Chiesa

di Raffaele Dicembrino

Papa Francesco: la Chiesa slovacca testimoni libertà, creatività e dialogo

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Il popolo slovacco necessita di una Chiesa “che forma alla libertà interiore e responsabile, che sa essere creativa immergendosi nella storia e nella cultura, e che sa dialogare con il mondo”. E’ questo il cammino che Papa Francesco indica ai 4 milioni di cattolici del Paese, ai duemila catechisti, ai 300 seminaristi, ai tremila sacerdoti, rappresentati da coloro che insieme ai 22 vescovi lo ascoltano nella Cattedrale di san Martino.

Dopo il saluto del presidente della Conferenza Episcopale Slovacca, l’arcivescovo di Bratislava Stanislav Zvolensky, che ribadisce l’impegno a “condividere il mantello con il povero” come fece il patrono San Martino, il Papa esordisce sottolineando di voler “condividere il vostro cammino, le vostre domande, le attese e le speranze di questa Chiesa e di questo Paese”, nello stile della prima comunità cristiana.

“La Chiesa non è una fortezza, un potentato, un castello situato in alto che guarda il mondo con distanza e sufficienza”, come il bel castello di Bratislava, in una Slovacchia “che è una poesia”, aggiunge improvvisando. La Chiesa è comunità “che desidera attirare a Cristo con la gioia del Vangelo”: non cediamo, ammonisce, alla tentazione della magnificenza, della grandezza mondana! Quanto è bella, esclama Papa Francesco, “una Chiesa umile che non si separa dal mondo e non guarda con distacco la vita, ma la abita dentro”. Usciamo, è dunque l’invito del Papa, “dalla preoccupazione eccessiva per noi stessi, per le nostre strutture” e chiediamoci: “Quali sono i bisogni e le attese spirituali del nostro popolo? Che cosa si aspetta dalla Chiesa?”. La risposta è sintetizzata in tre parole: libertà, creatività e dialogo.

Senza libertà, sottolinea il pontefice, “non c’è vera umanità”, e la storia della Slovacchia lo insegna: “Quando la libertà è stata ferita, violata e uccisa, l’umanità è stata degradata”. Ma la libertà “non è una conquista automatica, che rimane tale una volta per tutte”: è sempre un cammino “da rinnovare continuamente”. E questo è faticoso e ci spaventa, commenta. Perché a volte “è più comodo non lasciarsi provocare dalle situazioni concrete e andare avanti a ripetere il passato, senza metterci il cuore, senza il rischio della scelta”, facendo ciò che altri decidono per noi. E oggi, aggiunge parlando a braccio, “tante volte facciamo le cose che decidono i media per noi. E si perde la libertà”.

Citando il Vecchio Testamento, il Papa ricorda che il popolo d’Israele sotto la tirannia del faraone, liberato dal Signore, nelle fatiche del deserto rimpiange la schiavitù, quando “almeno avevamo un po’ di cipolle”. E’ la grande tentazione, commenta il Pontefice: “meglio un po’ di cipolle che la fatica e il rischio della libertà” e soggiunge: “A volte anche nella Chiesa questa idea può insidiarci: meglio avere tutte le cose predefinite, le leggi da osservare, la sicurezza e l’uniformità, piuttosto che essere cristiani responsabili e adulti, che pensano, interrogano la propria coscienza, si lasciano mettere in discussione”.

Ma, ammonisce Papa Francesco “una Chiesa che non lascia spazio all’avventura della libertà, anche nella vita spirituale, rischia di diventare un luogo rigido e chiuso”. Se alcuni sono abituati a questo, tanti altri, soprattutto tra i giovani “non sono attratti da una proposta di fede che non lascia loro libertà interiore, da una Chiesa in cui bisogna pensare tutti allo stesso modo e obbedire ciecamente”. Da qui l’invito del Papa alla Chiesa slovacca: “Non abbiate timore di formare le persone a un rapporto maturo e libero con Dio. Questo forse ci darà l’impressione di non poter controllare tutto, di perdere forza e autorità” ma la Chiesa di Cristo “non vuole dominare le coscienze e occupare gli spazi”, piuttosto “vuole essere una ‘fontana’ di speranza nella vita delle persone”.

Rivolto ai pastori, Francesco ricorda che anche se in Slovacchia, “sono stati avviati molti processi democratici”, la libertà “è ancora fragile”.

Lo è soprattutto nel cuore e nella mente delle persone. Per questo vi incoraggio a farle crescere libere da una religiosità rigida. Nessuno si senta schiacciato. Ognuno possa scoprire la libertà del Vangelo, entrando gradualmente nel rapporto con Dio, con la fiducia di chi sa che, davanti a Lui, può portare la propria storia e le proprie ferite senza paura e senza finzioni, senza preoccuparsi di difendere la propria immagine.
La seconda parola è “creatività”. Il Pontefice ricorda la tradizione che ha generato la Chiesa in Slovacchia: la predicazione e il ministero dei Santi Cirillo e Metodio, che “ci insegnano che l’evangelizzazione non è mai una semplice ripetizione del passato”. Per portare la buona notizia del Vangelo di Cristo, i due fratelli “arrivarono a inventare un nuovo alfabeto per la traduzione della Bibbia, dei testi liturgici e della dottrina cristiana”. Da “apostoli dell’inculturazione della fede”, inventarono “nuovi linguaggi per trasmettere il Vangelo, furono creativi nel tradurre il messaggio cristiano”. Non è forse questo, si chiede Papa Francesco, “il compito più urgente della Chiesa” per la gente d’Europa: “Trovare nuovi ‘alfabeti’ per annunciare la fede?” “L’annuncio del Vangelo sia liberante, mai opprimente. E la Chiesa sia segno di libertà e di accoglienza!”

Abbiamo sullo sfondo una ricca tradizione cristiana, ma per la vita di molte persone, oggi, essa rimane il ricordo di un passato che non parla più e non orienta più le scelte dell’esistenza. Dinanzi allo smarrimento del senso di Dio e della gioia della fede non giova lamentarsi, trincerarsi in un cattolicesimo difensivo, giudicare e accusare il mondo; serve la creatività del Vangelo.

Serve creatività anche nella pastorale e nella predicazione, sperimentando altre strade che non siano quelle ordinarie. E qui Francesco apre, parlando a braccio, la parentesi dell’omelia, già trattata a lungo nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium. Non è un sacramento, sottolinea, “ma è un sacramentale, è nel cuore dell’Eucaristia”. E ribadisce la sua preoccupazione: “Pensiamo ai fedeli, che devono sentire omelie di 40-50 minuti, su argomenti che non capiscono, che non li tocca … Per favore, sacerdoti e vescovi, pensate bene come preparare l’omelia, come farla perché ci sia un contatto con la gente” e prendete ispirazione dal testo biblico. “Un’omelia – ricorda - di solito non deve andare oltre dieci minuti, perché la gente dopo otto minuti perde l’attenzione, a patto che sia molto interessante”. Un professore che ho avuto di omiletica, diceva che un’omelia deve avere coerenza interna: un’idea, un’immagine e un affetto; che la gente se ne vada con un’idea, un’immagine e qualcosa che si è mosso nel cuore. Così semplice è l’annuncio del Vangelo! E così predicava Gesù che prendeva gli uccelli, che prendeva i campi, che prendeva questo … Con le cose concrete, ma che la gente capiva.

Ancora Cirillo e Metodio ci dicono, ricorda il Papa: “Non può crescere il Vangelo se non è radicato nella cultura di un popolo, cioè nei suoi simboli, nelle sue domande, nelle sue parole, nel suo modo di essere”. Eppure i due evangelizzatori furono accusati di eresia per aver “osato tradurre la lingua della fede. Ecco l’ideologia che nasce dalla tentazione di uniformare”. Ma l’evangelizzazione è un processo di inculturazione, sottolinea ancora Francesco.
Infine la terza parola: il dialogo. Una Chiesa che forma alla libertà e sa essere creativa, per il Pontefice “è anche una Chiesa che sa dialogare con il mondo, con chi confessa Cristo senza essere ‘dei nostri’, con chi vive la fatica di una ricerca religiosa, anche con chi non crede”. Una Chiesa che, annunciando il Vangelo, “fa germogliare la comunione, l’amicizia e il dialogo tra i credenti, tra le diverse confessioni cristiane e tra i popoli”. Ma unità, comunione e dialogo “sono sempre fragili”, ricorda Papa Francesco “specialmente quando alle spalle c’è una storia di dolore che ha lasciato delle cicatrici”:

Il ricordo delle ferite può far scivolare nel risentimento, nella sfiducia, perfino nel disprezzo, invogliando a innalzare steccati davanti a chi è diverso da noi. Le ferite, però, possono essere varchi, aperture che, imitando le piaghe del Signore, fanno passare la misericordia di Dio, la sua grazia che cambia la vita e ci trasforma in operatori di pace e di riconciliazione.

E qui il Papa ricorda il proverbio slovacco: “A chi ti tira un sasso, tu dona un pane”, che, dice, è molto evangelico, perché segue l’invito di Gesù “a spezzare il circolo vizioso” della violenza, a “vincere il male con il bene”. Francesco conclude evocando la testimonianza del cardinale Korec, tra la gioia dei presenti, gesuita “perseguitato dal regime” e imprigionato, “finché si ammalò”. Eppure, arrivato a Roma per il Giubileo del 2000, “andò nelle catacombe e accese un lumino per i suoi persecutori, invocando per loro misericordia. Questo è Vangelo! Cresce nella vita e nella storia attraverso l’amore umile e paziente”. L’augurio finale del Papa, per la Chiesa che è in Slovacchia, è “di continuare il vostro cammino nella libertà del Vangelo, nella creatività della fede e nel dialogo che sgorga dalla misericordia di Dio”,

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13/09/2021
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