a Forza Italia e ancora più di 1 milione per il M5S. Ma i 4 milioni e 300mila corrispondono al 58% dell’elettorato centrista, mentre un altro 42% si è astenuto, ovvero circa 3 milioni e 100mila voti, per l’estensione dell’intero elettorato a 7 milioni e 400mila elettori, il 15% degli aventi diritto.
Nell’analisi razionale dell’area non si possono sottovalutare i flussi minori. Il 4% che ha votato piccole liste non sondate corrisponde a 170mila voti, un dato che si sovrappone quasi al 90% ai 194mila risultanti dalla somma di Popolo della Famiglia – Alternativa Popolare e Popolari per l’Italia (elettori di centrodestra si sono distribuiti solo per lo 0,7% in piccole liste). Non va sottovalutato che anche +Europa (5,0%) e Fratelli d’Italia (3,6-4,5%) hanno raccolto maggior consenso in quest’area. I primi sono oramai accreditati come forza con grande permeazione centrista, tanto che sono la lista in cui il peso specifico dell’elettorato collocato è massimo in rapporto all’elettorato complessivo: 213mila su 823mila elettori, più di ¼ proverrebbe dal centro. Un risultato che si deve in gran parte alle operazioni di apparentamento del Centro Democratico di Tabacci dalle politiche 2018 in avanti, con la concessione del simbolo; e delle sue truppe cammellate, che a gennaio 2019 hanno determinato l’elezione del segretario Della Vedova. In +Europa il peso di centro è così maggiore di quello di centrosinistra (vale in termini relativi, non assoluti), ma minore di quello di sinistra in cui ormai si identifica il grosso degli eredi del Partito Radicale, per una lista che accorpa contraddizioni culturali apparentemente (ed oggettivamente) insanabili, avendo come unico collante l’unionismo, ovvero l’europeismo pressoché dogmaticamente rivolto alle strutture e alle forme dell’Unione attuale. Eppure +Europa per l’elettorato centrista si è dimostrata più attrattiva delle due liste dichiaratamente popolari combinate, senza dubbio anche secondo la logica del “voto utile”. Così Fratelli d’Italia, che con la segreteria Meloni è ormai percepita come forza di centrodestra a tutti gli effetti più che di destra (vale il 14% del voto centrodestrorso contro il 13% di quello di destra, assorbito per oltre il 60% dalla Lega) e che come tale incamera anche consenso centrista per circa 174mila voti.
Nel rapportare questi numeri allo scenario delle prossime elezioni politiche si può capire immediatamente perché oggi la corsa si faccia in parte così significativa sul bacino centrista. Il picco di astensione e di crescita nell’astensione trai collocati e l’abbandono delle forze storicamente rappresentative, tanto della storia più recente come Forza Italia quanto di quelle che si rifanno all’eredità popolare (senza per questo rivendicare la carcassa della Balena Bianca), per la migrazione in soggetti ben più polarizzati indicano una flessibilità allettante per la crescita dei grandi partiti. Al massimo il 16% dei voti centristi - meno di 1 su 6 – è confluito su liste aderenti al Partito Popolare Europeo, segnale di un’area che non si entusiasma più per una cultura politica che l’aveva più o meno effettivamente, ma formalmente dominata per decenni, il popolarismo. Né si può sostenere che i popolari odierni siano stati più attrattivi per un elettorato di centrodestra, che ha scelto liste PPE al 21%, ma con un’astensione nettamente più bassa (al 25%). Se si considerano le due aree al netto della rispettiva astensione, si nota come sia tra gli elettori di centro corsi al seggio che tra quelli di centrodestra, coloro che hanno scelto liste PPE si assestino tra 27,5 e il 28% (se invece teniamo conto dell’astensione, per il centro vale il 10%, per il centrodestra il 15%). Ben meno di 1 elettore storicamente popolare su 3, poco più di 1 su 4 tra quelli pronti a rispondere alla chiamata elettorale si riconosce dunque nelle attuali forze popolari, un esodo di massa aggravato da un sistema proporzionale che dovrebbe premiare la rappresentanza secondo cultura politica. Per il centrodestra l’esodo assomiglia ad una deportazione, il drenaggio di un bacino che non accenna a rallentare nei sondaggi post-voto, visibile nella decisa ascesa di Fratelli d’Italia e Lega e il concomitante precipitare di Forza Italia. Una mobilità che però sembra anche aver già raggiunto l’apice della propria accelerazione, uno sfruttamento già verso l’esaurimento.
L’area ancora relativamente vergine ed orfana invece è quella più propriamente al centro, dove l’esodo si manifesta come una diaspora, che presenta sì moti inediti ed energici, ma ancora incapaci di canalizzare una maggioranza relativa interna. Il 7% proveniente dal centro (o il 5,5% al netto di non collocabili) ha fatto la differenza tra la vittoria (annunciata da tutti i sondaggi) e il trionfo (non previsto da nessuna rilevazione pre-elettorale in questi termini) della Lega, ma il +10,7% in autocollocazione rispetto alle politiche del 2018, ancorché unico flusso in positivo dell’area centrista, corrisponde ad un +3% sul voto complessivo. È lì che la Lega può ancora crescere; e può ancora crescere perché l’elettorato di centro, pur coinvolto nella risacca dell’onda leghista, ha mostrato ancora una certa resistenza. Se l’astensione di centro alle Europee si fosse posizionata al 26,4% (tra quella di centrosinistra e centrodestra), un altro milione e 145mila voti circa si sarebbero riversati nel quadro elettorale di cui, secondo le percentuali relative, 390mila alla Lega per un altro +1,4%. Con quell’astensione, una per così dire fisiologica per la consultazione europea, in totale il voto di centro sarebbe valso circa 5 milioni e 450mila voti, il 19,6% di tutti quelli espressi contro il 16,2% risultante il 26 maggio. La proiezione non si può però di certo estendere secondo la stessa distribuzione rilevata all’indomani del voto. Proprio i flussi evidenziati mostrano come quel milione e 145mila, il 4,1% dell’elettorato che sfugge all’astensione fisiologica e localizzato nell’area di centro (il 15-16% interno), non si sono smossi perché resistenti alle polarizzazioni estranee di Lega, PD e M5S. Una fetta consistente sia dei nuovi astenuti che dei confluiti nella Lega si deve ricercare nei delusi dai pentastellati, specialmente nel Meridione, ricordando che il 4 marzo 2018 i grillini avevano accarezzato il 40% dei voti centristi. Se da una parte è vero che il travaso di centro è stato un fattore determinante per ribaltare gli equilibri tra le forze politiche tra marzo 2018 e maggio 2019, dall’altra i moderati si presentano come i meno docili a lasciarsi inquadrare nelle forze esistenti.
Molti commentatori hanno voluto leggere nelle ultime settimane di campagna elettorale di Matteo Salvini un’esasperazione verso destra, la convocazione sotto l’insegna leghista di un elettorato di destra se non, secondo un lessico poco intellegibile, di “ultradestra”. In realtà non è difficile immaginare che di quell’elettorato Salvini disponesse già da mesi di misure reali e retorica securitarie. Il cambiamento di passo si deve piuttosto inquadrare su temi che hanno un’altra cultura politica di riferimento. Così dalla stretta annunciata sulla cannabis fino al riutilizzo di un elementare simbolismo devozionale in Piazza Duomo a Milano, il consenso che si andava a cercare e trovare era quello moderato, o di quei moderati che volevano ritrovare nel dibattito pubblico i propri temi e i propri linguaggi, trascurati dai grandi partiti. Non trovandoli, molti si sono accontentati di una loro parvenza, di una banalizzazione, di un’esibizione. Se è esagerato dire che Salvini ha divorato il centro come ha fatto con il centrodestra, di certo l’ha aggredito.
Il dato dell’autocollocazione colpisce infatti anche per la sostanziale sovrapposizione che si riscontra coi partecipanti alle funzioni religiosi. Non c’è naturalmente sovrapposizione numerica tra elettori di centro e praticanti cattolici (che sono molto più numerosi), ma è significativo che condividano la tendenza per quanto riguarda il consenso alla Lega in termini percentuali: rispetto al 34,3% totale, 34,1% per il centro, 32,7% per i praticanti settimanali. Un consenso che cresce per i praticanti occasionali (36,5%) e ancor di più per quelli mensili (38,4%). La forbice è più sottile coi settimanali, segno che la propaganda religiosa di Salvini ha colpito più su un’identità percepita come culturale che sul vissuto regolare della devozione. Nondimeno è evidente la condivisione generale di una dinamica di confluenza sulla Lega e sull’astensione (mentre è controtendente per PD e M5S), una dinamica che non si può ignorare e che certifica la sopravvivenza di cattolicesimo politico come fenomeno eminentemente di centro anche in un periodo di così larga vacanza di un soggetto aggregatore.
Come Salvini ha aggredito il centro, così altri oggi guardano a quei 7 milioni e 400mila di elettori per recuperare parte del divario. Il progetto di Calenda “Siamo Europei” vuole dragarne una parte verso un soggetto indipendente dal trascinamento verso sinistra del PD di Zingaretti ma ad esso alleato, per garantire una posizione satellitare di rincalzo ad una coalizione di centrosinistra, secondo la falsariga già adottata da +Europa, all’insegna di un’europeismo spinto (anche se forse meno dogmatico). Dal centro dovrà ripartire Forza Italia nel tentativo di non soffocare, non potendo arrestare nell’immediato l’emorragia di centrodestra, provando a rivendicare l’adesione ai popolari europei come elemento di garanzia mentre sempre più convintamente si adagia su schemi liberalisti. Lo scenario prevede dunque due forze di seconda fascia, una che chiama il centro ad una coalizione social-democratica, l’altra che prova a ritardare il più possibile l’estromissione da un centrodestra sempre più binario: una coalizione di centrodestra che si presentasse alle politiche coi risultati delle politiche sfonderebbe nei collegi di tutt’Italia, superando i 400 seggi alla Camera e i 200 al Senato, ma anche solo con Fratelli d’Italia la Lega si potrebbe avvalere di una maggioranza forte rispettivamente di 15 e 7 seggi (YouTrend su dati dell’Interno, il CISE della LUISS delinea una proiezione più benevola verso il centrodestra senza Forza Italia). I due satelliti nascono per rimanere aggrappati ai rispettivi blocchi, ma convergono su una visione non solo liberale, bensì più propriamente libertaria e liberista. Se la lista di Calenda dovesse ritagliarsi uno spazio più preminente nella coalizione, non è improbabile che venga colonizzata dai renziani e quindi usata quale canale di deflusso dal PD e come rampa per un nuovo soggetto che spazierebbe dal centrosinistra al centro. Allo stesso modo se Berlusconi non riuscisse a tenere il passo di Salvini e Meloni troverebbe in esso un corrispettivo di sponda al centro, a formare un blocco liberal-democratico dei moderati. Il ri-assetto passa comunque dal centro. Salvini e Meloni possono contare sugli incassi al botteghino del centrodestra solo proiettando repliche dello stesso spettacolo, ma per dare la spallata definitiva anch’essi dovranno cercare di aumentare le proprie quote di moderati, fronte sul quale il presidente della Liguria Toti potrà fare da avanguardia. Così il M5S, se vuole provare a risalire o quantomeno a limitare i danni, senza dare per persa un’area che li aveva premiati con tanto profitto solo 15 mesi fa.
Un 16-20% che con l’affluenza in crescita delle politiche potrebbe acquisire ancora più peso. Uno spazio politico abbandonato al saccheggio dei 5stelle un anno fa, ma ancora remunerativo secondo le mire dei grandi partiti. Uno stato di orfanità permanente per gli elettori di un’area che non riesce a prendere coscienza del proprio ruolo e di quanto la propria storia ancora ne influenzi le dinamiche. Quei 4 milioni e 300mila elettori centristi accorsi alle urne ricorderanno a pochi un dato pressoché identico, ottenuto quando l’astensione era inferiore al 15%. Il Partito Popolare Italiano di Martinazzoli alle consultazioni politiche del ’94 incamerò esattamente quel consenso numerico e valse l’11%: all’epoca fu l’unico soggetto di centro che si misurò col voto sul simbolo, mentre altri cercarono e trovarono seggi con accordi sul maggioritario. A 25 anni di distanza quell’area non ha più interpreti di peso capaci di superare gli sbarramenti, ma esiste e resiste, suscettibile alle tendenze prevalenti ma mai del tutto inerte, mai del tutto disponibile lasciarsi fagocitare in proposte politiche in cui non si riconosce. Questo alla prova dei numeri.
È dunque uno spazio politico che risponde per tratti culturali ed ordine di grandezza alle caratteristiche enunciate da Mario Adinolfi su queste pagine come primo bacino d’espansione contiguo ad un soggetto popolare unitario. Se questo soggetto si possa costruire a partire da attori come il Popolo della Famiglia, Alternativa Popolare e Popolari per l’Italia, è una discussione più difficile oggi che dopo le politiche del 4 marzo 2018. Su quelle premesse questi soggetti si ponevano alle Europee come titolari preferenziali di un voto centrista già misurato intorno al 2%, dato dalle somme delle politiche di Popolo della Famiglia, Nuovo Centro Destra e Civica Popolare, un consenso che non è stato riscosso nemmeno per la metà. Ma la partita si giocherà in buona parte al centro con o senza un tentativo di aggregazione popolare. L’alternativa è lasciare l’area centrista all’appropriazione di corpi ad esso estranei, che la orienterebbero a finalità politiche sconosciute alla tradizione del popolarismo e ad essa spesso inconciliabili. Un centro rappresentato, se non pienamente, quantomeno solidamente da un soggetto popolare, per quanto minoritario, invece avrebbe la facoltà di essere determinante per qualsiasi maggioranza nazionale e al contempo di essere protagonista nella maggioranza europea. Il primo passo non sta tanto nel domandarsi della sua effettiva praticabilità, quanto se quell’area possa restare, ancora e per quanto a lungo, non presidiata.