Storie
di Carlotta Toschi
Il carcere
Abbonati agli albi cartacei de La Croce e all’archivio storico del quotidiano
Sono figlia e nipote di avvocati e il mio primo contatto con il carcere è stato da piccolissima.
Ricordo che a scuola la maestra ci fece fare un tema dal titolo “dove è oggi il tuo papà” e io scrissi con candore che papà era in carcere. Questo scatenò il panico nelle maestre e nella preside che chiamarono con urgenza la mamma, avvocato anche lei, per chiarimenti. Ed altrettanto lei con candore confermò che il marito era davvero in carcere quella mattina. Scampato il dramma per quella mattina, ho raccontato questa storia perché sono onorata di parlare oggi con voi di carcere perché credo di poter dare un contributo per conoscenza diretta. Un piccolo contributo perché sono solo un piccolo avvocato di provincia.
Battersi contro l’ergastolo ostativo e contro la morte in carcere è un piccolo progetto, una piccola battaglia che porto avanti in autonomia come avvocato. Poi ho portato l’idea all’interno del mio partito che è il Popolo della famiglia. Il partito che è contro tutte le forme di morte e per la tutela e la celebrazione della vita. Una vita che è sempre degna di essere vissuta. Siamo contro all’aborto, a favore della vita, siamo contro ad un sistema che permetta ad un essere umano di morire in condizioni disumane e cioè, in questo caso, scontando una pena che, anche se non è scritto sulla carta, è una pena di condanna a morte. È argomento denso di implicazioni filosofiche sociali e giuridiche.
Per la Repubblica italiana nessuna persona mai dovrebbe persa per sempre. Lo leggiamo, a volte espressamente ed a volte tra le righe, in ogni articolo della costituzione. La corte ha abolito la pena di morte senza se e senza ma. è caduta l’unica eccezione che era prevista costituzionalmente al principio secolarizzato del finalismo rieducativo penale che è andato a recuperare la propria natura di paradigma costituzionale che io leggo così che per l’Italia nessuno deve restare indietro mai. A questo paradigma vanno commisurati ovviamente tutte le misure incidenti sulla libertà personale. Tutte quante, ergastolo compreso. Perché per il nostro ordinamento, ricordiamo, la pena deve tendere alla risocializzazione del condannato. Questo lo diceva anche Beccaria. E quando parliamo di ergastolo sinceramente, la questione della riabilitazione sociale neppure si pone perché è una misura di carattere eliminativo. Qui violiamo la costituzione perché la riabilitazione sociale non può mai essere integralmente sacrificata. Io non posso e non riesco a pensare che lo Stato non abbia alternativa, anche per i reati che comportano l’ergastolo.
L’uomo è un animale sociale. È così che Aristotele definì l’essere umano, in quanto capace di unirsi in gruppo e costituire una società, ovvero, un insieme organizzato di individui. Il ritiro sociale o l’impossibilità di passare del tempo con le altre persone rappresentano una caratteristica di parecchi disturbi psichici, a dimostrazione del fatto che l’interrelazione è una peculiarità dell’essere umano.
L’ergastolo è una pena senza fine, una tortura che umilia la giustizia, la vita e Dio.
Non possiamo sempre essere considerati cattivi e colpevoli per sempre e una pena che lo Stato deve reputare giusta deve avere un inizio e una fine, perché una condanna che non finisce mai, non potrà mai rieducare nessuno. Dopo così tanti anni di carcere, alla fine non si punisce più l’uomo, l’essere umano che ha commesso il crimine ma si finisce per punire una persona che con quel delitto non c’entra più nulla perché la persona spesso è cambiata. Perché il perdono fa più male della vendetta e il perdono ci costringe tutti a non trovare dentro di noi giustificazione per quello che abbiamo commesso.
In Italia abbiamo ergastolani che al momento del loro arresto erano giovanissimi ed invecchieranno e moriranno in ergastolo, in carcere, senza avere nessun tipo di possibilità di rimediare al male che hanno procurato. Non c’è redenzione.
La parola “ergastolo” deriva da greco “ergon”(azione) e “ergàzomai” (lavorare): inizialmente designava il luogo (“ergasterium”) dove venivano custoditi gli schiavi a fine giornata lavorativa. Non aveva funzione di pena. Solo con l’antica Roma l’ergastolo acquista fisionomia punitiva ed era riservato ai ribelli, agli irrecuperabili. Includeva l’obbligo del lavoro in condizioni dure: la cosiddetta damnatio ad metalla. Ma il dato certo è che l’antichità non prevedeva pena detentiva senza una fine per i cittadini liberi.
Come è accettato senza incertezza il concetto di schiavitù (presente persino nei Vangeli), così è “evidente” che l’ergastolo, cioè una privazione della libertà usque ad supremum exitum vitae non è pensabile per l’uomo-cittadino.
Anche nel medio evo: per gli uomini liberi si applica la detenzione senza termine finale. La segregazione perpetua era prevista solo dal diritto ecclesiastico per gli eretici ma veniva sempre contemplata la possibilità di recupero, quindi, compare la prospettiva del pentimento come mitigazione della pena perpetua. Con il codice Zanardelli abbiamo abolito la pena di morte ma il regolamento carcerario del 1891 prevedeva l’ergastolo accompagnato da limitazioni e segregazione cellulare perpetua, quasi ci fosse una preoccupazione a sottrarsi a critiche di benevolenza nei confronti di certi delitti. Mi viene in mente Foucault che sottolineava la “libidine nel tormento attraverso la giustizia”.
Negli anni 70 – 80 arriva l’impennata del fenomeno mafioso. Piersanti Mattarella, Peppino Impastato, Carlo Alberto dalla Chiesa. Poi il maxiprocesso di Palermo che culmina nell’assassinio di Falcone e Borsellino. La risposta dello stato ovviamente e giustamente è severa. Nel nostro quadro ordinamentale il condannato all’ergastolo che pure abbia validamente compiuto il suo percorso rieducativo e che abbia interrotto ogni collegamento con la criminalità organizzata ma che sia ancora oggi in grado di aiutare concretamente l’AG per la ricostruzione dei fatti oppure l’individuazione o la cattura degli autori dei delitti sembra non poter accedere ad alcun beneficio se non rivela in sostanza i nominativi di eventuali correi. Sono d’accordo che l’ordinamento possa ritenere di ricollegare effetti premiali alla collaborazione con la giustizia ma si tratta di altro: far dipendere determinati effetti in malam partem dalla mera circostanza della non collaborazione alle indagini.
Ed è così che per una larga parte di condannati, siamo tornati al “fine pena mai”. Vengono in mente le parole di Pietro Ingrao: “io sono contrario all’ergastolo prima di tutto perché non riesco ad immaginarlo“. O ancora il grande Luigi Ferrajoli “l’ergastolo non è una pena assimilabile alla reclusione, ma è una pena da essa qualitativamente diversa, assai più simile alla pena di morte che non a quella della privazione temporanea della libertà personale“.
Abbiamo abolito la pena di morte ma non abbiamo abolito la pena di morte da vivi, l’ergastolo. Volendo si può ravvisare un avvicinamento della condizione dell’ergastolano a quella degli arti detenuti in materia di sovraffollamento carcerario (ricordiamo la sentenza Torreggiani): in questo caso, abbiamo una situazione irragionevolmente deteriore dell’ergastolano non collaborante che non potendo fruire di liberazione condizionale visto che non ha un fine pena, perde anche ogni possibilità di risarcimento per detenzione sofferta in condizioni di disumanità.
Quando è nata l’Unione Europea la maggior parte degli stati che la costituirono prevedevano la pena di morte. Oggi tutti l’hanno abrogata. Lo sforzo ulteriore sarà affinchè l’ergastolo scompaia dal ventaglio delle sanzioni penali: si tratta non solo di un gesto di umanità ma anche di restituire alla magistratura la responsabilità loro propria di decisione ed ai rei il diritto ad avere una speranza. Non è un salto nel buio badate bene ma è solo l’applicazione del principio per il quale non potremo mai essere sepolti definitivamente da un singolo gesto compiuto. La speranza è essenziale per vivere e sono certa che gran parte della popolazione detenuta oggi in Italia ha modo di utilizzare bene per riflettere il tempo carcerario trascorso.
Carlotta Toschi
Avvocato
Portavoce Regionale Popolo della Famiglia Emilia Romagna