Società
di Luigi Ercolani
La vernice variopinta di Hollywood
Abbonati agli albi cartacei de La Croce e all’archivio storico del quotidiano
Nell’ipocrisia del mondo liberal succede anche questo: si produce una serie tv che narra di Anna Bolena e si sceglie un’attrice afroamericana per interpretare la protagonista. Questo bias storico, perpetrato in ossequio alla rappresentatività radicale che ormai viene bruscamente sbattuta sul volto di chi vorrebbe solo godere di una narrazione piacevole, viene giustificato dicendo che si tratta semplicemente della persona giusta per il ruolo, non dell’aspetto” giusto.
Ora, a parte il maldestro tentativo di negare l’evidenza, sorge spontanea una domanda: visto che gli episodi di cosiddetto blackwashing stanno diventando sempre più frequenti, perché i legittimi tentativi di dare una maggiore rappresentatività alle minoranze, in una Hollywood che troppo spesso è stata terreno di caccia dei soli maschi bianchi (e questo è altrettanto innegabile) non vengono ridiretti a favore di racconti misconosciuti, magari coinvolgendo anche le realtà cinematografiche non-statunitensi meno ricche, piuttosto che di riscritture forzate della storia o della società?
Per fare un esempio pratico: invece che una Anna Bolena di colore, che oltre a essere un errore macroscopico anzitutto dal punto di vista storico è stata anche rappresentata diverse volte, non sarebbe stato meglio raccontare la storia di Ellen Johnson Sirleaf, ventiquattresima presidente della Liberia e prima donna a ricoprire tale ruolo? Oppure quella di Sylvie Kinigi del Burundi, pur se il suo fu solo un governo ad interim di sei mesi? O, se volessimo spostarci di continente, la storia di Sirimavo Bandaranaike, che nel 1960 diventò la prima donna al mondo ad ottenere la carica di primo ministro di uno stato (Ceylon allora, oggi Sri Lanka)?
In tutti e tre i casi si tratta di personalità interessanti, su cui sarebbe interessante proporre un edutainment, ovvero un intrattenimento che allo stesso tempo possa essere una gustosa lezione di storia. Eppure a Hollywood nessuno si è posto il problema: viene il sospetto che in realtà la rappresentatività da quelle parti interessi il giusto, e che l’unico scopo di questa tendenza sia dare una mano di vernice variopinta (l’espressione corretta è “di bianco”, ma in questo caso suonerebbe alquanto ironica) su storie già conosciute per creare polemica, e allo stesso tempo fare in modo che, nelle stanze dei bottoni, resti tutto com’è, compreso il punto di vista anglo-centrico.
“Cambiare tutto perché non cambi nulla”, insomma: non che quella gattopardiana sia una strategia nuova, ci mancherebbe, ma bisogna ammettere che la tenacia e l’aggressività con cui si è fatta strada questa escalation erano largamente inimmaginabili. Volendo prendere a prestito (absit iniuria verbis) il pensiero di Immanuel Kant si potrebbe affermare che i board hollywoodiani stiano cercando di cambiare i valori del fenomeno (ciò che appare, quindi i prodotti) lasciato inalterato il noumeno (loro stessi).
Un’operazione che però, alla lunga, potrebbe finire con l’avvelenare gli animi. Le premesse in questo senso non sono ottime: è successo, ad esempio, che nell’edizione degli Oscar del 2018, che ha visto premiati diversi afroamericani ci sia stata un’attrice che si è lamentata per la scarsità di presenza femminile. Insomma, tira la coperta da una parte, tira dall’altra, alla fine è sempre corta e qualcuno rimane scontento.
Il desiderio di vedere sullo schermo (piccolo o grande che sia) qualcuno che ha le stesse caratteristiche non solo morali, ma anche etniche, è sacrosanto. Il problema sorge quando questo desiderio diventa diffuso e sistematico, di fatto creando quasi una richiesta di “quote” che potrebbe, alla lunga, espellere dal quadro chi ha competenze per svolgere una mansione, ma non le giuste caratteristiche fenomeniche, per tenere buono l’amico Kant. Crinale delicato, sicuramente: l’acquisizione di risorse umane è già difficile di per sé, e diventa impervia quando si tratta di impieghi creativi, invece che meramente esecutivi. Dunque è difficile dare una risposta corretta al problema, che sicuramente, però, non si risolve con le forzature storiche o con le lamentele ad hoc sui social per aumentare la propria buona reputazione. Occorre equilibrio, buon senso e onestà intellettuale: è chiedere troppo?