Società
di Daniela Baldanza
Un’esperienza di scienza e di fede
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Sul rapporto tra scienza e fede è stato versato molto inchiostro sin dall’antichità, attraverso contributi spesso autorevoli è stato forse detto tutto e il contrario di tutto, ma una cosa che ho imparato nella mia esperienza di insegnante e di genitore è che alle proprie domande non bastano mai le risposte degli altri e che ognuno ha bisogno di trovare le proprie.
Nel corso degli studi avevo attinto dai manuali un’idea di scienza come qualcosa di oggettivo, verificabile, cumulativo, empiricamente fondato, definitivo, capace di descrivere e prevedere l’evoluzione dei fenomeni; questa è infatti l’idea che generalmente se ne ricava a partire da una conoscenza di tipo manualistico. Su questo tipo di percezione si fonda una sorta di diffuso culto idolatrico della scienza e la tendenza a contrapporla alle verità di fede, considerate infondate, dogmatiche, relativisticamente alternative tra loro, spesso disprezzate come credenze frutto di ingenuità e ignoranza o come forme di superstizione.
Ricordo bene, infatti, quale fosse in proposito la mia idea al riguardo nella mia ingenuità adolescenziale: immaginavo che nella sua marcia trionfale di conquista progressiva della verità la scienza avrebbe soppiantato non solo le religioni, che per le ragioni che ho elencato consideravo forme inferiori di conoscenza, ma anche la filosofia. Essa, infatti, basandosi sulla speculazione, mi appariva come uno sforzo velleitario, una forma di conoscenza inconsistente e soggettiva che mi mostrava, attraverso posizioni alternative e talora antitetiche tra diversi pensatori, un volto arbitrario, dialetticamente confutabile ed empiricamente falsificabile; osservavo infatti ad esempio che la cosmologia di antichi pensatori veniva spazzata via da successive evidenze scientifiche. Nemmeno imbattermi nella filosofia popperiana - che pure sarebbe stata in grado di assestare un bel colpo alla concezione idolatrica che avevo della scienza - mi fu sufficiente a ricollocare la conoscenza scientifica nell’ambito di una prospettiva più realistica circa la sua natura e circa i suoi limiti.
Al termine del mio corso di laurea di carattere tecnico - scientifico il successivo studio della storia della scienza e della filosofia della scienza e i conseguenti approfondimenti di carattere epistemologico mi dischiusero una visione che fino a quel momento mi era stata ignota circa la natura della scienza e del progresso scientifico; in questo senso la lettura del saggio di Thomas Kuhn “La Struttura delle Rivoluzioni Scientifiche” fu per me tanto sconcertante quanto rivelatrice.
Nel suo saggio Kuhn esordisce paragonando l’immagine della scienza desunta dai manuali a quella della cultura di un popolo desunta da un opuscolo turistico o da una grammatica della lingua, denunciandone la diffusa percezione riduttiva e distorta come premessa per una riflessione di carattere epistemologico. Successivamente egli infatti, attraverso l’analisi storica di alcune significative fasi del progresso scientifico, ne mostra la natura essenzialmente non cumulativa: la scienza non procede cioè in modo lineare ma con forti discontinuità, alternando fasi di “scienza normale” e fasi di crisi e successive rivoluzioni che sfociano in un cambio di paradigma, un processo rispetto al quale Kuhn istituisce un’analogia con la rivoluzione necessaria a rovesciare un regime politico e instaurarne uno nuovo. La concezione kuhniana della scienza è quella di un percorso accidentato in cui il pregresso può essere messo in discussione e talora abbandonato definitivamente, capace di fornire risposte provvisorie, la cui validità è limitata dalla possibilità che la fenomenologia manifesti delle anomalie che mettano in crisi il vecchio paradigma ponendo l’esigenza di abbandonarlo e di adottarne uno nuovo. Un banalissimo esempio di questo meccanismo è storicamente quello dell’osservazione della produzione di energia termica per frizione, un’evidenza fenomenologica incompatibile con il modello descrittivo dei fenomeni termici basato sul fluido calorico, che determinò la necessità di abbandonare definitivamente quel modello ponendo al tempo stesso le basi per elaborarne uno nuovo di tipo cinetico.
In quest’ottica mi impressionò molto anche la lettura di alcuni classici della scienza: attraverso di essi vedevo i grandi protagonisti della storia della fisica confessare talora lo smarrimento davanti ad evidenze sperimentali che contraddicevano le premesse su cui avevano fondato la loro precedente attività di ricerca; si sentivano mancare letteralmente il terreno sotto i piedi mentre cercavano un nuovo appiglio su cui poter fondare le successive ricerche e in questo modo mi mostravano un volto inedito, più umano, come se il loro percorso fosse un sofferto brancolare nel buio privo di certezze.
Per queste ragioni la filosofia kuhniana fu duramente accusata di offrire un’immagine eccessivamente relativistica della scienza; a me tuttavia ha offerto l’opportunità di un sano ridimensionamento dell’idea che me ne ero fatta sin da bambina, fugando l’illusione che essa potesse essere l’unica ed infallibile via per giungere alla conoscenza della verità sul mondo reale; ho progressivamente maturato l’idea che la realtà sia meravigliosamente più complessa ed imperscrutabile di quanto sia strutturalmente accessibile alle possibilità umane, che all’uomo è dato indagare la realtà con gli strumenti dell’intelligenza, della tecnologia, della cooperazione scientifica, ma da creatura qual è non gli è dato di possedere il segreto del grande libro della natura frutto dell’opera del Creatore, del quale anche i dotti e gli intelligenti possono al più provare a balbettare.